L’infermiera che li aveva fatti accomodare in sala d’attesa aveva il rossetto secco. È strano, quando si è agitati si notano le cose più sciocche.
La stanza in cui erano seduti era estremamente elegante. Il dottore aveva detto che avrebbero chiamato il primo entro qualche minuto, dovevano ancora finire di sistemare i macchinari e poi avrebbero iniziato la seduta. Aveva usato proprio quella parola, seduta, e a Olimpia era suonata strana, fuori luogo in un certo senso. In ogni caso lei non sarebbe entrata per prima, sarebbe toccato a lui. Sul tavolino di fronte a loro c’era un vaso di fiori recisi, dei narcisi gialli. Dove mai li hanno trovati dei narcisi a Londra in questa stagione?, si chiedeva Olimpia; ecco un’altra osservazione inutile da agitazione. Cosa ci facevano lì anche loro due, dopotutto? Se era vero ciò che aveva detto il dottore, quella sensazione di disagio sottile sarebbe scomparsa entro poche ore. A essere onesti, aveva detto che sarebbe scomparso tutto. Alla fine dell’esperienza, anzi della seduta avrebbero dovuto ingerire una pastiglia che avrebbe cancellato il ricordo di quel tardo pomeriggio. “Vi dimenticherete di tutto,” aveva detto “come due pesci rossi”. In quel momento Olimpia realizzò che alle spalle del dottore c’era un quadro composto da fitte pennellate rosse. Erano dei pesci rossi astratti e lei non se ne era resa conto. Si girò per chiedere a Daniel se lui se ne fosse accorto, ma in quel momento una dottoressa li chiamò perché il primo dei due iniziasse la seduta. Il loro era un incontro fatto a scatole cinesi, una scoperta alla volta.
*
Si erano conosciuti una sera di novembre. Lei era arrivata da poco in città e aveva accettato un orrendo lavoro da hostess a un party; l’usciere, si era autodefinita: aspettava gli invitati davanti all’ingresso del locale – un vecchio magazzino tirato a lucido da un gruppo di architetti visionari, according to Time Out – spuntava il loro nome sulla lista e li faceva entrare. Easy peasy. Lui invece era stato attirato alla festa da gloriose promesse di birra gratis, promesse che si sarebbero rivelate veritiere. Era arrivato a bordo di una stupenda bici sportiva e, nonostante fosse un freddo autunno, indossava solo una camicia di flanella e dei pantaloni leggeri. Mentre Olimpia era occupata a spuntare i nomi di altri tre ospiti, lui aveva legato la bici e si era diretto verso l’ingresso. Chi è questo vestito “di panno”? aveva pensato lei inizialmente. Poi, a una seconda occhiata, si era accorta che tanto male non era: il suo viso aveva dei lineamenti storti e affascinanti e due enormi occhi verdi, bellissimi. Si aggiudicò immediatamente un cuoricino del suo Tinder mentale. Un saluto, uno scambio di battute e l’intesa si era creata naturalmente, lasciando poco spazio agli imbarazzi. Tra le birre che lui le avrebbe portato fuori di straforo durante la serata e il suo accento di East London il copione sembrava già scritto. Verso mezzanotte si diressero all’appartamento di Olimpia.
L’appartamento affacciava su un punto nodale di uno storico quartiere di West London, a dieci metri dalla linea immaginaria in cui si era fermata la riqualificazione della zona. Se da un lato della strada si trovavano fruttivendoli, fiorai e bistrò alla moda, dall’altra c’erano case sovraffollate, off licence agghiaccianti e spazzatura abbandonata nei vicoli. Bastava attraversare l’incrocio per rendersi conto della differenza. Il quartiere però era divenuto meta ambita, grazie soprattutto all’equilibrio che avevano raggiunto i suoi abitanti: chi era stato incluso nel processo di abbellimento si era lasciato trasformare senza troppe storie; chi era rimasto tagliato fuori aspettava con pazienza il proprio turno (la gentrificazione sarebbe arrivata anche da loro, poco ma sicuro). Daniel se n’era andato da lì verso le quattro del mattino, lasciando dietro di sé una scia di profumo ambrato.
