Démodé

Il mio primo ricordo è lo sbuffo di un treno e il marciapiede bagnato e freddo della stazione di Weimer e dita ricoperte da guanti salde intorno alla mia maniglia rivestita di cuoio.

Lui che percorre il marciapiede avanti e indietro e mi fa oscillare alla sua destra e io che in una manciata di giri mi abituo al fischio dei treni e agli esseri umani coi loro visi espressivi ed estatici e tristi e gioiosi e ai loro piedi puntati sul gradino d’imbarco del vagone.

La stazione di Weimer è madre della mia memoria. È dove vidi per la prima volta i miei simili. Li guardavo dalla mia intelaiatura in legno, gli occhi invisibili nascosti nella serratura in ottone: valigie come me, dalle forme diverse, talvolta allungate, sacchi di pelle morbida che diventavano raggrinzite; bauli pesanti ricoperti di strani marchi, adesivi e parole importanti. Tutti noi in pugno o in spalla o sotto un braccio o due o sulla schiena. C’era chi aveva al seguito altri umani incaricati di portare per loro valigie e sacchi e bauli, al che mi domandai: ci tengono forse meno del mio tedesco?

Io ero stata di Lui soltanto e quando mi lasciò andare di colpo su una pozzanghera al limitare del binario mi chiesi il perché. Vederlo scendere sulle rotaie mi creò un disagio che non seppi spiegare. Quando si sdraiò sulle rotaie ridacchiai forte e tremolai. Ma quando il trenò gli passò sopra fui semplicemente triste, perché capii che non sarebbe più tornato a impugnarmi.
Non partii come gli altri e restai sul binario per un tempo imprecisato.

«Triste mais pas impossible!» ripeteva tra sé Jean-Luc, un giovane che mi trovò due giorni dopo e che mi svuotò dei vestiti del tedesco che non era più Lui, perché Lui divenne presto Jean-Luc. Mi portò con sé in una mansarda con la muffa e tanti piccoli ragni che amavano nascondersi nel fondo del mio scrigno. Il problema non era il solletico ma il senso di essere invasa da qualcosa di piccolo e ridondante come un pensiero osceno. «Triste mais pas impossible» ripeteva sempre Jean-Luc e io non seppi per molto tempo se fosse un riferimento al Lui di prima oppure no.

Con Jean-Luc visitai l’Europa, da Weimer a Parigi, da Parigi a Roma, nei treni o in carrozza, qualche volta in automobile. Lui mi portava sempre con sé, nel mio scrigno i suoi trucchi da attore, qualche cappello e una camicia bianca di cotone. Allora i viaggi duravano giorni interi.

Fu con Jean-Luc che iniziai a recitare. Ero una valigia giovane e avevo vissuto poche vite prima di lui, e la sola che ricordavo era una tragedia. Così, presto la finzione prese il posto della vita. I primi giorni ero chiusa nel dietro le quinte e lo attendevo che rientrava accaldato a prendere i fiammiferi per accendersi una sigaretta o mi buttava addosso la sua camicia pregna di sudore. Era desolante ma presto imparai l’amore per la solitudine. Poi un giorno mi portò sulla scena: fu una sorpresa che mi sconvolse e mi fece pensare che anche al Lui di Weimer, se non si fosse sdraiato sulle rotaie, sarebbe potuta capitare una sorpresa dolce com’era capitata a me. A teatro ero un pezzo importante, messa all’angolo giusto. Senza di me la stanza del generale Durand sarebbe stata meno reale.

Così ora viaggiavo non solo per portare i trucchi, i cappelli e le camicie di Jean-Luc nel mio scrigno, ma per trascinare me stessa nei teatri francesi. I più grandi alberghi lo acclamavano come l’autore di Triste mais pas impossible, la storia del depressissimo generale Michel Durand. Alla fine avevo capito il significato di quelle parole. E ogni volta che ce ne andavamo un inserviente mi ricopriva con un adesivo con il nome dell’hotel con lettere e forme e colori sgargianti. Erano così appiccicate che nessuno, pensavo, avrebbe potuto strapparmele. Ora anche io avevo le mie parole importanti.

Nei teatri incontrai chi aveva più ricordi di me: una poltrona di pelle strappata e stravolta che rammentava per filo e per segno la sua Lei che aveva vissuto a Mosca e che fin da ragazzina le si era seduta sopra e le era rimasta fedele per cinquant’anni e lì aveva scritto lettere d’amore a un uomo che viveva nella guerra e che nella guerra sarebbe morto e lì aveva pianto disperata e aveva svuotato bottiglie ed era morta con i capelli imbiancati ricordando appena una volta all’anno il nome del suo soldato morto.

