È così che ho cominciato.
È bastata una gomma da cancellare.
Era nera, a forma di teschio, stava nel portamatite accanto al pc. Sentivo che si scaldava, ne respiravo l’odore. La pelle era sempre più rossa, bruciava come se al posto della gomma ci fosse la fiamma di un accendino. Ho smesso solo quando ho visto il sangue.
Quella sera, a cena, mia madre se ne è accorta ma ho detto che ero caduto dal monopattino.
Dalla gomma poi sono passato alla lametta. Già mi radevo. Lo facevo sulle cosce, così non se ne accorgeva nessuno.
Era come bere un Negroni a stomaco vuoto.
L’alcol però è venuto dopo, con le uscite in discoteca. Mi accodavo al Seba, che c’aveva la fresca e poteva permettersi il privé. Lì il bere arriva senza nemmeno ordinarlo. L’alcol e il buio ti fanno credere di essere figo. E poi ho rimandato anche la patente, così avevo la scusa di non dover guidare la macchina per rientrare. Potevo carburare senza pormi un limite.
E tutti quei discorsi di mamma su come ci si deve comportare per non perdere il rispetto di sé.
Più parlava e meno l’ascoltavo. Un giorno che abbiamo litigato di brutto, le ho detto che non prendevo lezioni da una fallita. Lei si è fatta pallida. Quanto sono stato stronzo. Mio padre sì che aveva già gettato la spugna mentre lei se l’era annodata al collo.
Quando sei messo così sembra che i compagni cattivi ti fiutino da lontano. Te li ritrovi addosso senza cercarli.
A quel punto, anche Anna, mia sorella, buttava lì le domande, indagava sui miei amici. Ero convinto che fosse stata mamma a mettermela alle costole, ma le interessava davvero di me.
Poi l’anno scorso, mentre la stavo aiutando a mettere le luci sull’albero di Natale, mi ha detto che le sarebbe piaciuto andare con me in discoteca, a Milano. Lì per lì mi sono opposto, anzi mi sono proprio incazzato.
«Ti ci metti anche tu?», le ho detto indicando con la testa la cucina, dove stavano i miei genitori.
«Vuoi snitchare?»
«Certo, il mio mondo gira intorno a te. Dai, ho solo voglia di andare a ballare. Le mie amiche o sono partite per la montagna o alle otto sono già alla tisana, sotto la copertina con il gatto accanto.»
«Sì e se poi vuoi rientrare?» le ho chiesto.
«Questo è il punto. Ti do un passaggio in andata, così non devi chiederlo a nessuno e se mi stufo me ne ritorno a casa prima e poi tu ti arrangi, come fai di solito.»
Anche quella volta ho pensato solo a me stesso. Un opportunista di merda. Le ho detto che andava bene a patto che una volta dentro facesse finta di non conoscermi. Cani sciolti.
Lei ha fatto giurin giuretta, con le due dita delle mani a croce sulle labbra, come facevamo da piccoli quando dovevamo mantenere un segreto. Ho sentito la nostalgia di qualcosa che avevo perso.
Quel sabato, mia sorella era bellissima. Mia madre, prima che uscissimo di casa, ci ha voluto fare una foto. Anna mi ha preso sottobraccio e si è sollevata in punta di piedi.
«Sei così alto e bello, non farmi sfigurare», ha detto.
Quando sono salito sulla Panda, ho visto sul cruscotto il suo gatto di pelouche, quello rossiccio che da piccola si portava sempre appresso. L’ho preso e l’ho lanciato sul sedile posteriore.
«Cos’è?» mi ha chiesto. «Hai paura che credano che sia tuo?» E rideva con quella sua risata che sale e scende e non ce la fai a rimanere serio.
Mi sono ricordato di quella volta in vacanza, al mare, in Toscana. Avrò avuto sette anni. Una tracina, nascosta sotto la sabbia, mi aveva punto il piede. Mi sembrava di svenire. Mia sorella mi ha portato in braccio fino alle docce. Non so come ci sia riuscita da sola.
Il dolore mi è durato tutto il giorno e lei è rimasta sempre vicino al mio letto a leggermi quel libro di Verne. Ah sì: Il giro del mondo in ottanta giorni. Ogni tanto si fermava per chiedermi come andava ma io le dicevo che avevo tanto male perché volevo che non smettesse più.
Quella sera, all’Alcatraz, io e Anna ci siamo incrociati un paio di volte. Lei ha fatto il gesto di aggiustarmi i capelli, io l’ho scansata, guardandomi intorno per accertarmi che nessuno avesse visto. Ma ero felice che fosse lì. Alle due di notte mi ha detto che se ne andava. Nemmeno le ho parlato. Già non ci stavo più dentro.
La notizia l’ho appresa al bar della stazione, mentre aspettavo il primo treno del mattino per tornare a casa.
La tipa in televisione raccontava di un incidente sulla Como laghi. Un bastardo che viaggiava in contromano in autostrada aveva investito in pieno un’auto. La ragazza alla guida era morta appena arrivata in ospedale.
La telecamera per pochi secondi ha inquadrato i rottami sparsi sulla carreggiata. Ho riconosciuto il gatto di pelouche.
Non ricordo cosa sia successo dopo. Devo avere spaccato tutto quello che potevo e urlato fino a non avere più voce. Mi hanno detto che hanno dovuto sedarmi per portarmi via.
Da quel giorno non sono più rientrato a casa. Vivo in una comunità di recupero. Non ho il permesso di uscire da solo. Nemmeno per venire qui.
«Come stai?» La dottoressa si è seduta alla scrivania. Mi guarda dietro i suoi occhiali.
Se sono in questo cazzo di posto ci sarà un motivo, vorrei risponderle.
«Ci sta», e cerco di sorriderle con gli occhi; con la bocca sarebbe troppo.
Guardo la finestra, la fronda di un albero struscia il vetro a ogni folata di vento. Le gocce di pioggia scendono in fila come formiche. Beate loro che vanno da qualche parte.
Allungo le gambe sotto la scrivania e fanculo se non è educazione.
Fisso i miei polsi, le increspature violacee della pelle. Le immagino ramificarsi sotto le maniche della felpa. C’è chi ce la fa a togliersi di mezzo, come ha fatto Sofia. Un anno di bugie ai suoi, di esami festeggiati e mai sostenuti e un bel giorno si è seduta sui binari della ferrovia.
Io non ci ho nemmeno pensato a farla finita. Sono uno che procrastina, io.
Questa parola l’ho imparata qui, dalla dottoressa che prima di cominciare la seduta mette in fila tre penne di colore diverso davanti al taccuino. Penso che a ogni colore corrisponda uno stadio della malattia. Chissà quale sarà il mio colore.
moto belle et forte. mi ha moto commosso questo tuo raconto.
grazie di cuore.