Prima di andare a dormire, Olimpia decise di mangiare una manciata di Doritos. Daniel Fletcher, si ripeteva mentalmente scandendo il suo nome, mentre si sedeva sul tavolo in cucina, le gambe appoggiate alla sedia, patatine in una mano e telefono nell’altra. L’incontro casuale e così reale, senza app di mezzo, l’aveva piacevolmente stupita. Ora però voleva dargli anche un volto digitale: in qualche modo quel meet cute organico doveva pagare un tributo all’etere; così aprì Instagram. Il feed era un bagno di sangue: compagno di classe sposato, compagna di classe spostata & incinta, compagno e compagna di classe sposati tra loro, tipo incesto. Ecco l’Italia che si riproduceva. I pochi single rimasti tra i suoi amici erano gli aspiranti creativi, amiche volontarie in Africa, qualche ambizioso che aveva abbracciato con gioia la carriera. E poi ovviamente c’era lei, Olimpia. Ventisette anni di precariato, un mucchio di lavori dimenticabili e tanti sogni legati al mondo dell’arte. In uno slancio di indipendenza si era trasferita all’estero e si era trovata una stanza in un appartamento in condivisione. Il precariato permaneva, ma adesso divideva felicemente il bagno con altre quattro persone. E aveva un topo. Il roditore viveva in cucina: incapaci di mandarlo via, i cinque padroni di casa di comune accordo avevano deciso di dargli il nome di uno degli inquilini precedenti di cui ancora ricevevano la posta, Alexander Hobbes. In pratica il topo era divenuto coinquilino onorario, avvelenarlo e gettarlo nella spazzatura non erano più opzioni plausibili.
Trovò Daniel in pochi passaggi: profilo pubblico, ben curato (aveva detto che faceva il fotografo, quindi non si aspettava nulla di meno), un sacco di follower. Seguirlo o non seguirlo? Questo il dilemma shakespeariano del nuovo millennio. Ma sì, era stata una bella serata, al massimo sarebbe diventata una dei tanti volti tra i profili che lo seguivano. E senza indugiare oltre pigiò follow. Mentre si alzava dal tavolo per andare finalmente a letto, vide il topo nascosto in un angolo della cucina. Prese una patatina e la tirò verso l’animale. Farai meglio a pagare l’affitto questo mese, brutto stronzo, pensò mentre Alexander Hobbs annusava il bottino.
Vediamoci sotto lo Shard era un’indicazione imprecisa, e lei odiava le indicazioni imprecise. Prima di tutto era sicura di aver sbagliato lato, secondo poi tirava vento, e i capelli le finivano negli occhi a mazzi. I suoi capelli erano pochi e sottili finché non arrivava il vento, dopodiché diventavano folti, densi, letteralmente uncountable. Pensava sempre a queste stronzate quando era agitata. Non si aspettava di risentirlo, invece le aveva scritto qualche giorno dopo la loro serata insieme. Vedendo il suo nome comparire sullo schermo dell’iPhone, Olimpia aveva scoperto, con leggero stupore, che la cosa le faceva piacere. E così aveva accettato l’appuntamento, un date vero e proprio.
Daniel arrivò in quel momento, trovandola impegnata a ricomporre una pettinatura. Si salutarono come fanno gli inglesi, abbracciandosi. Gli inglesi erano cordiali e distaccati, ma guai a non salutarli con un abbraccio. Che popolo bizzarro, pensava Olimpia.
“Dove vuoi andare?” chiese lui.
Portami dove non c’è vento, dove possa affogare il viso nell’alcol senza vergogna.
“Ti va se beviamo qualcosa?” aveva risposto.
Così finirono in un pub che Daniel conosceva, nascosto tra due palazzi modernissimi della City. Il locale era anzianotto, aveva grandi tavoli di legno e la moquette, poteva confondersi con un qualsiasi altro pub londinese, quelli in cui non appena entri ti sale su per il naso l’odore di alcol digerito. Olimpia amò quel pub da subito, senza una particolare ragione. Alla seconda birra era come se si conoscessero da anni, due amici di vecchia data che si aggiornavano sulle rispettive vite.
Sì, sono nata in un paesino vicino a Milano…Born and bred in London…No, casa non mi manca, mancherà un giorno ma non ora…I fell in love with photography when I was still a child…Mio padre è mancato quando ero piccola, siamo sempre state solo io e mia madre…My family is quite big, three siblings…
In un paio d’ore avevano aperto, l’uno per l’altra, la prima scatola di racconti del loro passato. Se per Olimpia trovare un posto dove stabilirsi e in cui continuare a coltivare la sua passione per l’arte era stato difficile, per Daniel era stato l’opposto: lui in quella città ci era nato e ne aveva assorbito l’ottimismo involontario, la capacità di pensare che nulla fosse impossibile o, peggio, immutabile. Non le era chiaro cosa la attraesse di lui: gli occhi, l’accento, l’ironia sicuramente. Ma perché lui? Aveva conosciuto tanti ragazzi attraenti, simpatici, carismatici, ma in pochi erano risultati così magnetici, e nessuno in così poco tempo.
