Spudorato il cielo

Non appena diminuisce il testosterone la moralità aumenta, dice sempre Franco.

Si tocca il cavallo dei pantaloni tenendo la bocca mezza aperta, il sigaro penzoloni sul lato destro. Lo succhia sempre sul lato destro, mordicchiando e poi rigirandoselo senza più accenderlo. Maria non fa neanche caso a quelle sue uscite, tante ne ha sentite nei quarant’anni di vita passata insieme. Però il calo del suo testosterone l’ha notato eccome, così come il lento diluirsi delle visite alla locanda della signora Ines con le sue ragazzine lisce pronte a diventar donne.

Da tre o quattro volte la settimana aveva preso ad andarci due, poi soltanto il sabato e adesso nemmeno ogni mese, con il fiasco sotto braccio e il sigaro all’angolo destro. Pensava di farla franca, anzi che proprio nemmeno lo si sospettasse di un vizio tanto scontato, eppure giù in paese lo vedevano tutti uscire dalla signora Ines con i calzoni unti ancora da tirar e i capelli bagnati di sudore.

La ragazza era sempre diversa, gli piacevano le porcellane diceva lui, le più bianche che c’erano. E poi aveva un vezzo per i capelli rossi, meglio se aranciati come le foglie d’autunno, che facevano da pepe su tutto quel bianco. Invece adesso che il corpo risponde controvoglia agli istinti, Maria se lo trova a casa sempre più spesso, con il giornale sotto l’ascella e la canotta sdrucita. Questa città si sta rovinando a esser governata da gente senza palle, dice Franco tirando su col naso, solo perbenisti senza una dannata buona idea. E inizia la sua invettiva contro il municipio, le toghe e i maledetti postini che non ritirano dopo le dieci. La litania continua per un bel pezzo, fino a quando finalmente si corica a russare in poltrona, e anche Maria può uscire in veranda e ascoltare le cicale guardando il cielo.

C’è stato un tempo in cui i due si erano divertiti insieme, lei era una ventenne curiosa e inesperta mentre Franco, già uomo, si era fatto carico di farle scoprire i vizi dei club e le perversioni celate dal buoncostume. Come quella volta in cui credendo di andare a teatro l’aveva seguito dietro le quinte, prima dell’inizio dello spettacolo, trovandosi circondata da attrici nude intente a sciogliere le tensioni le une nelle braccia delle altre. Franco ne conosceva due o tre che senza il minimo disappunto gli avevano fatto posto sul divanetto, avvolgendo tra le braccia diafane prima lui e poi anche lei, carezzandoli e spalancando le gambe lunghe, senza pretese né celata lussuria. Era iniziata così la loro concupiscenza, senza che ne avessero mai parlato espressamente.

Bastava un cenno di Franco a una locanda o l’occhiolino a una bella signora per finire a confondere i corpi gli uni degli altri, occupare letti e lenzuola di seta, bere vinaccio fino al mattino e ridere a bocca spalancata delle modiste di Rouen. Maria lo seguiva, al di là del fiume, senza mai parlare, assecondando le sue massime nella più letargica incoscienza. Bere una volta soltanto dal calice della lussuria, diceva Franco in quel periodo, è più dissetante che immergersi da capo a piedi nel pozzo della moralità. E così erano stati anni di frenesia cieca, anni in cui Franco muoveva le mani come un prestigiatore, fregandole sul seno di questa o di quella, gesticolando in piedi in cucina, in salotto, per strada a spiegare che la vita va vissuta al di fuori, al di fuori dell’umiliante perbenismo medio diceva, e per anni aveva continuato a sfregarsi sulle labbra delle attrici, berne gli umori, carezzarne gli istinti.

Anche quando a Maria non andava più lui aveva continuato, prima insistendo poi andando senza di lei, sempre a far visita a quelle donne generose. Generose quanto tu non sei, diceva. Poi quando tornava con il collo sporco dei grassi rossetti delle puttane, era più benevolo. La trovava a guardare il cielo, in veranda, anche a notte scura se ne stava lì. Fai quello che ti piace, le sussurrava prima di dormire.

Forse erano quelle sue sentenze a incantare le donne, come si era incantata anche lei quando appena ventenne lo aveva visto camminare tutto storto in mezzo alla piazza, col gilet borgogna e il cappello in mano, e aveva pensato che avrebbe voluto correre anche lei, lì in mezzo alla piazza, prenderlo sottobraccio e raddrizzare quella sua andatura sghemba, marciare insieme, fargli da bastone. Invece si era irrigidita e basta, fatta via via più insipida, non aveva più voglia di lasciarsi spogliare, la saliva le era secca sulla lingua e in fondo alla gola. Non aveva più voglia di seni e peli e calore sulla pelle. E così la loro strada si era d’un tratto biforcata e in mezzo l’erba era cresciuta alta a separarli, lui con la bocca piena di massime, lei con il grembiule al posto del corsetto.

Non tace mai Franco, anche quando dorme sembra brontolare come un tegame di fagioli sul fuoco. Maria un po’ si dice che gli è grata perché se parla lui per tutti e due almeno può starsene un po’ in pace, poi lo guarda gesticolare e si intenerisce. Pensa agli orgasmi che ha avuto e che a un certo punto ha scelto di non avere più, pensa che i coiti di Franco ululano ancora in parole, prediche, sermoni. Parla troppo tuo marito, diceva sua madre quand’era viva. Non è bene esporsi così, raccomandava suo padre. Se quei disgraziati dei suoi genitori avessero saputo quel che faceva con Franco non ne sarebbero sopravvissuti, ma lei, del resto, taceva sempre. È una che osserva Maria, osserva sempre, osserva tutto. Da che l’ha visto quella prima volta in piazza, col cappello in mano, non ha mai smesso di puntare lo sguardo su Franco, confondendo il suo punto di vista con quello ebbro del marito. Fino a quando le illusioni succulente dei loro anni hanno iniziato a odorare del fetore stantio del vino vecchio e delle sigarette spente. Così è tornata a guardare il cielo, con il desiderio d’esser semplice, un po’ come guardar le stelle.

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