Un giorno anche Jean-Luc morì. Si ammalò di una grave influenza e per anni rimasi sola nel ripostiglio di un teatro. Non partecipai più a un solo dramma. Ero diventata il vecchio ricordo di un mondo che non voleva più una valigia vera sulla scena ma luci artificiali e strani tendaggi e figure geometriche e uomini soli al buio accecati da un’unica lampada e in preda al delirio di strane lingue. Tentai di comprendere il significato della follia umana nei discorsi che certi autori portavano avanti in segreto spifferandosi nei corridoi dietro le quinte la paura che li animava. Tra loro c’era Edyta. Non aveva il talento di Jean-Luc, né la sua creatività e il suo fascino, ma come lui sognava di salire su un palco.

Con Edyta vidi le case dei ricchi signori di Parigi. Lei lavorava sodo e immaginava di partire per Broadway. La sera prendeva dal mio scrigno certi abiti che aveva trovato nei mercati e li provava davanti allo specchio e recitava «se è amore davvero, dimmi quant’è!». Ma l’eccitazione del sogno si spense presto nei suoi occhi e lasciò il palco all’angoscia di giorni sempre uguali di lavoro e notti sempre nere di pianti che non le concedevano nulla di ciò che aveva immaginato.

Edyta non andò a Broadway ma a Birkenau. La accompagnarono uomini forti su un treno pieno di persone che fissavano le loro valigie come fossero le sole cose rimaste nelle loro vite e in una stanza affollata di donne divenni la sola compagnia di Edyta: la sera apriva ancora il mio scrigno e con le ginocchia piegate sotto al mento si fissava nello specchio che aveva incastrato nelle mie doghe e recitava «voglio fissare un limite sino al quale essere amata!» e io avrei voluto dirle che era bella anche col viso scavato e affamata.

Poi un giorno non la vidi più e venni portata da una città all’altra da uomini e donne colmi di sollievo per il fatto di stare ancora in piedi.
Un vecchio con un braccio solo che girava film mi prese con sé e per cinque minuti al giorno tutte le luci erano proiettate su di me e tutti facevano silenzio quando c’era il ciak e io correvo via afferrata da un uomo con un cappello largo che doveva «tagliare la corda il più fretta possibile».
Ma ero oggetto dimenticato, simbolo di un abbandono perenne perpetuato senza accortezza.

Poi arrivò Timothy che non voleva solo stare in piedi o scappare ma anche scoprire: era bello come Jean-Luc e mi mostrava ai suoi amici mentre annunciava che sarebbe andato in giro per il mondo e loro non capivano perché mi portasse con lui così pesante e ingombrante ma Timothy diceva che ero bella e «démodé» come l’amore e che a lui piacevo per questo. E andai con lui in Africa e in Australia con i marsupiali e grosse lucertole a solleticarmi il fondo con le lingue biforcute e insieme incontrammo Foster che amava Timothy più di quanto Timothy non la amasse a sua volta e restai fedele a lui che mi aveva portato nel mondo vero che era meglio del teatro. E per quante luci artificiali vi fossero negli aeroporti, quando atterravamo vi erano ancora luci più grandi e vere che riscaldavano sul serio. E quando Timothy era nervoso infilava le unghie sotto le mie parole importanti e io glielo lasciavo fare perché il male di una brava persona può diventare bene.

Ma quando una sera Foster fece le facce tristi e si mise a piangere, Timothy salì sul treno con lei e mi lasciò a terra e io provai rabbia ma Timothy baciava così forte Foster che lo perdonai. Poi però pensai che finire schiacciata da un treno come il tedesco che mi aveva insegnato a vivere non sarebbe stato sbagliato.

Andai a stare in una cantina e io mi innamorai perdutamente della solitudine che mi era di nuovo amica passando da un armadio a un altro per molti anni. Poi una ragazza mi trovò incuriosita e disse alla madre che «questa vale qualcosa» e quella le rispose «ma che ne sai tu?» e venni portata con poco entusiasmo in un mercato e venduta al miglior offerente, un vecchio senza capelli dalla barba lucida e crespa.

Lo odiavo perché mi aveva strappata alla solitudine ma aveva braccia forti abituate a quelle come me e mi portò da sua moglie che sorrise e disse che «un viaggio dobbiamo farlo prima della fine» e così andammo in un villaggio a celebrare le loro nozze antiche. E loro si scambiavano tenerezze in mezzo a giovani uomini e donne senza valigia che camminavano con lo zaino in spalla e gli occhi spaesati mentre Loro erano luminosi e innamorati e io compresi che esistono anche le persone che non hanno bisogno del sole e delle lampadine ma che illuminano guardandosi.
Nei loro sguardi mi capita di rivedere Jean-Luc ed Edyta e anche il tedesco e immagino come sarebbero diventati se non fossero morti.
Mentre salgo sul millesimo treno della mia vita penso che sono vecchia e fortunata.

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