A fine serata si erano baciati, ma in modo meno feroce della prima notte passata assieme, più romantico. Si erano avvicinati un po’ brilli, nascosti dai grattacieli completamente svuotati, in netto contrasto rispetto al brulicare di persone che avveniva di giorno. Le loro bocche si erano trovate combaciando perfettamente e così erano rimasti per parecchi minuti, il silenzio del quartiere di Southwark il loro unico testimone.
Da quel bacio era iniziata una lunga lista di appuntamenti, date veri e propri per l’appunto, dove lui le mostrava la città e intanto le varie scatole cinesi venivano aperte, sempre più a fondo. Continuava a darle indicazioni imprecise, ogni volta in una zona diversa, facendola arrabbiare. Eppure quando lei stava per perdere le speranze di trovarlo (ora all’inizio del Millennium Bridge, lato Saint Paul, ora nella Reading Room della Wellcome Collection, a Euston), lui puntualmente la individuava prima che Londra la inghiottisse per davvero.
C’era stata quella volta a Seven Dials, la piazza già vestita a festa per Natale, anche se mancava più di un mese. La folla, le luminarie, la frenesia di rivederlo: Olimpia aveva camminato con ansia davanti a un Caffè Nero soffermandosi, agitata, su ogni dettaglio del pavimento a mosaico. Aveva notato per terra una patatina che, sfuggita dal sacchetto di qualcuno, rischiava di finire sbriciolata dai passanti. Ne aveva controllato la sorte con ansia, finché non aveva alzato gli occhi e si era trovata Daniel davanti, che la osservava con un sorriso. Un’altra volta si erano dati appuntamento in un immenso centro commerciale a Stratford, il gemello di quello vicino a casa di Olimpia, e che lei non aveva mai visto; erano stati al cinema posto all’ultimo piano e lì aveva scoperto che Daniel, così come tanti altri inglesi, amava mischiare i popcorn salati a quelli dolci. All’inizio Ollie (come aveva preso a chiamarla lui) aveva storto il naso, poi aveva abbracciato un nuovo ossessionante comfort food. Avevano anche parlato del cognome di lui, Fletcher, che a lei ricordava un vecchio telefilm americano e ne avevano riso insieme. C’erano stati svariati ristoranti etnici scovati da Daniel nei luoghi più assurdi; Olimpia non avrebbe mai smesso di stupirsi di fronte alla magica fusione tra l’architettura vittoriana e gli autentici diner cinesi, inglobati perfettamente nelle viuzze dove aveva camminato Dickens. C’era stato un brunch elegante a Brick Lane; dal tavolo di quel café rinomato (i critici si erano sbrodolati in complimenti) si vedeva la vetrina del parrucchiere di fronte dove a un certo punto un uomo si era messo a tagliarsi le unghie dei piedi in bella vista. Avevano riso fino alle lacrime, alticci di costosissimo mimosa. Il sabato sera dormivano da lui, così il mattino dopo potevano fare il Sunday Roast nel suo pub preferito. L’inglese di Olimpia era migliorato moltissimo, mentre l’italiano di Daniel era stato corretto a più riprese (no, ‘latte’ significa ‘milk’, non ‘macchiato’. E cos’è un vero macchiato non te lo spiego nemmeno, non sei pronto). Avevano conosciuto i rispettivi coinquilini, compreso l’indomabile Alexander Hobbs, poi gli amici più stretti e alla fine Daniel l’aveva invitata a casa dei suoi genitori appena fuori Londra – in un crescendo involontario di scala gerarchica. Si erano detti di amarsi sul rooftop della Tate dove avevano passato un intero pomeriggio, Olimpia che gli spiegava le varie opere d’arte contemporanea e lui, incantato, le diceva che se lo sarebbe proprio meritato un lavoro in quel campo. C’erano anche le liti ovviamente. Daniel non sopportava il suo atteggiamento arrendevole sul lavoro (e verso la vita), il suo non sentirsi mai all’altezza. “Sei arrivata fino a qui, non capisco cosa ti blocchi ora” le diceva, “sei brava Ollie, credici anche tu”. E lei sorrideva mestamente, mentre rimaneva dubbiosa se impegnarsi o meno per quella posizione in galleria che su Linkedin sembrava allettante, ma anche tanto complessa. Olimpia invece gli rinfacciava il disordine e i continui ritardi, ma adorava quel suo modo di prendersi cura di lei. La loro conoscenza aveva iniziato a toccare corde intime, piccole scatole all’interno di scatole più grandi.
In sostanza non c’era nulla che non andasse veramente in quella luna di miele allargata e in pratica era passato un anno. Ma attenzione: un anno a Londra corrisponde a dieci anni nel resto del mondo. È un fenomeno inspiegabile quello dello scorrere del tempo in una città dove ogni cosa è frenetica, il traffico, le mode, gli umori. Le stagioni si somigliano tutte, non ci sono né una vera estate né una vera primavera, e l’inverno è solo un autunno vestito di buio. Le giornate vengono inghiottite dalle cose da fare in diversi punti della città, navigabile solo grazie alla sua fitta rete di mezzi pubblici. E alla sera, stanchi e scomposti sui sedili degli spasmodici double-decker, si spia nelle finestre senza tende di quelle case basse, gli occupanti affaccendati in attività disparate. Un giorno finisce per contenere le esperienze di una settimana, mentre la settimana racchiude le fatiche di un mese e così via, in una infinita moltiplicazione di sforzi, affanni e realizzazioni. In fondo all’anno, un unico anno, hai maturato sulle tue spalle quelli che sembrano dieci anni. Così, in questa voragine di emozioni, arrivarono alla sera di quella fatidica proposta.
*
Daniel era seduto sul divano del salotto di Olimpia, la testa di lei poggiata sul suo petto. Dopo cena avevano preso l’abitudine di sedersi abbracciati e di raccontarsi le rispettive giornate.
“Volevo proporti di andare in un posto questo weekend” le disse lui, alla fine del suo resoconto giornaliero: “ti ricordi quella clinica di cui ti avevo parlato?”
“Oh no, non dirmelo” si sedette di scatto lei per guardarlo in faccia: “la clinica delle profezie?”
“Dai, Ollie, non fare la stupida”.
“Ma no, è che pensavo non credessi in queste cose”.
Qualche settimana prima Daniel le aveva mandato un post su una nuovissima clinica a Soho dove, spiegavano, era possibile assumere una sostanza che provocava una sorta di sogno lucido durante il quale si vedeva il proprio futuro. Olimpia le aveva subito affibbiato svariati nomignoli, tra cui i medici dei tarocchi, il nosocomio dei cartomanti e, ovviamente, la clinica delle profezie.
“Ma è impossibile che funzioni, il futuro non è prevedibile” protestò lei.
“Operano in USA già da qualche anno, si dice che siano quasi infallibili” si difese lui, “si va a stimolare l’ipotalamo e…”
“Sono solo sogni”.
“No, stimolano anche il lobo frontale, dove prendiamo le decisioni” si difese lui.
“Non lo so, Daniel, mi sembra di andare a farci spillare i soldi dalle chiromanti”.
“Sembra assurdo anche a me, ma penso sia divertente” le disse lui, “e poi ho già prenotato per questa domenica” ammise con espressione implorante.
Olimpia sgranò gli occhi: “Oddio Daniel, in che senso hai già prenotato? E come ti somministrano quella roba? E se ciò che vedi non ti piace, ti turba o…”
“Non so esattamente come funzioni, ci spiegheranno tutto lì” le rispose, “ma non ci sono controindicazioni alla sostanza. So solo che alla fine dell’esperienza ti danno una pastiglia che ti provoca un senso di oblio rispetto a quello che hai visto”.
“Ma allora è veramente una fregatura!”
“No, ti assicurano che avrai un vago sentore di ciò che hai sperimentato, ma pochi dettagli in testa. È una precauzione proprio per quello che dici tu, per evitare che si rimanga troppo scombussolati da quello che si è visto”.
“Mmm, ok” mugugnò lei.
“Ah, bisogna andarci a stomaco vuoto: otto ore di digiuno prima dell’appuntamento”.
“Questa è davvero la peggiore notizia che mi potessi dare” disse lei caustica. Daniel scoppiò a ridere e la tirò a sé per darle un bacio.
Una circostanza che metteva sullo stesso piano le due metà del quartiere di Olimpia era il caos totale, a tutte le ore. Un caos che solitamente non risparmiava nemmeno la sua camera da letto al terzo piano. Eppure quella notte la ragazza non sentì volare una mosca, persa com’era nei suoi pensieri. Riuscì ad addormentarsi soltanto nelle prime ore del mattino.
Arrivarono alla clinica – l’ospedale dei veggenti aveva aggiunto Olimpia alla collezione di epiteti – con lieve anticipo, ma il dottore li aveva ricevuti quasi subito. Con quello che ci stanno estorcendo… aveva commentato lei asciutta e Daniel le aveva dato un clemente buffetto sulla guancia.
“State insieme?” chiese il dottore, quando si furono seduti sulle comode poltroncine di velluto.
“Questo dovrebbe dircelo lei”, il sarcasmo di Olimpia dava il meglio di sé nei momenti di tensione.
Il dottore aguzzò lo sguardo in modo poco amichevole e proseguì senza aspettare la risposta: “Sicuramente avrete già letto come funziona la seduta, ma vorrei illustrarvi alcuni passaggi”. Fu lì che la parola seduta si conficcò come uno spillo nella mente di Olimpia, provocandole una sensazione di disagio.
“Andremo a stimolare il vostro cervello con la somministrazione via endovenosa di una speciale sostanza formulata da noi. La sostanza non ha alcun effetto sul corpo, se non quello di indurre la comunicazione tra tre aree del cervello”, e a quel punto indicò le zone interessate utilizzando il modellino di un encefalo sulla sua scrivania. “La regione parieto-occipitale della corteccia cerebrale, responsabile dell’attività onirica, l’ipotalamo dove risiede l’amigdala, la mediatrice centrale delle emozioni, e il lobo frontale, in particolare la corteccia orbito-frontale, responsabile delle nostre decisioni”.
Il dottore fece una pausa per capire se i due lo stessero seguendo, poi riprese: “La stimolazione produce nel paziente una sorta di spontanea fantasia che, guidata dal reparto decisionale del cervello, risulta essere ciò che effettivamente avverrà in futuro. Con oltre il 90% di precisione”. A quel punto cadde un silenzio carico di aspettative.
“Le coppie giovani che vengono da noi, per farvi un esempio” e qui sorrise beffardo a Olimpia, “il più delle volte vogliono capire se la loro relazione funzionerà. Quindi spesso il loro sogno lucido riguarderà proprio quell’argomento”. Entrambi annuirono e il dottore seguitò nella spiegazione: “Solitamente il futuro riprodotto nel sogno lucido ha un intervallo di tempo di massimo dieci o quindici anni; poche volte abbiamo registrato una previsione veritiera oltre i vent’anni. La mente ha un varco di immaginazione e soprattutto pianificazione che non supera una certa fascia temporale. Tutto il resto è pura invenzione”.
“In che senso avete registrato?” chiese Daniel: “I nostri sogni verranno conservati?”
“Sì ma in maniera involontaria, per così dire” rispose prontamente il dottore. “Durante la seduta applicheremo sulle vostre teste anche degli elettrodi che serviranno a disegnare l’attività elettrica del vostro cervello. L’intento è quello di controllare che la sostanza stia funzionando e che quello che state vedendo non sia troppo… inatteso. Tuttavia un’analisi specifica di quelle onde potrebbe raccontare anche a noi osservatori esterni cosa vi aspetta in futuro”.
Olimpia e Daniel si guardarono. Negli anni a seguire si sarebbe chiesta se in quel momento lui avesse notato il disagio che stava trovando posto dentro di lei.
Poi le venne in mente la domanda che l’aveva tormentata: “Ho letto che a fine seduta” pronunciò quella parola con apprensione “ci verrà somministrata una pillola che ci indurrà a dimenticare il sogno. Come funziona?”
“Al termine del sogno vi daremo qualche minuto per lasciar sedimentare i contenuti: è importante che una parte di voi conservi una lieve consapevolezza di ciò che si è visto. Dopodiché assumerete una piccola dose di psilocibina e benzodiazepine che faranno cadere nell’oblio buona parte del sogno. Ne serberete solo una generica sensazione, ma in sostanza vi dimenticherete di tutto, come due pesci rossi”.
“Perché?” chiese a quel punto Olimpia, “Perché volete farci dimenticare?”
Il dottore sospirò: “Gli esseri umani tendono a voler cambiare la propria sorte, esercitando il libero arbitrio anche davanti a scelte che hanno messo in atto loro stessi. Le spiego meglio: ci fu un caso di una giovane donna, più o meno della sua età, che scoprì che di lì a poco sarebbe stata abbandonata all’altare dal compagno. Una volta finita la seduta, il suo istinto fu quello di lasciare in tronco il fidanzato. La convincemmo comunque a sottoporsi al trattamento di cancellazione della memoria. Oggi quella donna ha una carriera fiorente: il suo manuale su come sopravvivere alle rotture sentimentali è stato un caso editoriale. Ed è felicemente sposata con un altro uomo. Quello che sul momento le era sembrato un evento umiliante e irreparabile faceva già parte della sua esperienza di vita. Gli ingranaggi non avrebbero girato regolarmente se non fosse passata attraverso quelle circostanze e il resto della sua esistenza sarebbe stato plasmato da una decisione che non avrebbe dovuto prendere, prevenendo al resto dei fatti di accadere. Semplicemente non sappiamo cosa le sarebbe successo se avesse ricordato”.
“Sta dicendo che è già tutto scritto? Che esiste un destino?” Olimpia era turbata.
A quel punto il dottore si tolse gli occhiali e si strizzò la base del naso. “Ci fu un paziente che non dimenticherò mai. Era un ragazzo sui vent’anni. Non riuscì a vedere nulla, l’elettroencefalogramma non registrò niente. Interrompemmo la seduta con una certezza: a quel ragazzo non rimaneva molto da vivere. Lo mandammo a fare delle visite e gli consigliammo di riguardarsi. Seguì le nostre istruzioni alla lettera. Venne investito mentre attraversava la strada un mese più tardi”.
Olimpia e Daniel ascoltavano col fiato sospeso.
“Quindi, per rispondere alla sua domanda: noi non crediamo al destino. Noi ci assicuriamo che rimanga possibile”.
Sdraiata supina sul letto, Olimpia non riusciva a controllare il suo respiro. La dottoressa e l’infermiera se n’erano accorte e le avevano assicurato che stava per vivere un’esperienza unica. Si rilassi, ripetevano mentre le applicavano gli elettrodi in testa. La ragazza guardava fuori dalla finestra: col buio del tardo pomeriggio la BT Tower si conficcava sicura nel cielo nero. Poi era entrato il dottore dei pesci rossi e le avevano applicato l’ago collegato alla flebo, alla soluzione magica.
“Si ricordi: se va tutto bene mi dia un colpo alla mano” le disse l’infermiera, “se invece vuole interrompere la seduta, muova le dita dei piedi e noi la faremo tornare qui”. L’ultima cosa che sentì mentre le si chiudevano gli occhi era il dottore che le diceva di respirare.
Era in piedi in un salotto ben arredato. Il suo corpo si muoveva leggero, fatto d’aria. Aveva le stesse persuasioni che si hanno in sogno: sapeva di essere lì in quella stanza in quel preciso istante, eppure c’era qualcosa di strano e irreale. Vedeva la scena dal suo punto di vista, ma come se fosse anche una narratrice esterna. Sapeva di essere lei e sapeva anche di essere nel futuro. Si toccò il pancione fasciato in una maglietta bianca: solido e imponente, toccarlo le diede fiducia. In quel momento sentì un colpo sul dorso della mano, la stessa posata sulla pancia, eppure nulla la stava sfiorando. Comprese che doveva essere l’infermiera; così anche lei batté un colpo di rimando: va tutto bene.
Si mosse nel salotto: un caminetto, un divano, tanti quadri. La luce entrava da un bovindo luminoso che si affacciava su un vialetto con giardino ben curato. Era la sua casa, un Victorian Terrace in una zona residenziale di North London, in un quartiere che aveva ben poco a che spartire con quello in cui viveva nel presente; soprattutto era silenzioso e senza eredi di Alexander Hobbes, un piacevole upgrade, anche se il ricordo della sua “vecchia” vita le diede immediatamente un leggerissimo colpo al cuore. Sul camino una foto incorniciata di lei e Daniel vestiti da sposi. Che cliché, sorrise, sorpresa e compiaciuta di averglielo lasciato fare: era stata un’idea di lui quando si erano trasferiti e lei non aveva saputo dirgli di no. Non ebbe il tempo di soffermarvisi che un bambino sui sei anni entrò nella stanza; se i capelli biondi li aveva presi da lei, gli occhi verdissimi e adoranti erano indiscutibilmente quelli di Daniel. Era il loro figlio. Ebbero un breve scambio, lui le chiese se poteva usare il tablet e lei generosamente gli diede il permesso, stranita e sicura allo stesso tempo del ruolo materno appena assunto. Il bambino uscì dalla stanza senza che lei avesse la prontezza di fermarlo e chiedergli qualcosa, qualsiasi cosa. Un altro colpo alla mano, un’altra risposta: tutto ok.
Era sicura di alcuni fatti, ma non capiva come facesse a esserlo. Sapeva che sua madre stava bene e che era in Italia, non veniva a trovarla spesso. Aveva degli amici di cui adesso le sfuggivano i nomi, ma erano un insieme di volti ed emozioni nella sua testa. E poi ricordava di avere delle tele in lavorazione da qualche parte nella casa. Sapeva di avere un lavoro che la soddisfaceva anche se a volte risultava stressante. Aveva delle preoccupazioni vaghe legate ai soldi, alle bollette da pagare, alle responsabilità, ma in generale conservava una buona tranquillità da quel punto di vista. Era felice? Sembrava di sì. Ricordi mai avvenuti di serate al pub, cene, feste e matrimoni altrui a cui aveva partecipato, un viaggio in un luogo esotico per cui avevano preso un volo infinito, la proposta di sposarsi sulla collina di Primrose Hill. C’erano anche dei ricordi più profondi: Daniel che si commuoveva alla notizia della gravidanza, suo figlio neonato che le si addormentava addosso, il primo giorno di scuola; nascosta da qualche parte c’era anche la reminiscenza dolorosa del parto. E poi i soprannomi che lei e Daniel si affibbiavano, un’intimità radicata, dolce e noiosa, il sesso il giovedì e ai compleanni, le liti sussurrate per non svegliare il bambino, i baci teneri e collaudati, i popcorn salati e dolci della domenica sera, tutti e tre stretti sul divano. La voglia di progettare gite in montagna nei fine settimana, di riarredare la camera da letto, di fare un altro figlio. La sua vita fino a quel momento si stendeva come un tappeto rosso nella sua testa in un vortice di sensazioni palpitanti, ardenti, vivide.
Poi lo sguardo si posò su uno specchio e vide il suo volto. Almeno dieci anni più vecchia, incinta, non male solo più… matura, forse. Si avvicinò per osservarsi meglio, scostando una ciocca di capelli dal viso. Quando con l’indice si sfiorò la fronte, avvertì una scossa partire dall’attaccatura e arrivare fin dietro alla nuca. Di colpo realizzò che il matrimonio e la famiglia richiedevano una tenace irrazionalità che non era sicura di possedere; lo dimostrava proprio il fatto che se lo stesse domandando lei stessa in quel momento. L’inadeguatezza si fece strada nel suo petto, dritta come una lama; era sempre stata lì e diventava sempre più grossa. La lieve sensazione di disagio che aveva portato con sé fin dall’inizio divenne in pochissimo tempo una voragine in cui caddero tutti quei ricordi mai avvenuti, quelle sensazioni familiari e spaventose. Sentì un’esplosione di possibilità di vite diverse spazzate via da un’unica scelta, un bambino dai capelli biondi, gli occhi di Daniel, l’ammasso di abitudini indolenti ripetute all’infinito. Era quello il fallimento? Sarebbe mai stata all’altezza? Capì allora che non aveva paura di scoprire di dover morire, come il ragazzo cui aveva accennato il dottore. Aveva paura di vivere.
Un colpo alla mano, non rispose. Una pausa e un secondo colpo, continuò a non rispondere. Poi Olimpia iniziò a muovere le dita dei piedi velocemente. Grattava l’aria inquieta, annaspava alla ricerca del risveglio da quel sogno lucido e d’un tratto era di nuovo nella stanza con l’infermiera e i dottori.
Aprì gli occhi come fosse riemersa da un incubo, qualcosa di maligno aleggiava nell’aria.
“Olimpia, tutto bene?” chiese il dottore.
Sì, fece lei con la testa, ancora incapace di parlare.
“Bene” disse lui, “a breve inizieremo a rimuovere gli elettrodi, poi noi usciremo dalla stanza per qualche minuto. Distenda la mente, è stata fin troppo sollecitata” sorrise, indicando con lo sguardo il carteggio vicino al lettino. Non se n’era accorta, ma le avevano già sfilato l’ago della flebo. Rimasta sola, indugiò stordita in silenzio e, disattendendo alle raccomandazioni del dottore, continuò a ripensare a ciò che era appena accaduto in lei. Quando l’infermiera rientrò con un bicchiere d’acqua e la pastiglia dell’oblio, Olimpia aveva preso la sua decisione. Nascose la pillola nell’incavo della mano e fece finta di inghiottirla. Poi andò in bagno e la buttò nel water, tirando lo scarico. Avrebbe riscritto il suo finale.
Quello a cui non aveva ancora pensato era Daniel. Lo sguardo sbalordito e trasognato di lui si abbatté come uno schiaffo sul suo viso non appena fu entrata nella sala d’attesa coi narcisi gialli, dove lui era già stato fatto accomodare. Occhi da pesce rosso, pensò lei comprendendo finalmente le parole del dottore. Quegli occhi adoranti sarebbero tornati spesso a trovarla nei ricordi, ma lei avrebbe imparato a chiudere la porta ogni volta, finché non avrebbero più trovato una via d’entrata.
Quando uscirono dalla clinica, la BT Tower nascondeva la testa tra le nuvole in cielo, come a disapprovare ciò che stava accadendo. Camminarono fino all’incrocio, dove si sarebbero dovuti dividere per tornare ai rispettivi appartamenti. Non parlarono molto, persi nei propri pensieri. Prima di separarsi si baciarono, un bacio dal sapore metallico, entrambi tramortiti dalle emozioni della giornata, poi Daniel si incamminò verso un vicolo laterale. Prima di girare l’angolo si voltò e alzò un braccio in segno di saluto. L’ultima volta che l’avrebbe visto.
Olimpia si sentiva come se le avessero dato un pugno sulla trachea, un leggero sentore di nausea. Scorse in lontananza il bus che l’avrebbe riportata a casa e si avvicinò alla fermata, la mente zeppa di angosce. Non era pronta a scegliere, a progredire. Eppure non era nemmeno sicura che quello che aveva visto fosse una vera progressione; forse era soltanto l’evoluzione naturale delle cose così come stavano. Se avesse cambiato lo stato delle cose, ci sarebbe potuto essere un finale diverso? si domandava. Non era nemmeno certa di essere capace di bastarsi; sicuramente non era pronta a diventare la Signora Fletcher, disse tra sé e sé smorzando una risatina nervosa. Era sempre stato così, l’ironia le serviva per prendere le distanze da quello che le succedeva nella realtà, la risata amara le faceva riprendere il fiato nel momento di dolore. Si sentì in colpa per averlo fatto anche in quel momento, per quello che stava infliggendo a sé e a Daniel, due pesci rossi che non si sarebbero più incontrati, costretti a nuotare in due bocce diverse.
Si rese conto di non essersi mai sentita così sola, eppure aveva l’impressione che fosse destinata a sentirsi esattamente così, che quello fosse l’unico sentiero possibile. Un riflesso quasi muscolare la riportò con la memoria al giorno in cui aveva lasciato l’Italia, in un aeroporto vuoto, carica di aspettative e in completa solitudine. Si era promessa di mettersi in viaggio per lavorare sodo sui suoi progetti; invece era stata soltanto capace di innamorarsi. Quali altre promesse stava infrangendo? Ancora una volta fu attanagliata dal timore di non essere abbastanza né per realizzare i suoi sogni , né per scegliere senza indugio la strada che Londra le stava offrendo. L’idea di lei e Daniel evaporava in fretta: se aveva paura di perdersi abbracciando quella vita di affetti, la via era rimanere da sola in modo più profondo, diventando chi voleva essere veramente. Una persona irreprensibile, autentica, fedele ai propri desideri, ma anche una persona che stava bene nella solitudine sconfinata, a costo di risultare inaccessibile e indifferente. Tornerà a casa, smetterà di vedere Daniel, si concentrerà sui suoi progetti, viaggerà, dormirà in diversi letti, conoscerà altri uomini senza mai affezionarsi a nessuno, non ci saranno bambini con gli occhi verdi nella sua vita. Riconoscersi in un solo destino era la parte più difficile del piano; non capiva se quella sensazione – quella di essere divisa in due tra ciò che aveva visto e ciò che stava decidendo di mettere in atto – si sarebbe mai esaurita. Mentre saliva sul suo bus si chiese quando avrebbe ricominciato a guardare al futuro con trepidazione.
Durante il tragitto iniziò a scendere una pioggia insistente, poiché la regola vuole che a Londra piova solo quando ti potrà dare più fastidio. Piove quando hai un appuntamento e non è affatto necessario presentarsi con i capelli gonfi di umidità; piove proprio quel martedì in cui non hai con te l’ombrello, dopo una settimana che se ne stava chiuso in borsa e all’ultimo avevi deciso di toglierlo; piove quando viene a trovarti tua madre dopo sei mesi che non la vedi, e tu avevi pianificato tutto per filo e per segno e ora devi inventarti un piano di riserva. Piove quando qualcuno ti offre una vita felice nella sua semplicità, ma tu decidi di non intraprendere quel cammino, perché credi che una strada immensa e senza confini, se non quelli dati dal deserto che la circondano, sia infinitamente migliore. Piove nel momento esatto in cui noterai che sta piovendo e per te la città rimarrà ferma in quella immagine: i bus rossi, il tuo umore malinconico, l’acqua che rende lucidi i marciapiedi.
Bellissimo!
Fa riflettere tanto.
Perchè le donne devono essere così complicate ?
Devono far sempre star male qualcuno e loro stesse !
Ollie (quasi) Fletcher una di noi…
O almeno una come me.
Grazie Claudia❤️
Bravissima è bellissimo!
Bellissimo Claudia!!! Hai una scrittura seducente.
A tratti ho pensato fossi tu quella Ollie!
Con affetto
Marianna
Complimenti, splendido racconto.
Meravigliosamente malinconico ❤️