Lotta di classe

Alla colonica di Nipozzano i miei genitori invitavano sempre un sacco di persone: per lo più il gruppo dei lori amici di famiglia, altrimenti colleghi di lavoro o di militanza politica, e qualche volta anche il marchese Frescobaldi con sua moglie Bona.

Il più delle volte li sentivamo parlare di politica o di economia nel salone del caminetto, mentre io e mio cugino giocavamo al computer giù nella sala del biliardo. Altre volte invece facevano giochi di società, in prevalenza “Risiko” oppure “Lotta di classe”. In quei casi io e mio cugino restavamo a guardarli o, quando c’erano posti liberi, ci univamo alle partite.

Il Risiko è sopravvissuto negli anni e lo conoscono tutti: in effetti, quando anni dopo mi trasferii a Francoforte, il mio primo nucleo di amici si formò attorno a un tavolo di questo gioco. Lotta di classe invece ha avuto solo breve vita tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80. Si tratta di una specie di gioco dell’oca in cui ciascun partecipante impersona una classe sociale: capitalisti (segnalino: una tuba), operai (segnalino: un martello), professionisti (segnalino: una ventiquattr’ore), studenti (segnalino: una feluca da goliarda), contadini (segnalino: un trattore) e commercianti (segnalino: un registratore di cassa). Via via che si progredisce sul tabellone, ciascun giocatore accumula vantaggi e penalità a seconda delle caselle su cui capita e delle carte che pesca. Quando qualcuno finalmente raggiunge l’ultima casella – (19)84, la rivoluzione – si contano vantaggi e penalità accumulati dai due blocchi sociali per determinare chi ha vinto. Dico due blocchi perché le due classi principali sono sempre capitalisti e operai; le altre si alleano con loro sulla base di specifiche opportunità che possono capitare nel corso del gioco.

Noi allora non potevamo capire la portata politica del gioco, e lo trattavamo un po’ come un Monopoli in cui l’obiettivo era accumulare questi foglietti verdi – i vantaggi – che in effetti avevano l’aspetto di banconote. Io, con grande rammarico dei miei genitori, cercavo sempre di fare il capitalista. La ragione principale era la casella nera “guerra termonucleare globale”: la penultima, subito prima della rivoluzione. Se i capitalisti vi capitavano sopra e si trovavano in posizione di svantaggio, potevano rovesciare il tavolo, dichiarando la partita terminata senza vincitori. L’idea di scatenare una guerra termonucleare globale pur di non perdere (ovvero cedere i propri privilegi di classe) mi suonava (e tuttora mi suona) bellissima e terribile, affasciante da disperarcisi.

Invece non mi capacitavo di come mai i miei genitori e i loro amici tutti preferissero giocare con gli operai. Fin dall’infanzia avevo sempre avuto piuttosto chiaro che ero nato nella porpora, e associavo ai capitalisti l’idea di privilegio che mi era toccata per nascita. In realtà la mia era sempre stata una famiglia di professionisti, non di capitalisti. E per diventare professionisti, tipicamente si deve passare per una carriera studentesca. In effetti professionisti e studenti erano le mie seconde scelte, quando non potevo fare il capitalista. I commercianti non li avrei toccati nemmeno con uno stecco: nell’ambiente in cui sono cresciuto erano bollati sprezzantemente come “bottegai”, e non riscuotevano molta simpatia. Per quanto riguarda i contadini, allora non avevo nemmeno capito in base a cosa fossero una classe distinta dai lavoratori.

Lotta di classe è saltato fuori più di trent’anni dopo, durante lo sgombero della soffitta di mia nonna. Me lo sono portato subito in Svizzera e mi sono messo a studiarlo in dettaglio. Ho appreso che fu concepito all’inizio degli anni ’70 da un professore americano di scienze politiche, come strumento didattico per il Marxismo. In effetti a leggere le motivazioni dell’assegnazione di vantaggi e penalità, la matrice ideologica del gioco emerge molto chiaramente. Ad esempio, la diffusione della pornografia va a vantaggio dei capitalisti e penalizza i lavoratori, in quanto distrae e distoglie dalle rivendicazioni di classe. A fortiori, lo stesso ragionamento vale per la diffusione delle droghe. Al contrario i capitalisti traggono vantaggi dalle guerre, ma vengono penalizzati qualora i lavoratori si rifiutino di combattere e le idee socialiste si diffondano tra i militari.

A osservare attentamente il tabellone, si nota altresì che le probabilità che si formino certe alleanze non sono distribuite uniformemente. Nello specifico, è più probabile che si formi un blocco di capitalisti, contadini e commercianti. Per quanto ciò vada contro le mie suggestioni di bambino, la ragione ora mi è chiara: il reddito dei capitalisti e, in misura minore, quello di commercianti e agricoltori, dipende dalla consistenza del capitale investito, più che dal lavoro prestato. Viceversa, operai, professionisti e studenti sono valorizzati per il loro lavoro. Nonostante nella biblioteca dei miei avessi accesso a numerosi imponenti tomi sul movimento operaio e il partito comunista, non ero ancora versato nell’interpretazione Marxista del conflitto di classe. Per contro, la mia intuizione di bambino si basava su una distinzione – tanto a me empiricamente ovvia quanto evanescente e non qualificabile in termini generali – su chi è e chi non è privilegiato per nascita. Ad esempio, al di là dello sprezzo dei miei genitori, i (piccoli) commercianti con cui avevo consuetudine mi parevano gente che si spaccava la schiena tanto quanto gli operai, ed era perlopiù esposta alle fluttuazioni di mode e abitudini. Quanto ai contadini, il concetto di valore del capitale fondiario non mi era ben chiaro (come non doveva esserlo ai miei familiari, del resto: il grosso della dotazione di famiglia, per ultima la colonica di Nipozzano, venne venduto prima che i casali e i terreni nella campagna toscana diventassero un pregiatissimo bene posizionale).

Illustro il gioco ai miei amici fiorentini a Basilea – anche loro, si capisce, provenienti da famiglie di sinistra e proprietarie di casali nella campagna toscana – che lo apprezzano moltissimo: decidiamo di giocare una partita di prova. Martina e Carlo si danno la briga di organizzare e ci invitano a casa loro, una bella villetta sul Bruderholz: vogliono che partecipi anche loro figlio Riccardo, adolescente. Forse, penso, con l’idea di aiutarlo a costruirsi un bagaglio ideologico: Riccardo ha idee di sinistra ed è politicamente attivo al suo ginnasio, ma sembra più interessato alle battaglie sulla sessualità e l’identità di genere che non al conflitto di classe che sta alle radici del socialismo storico.

È una sera di inizio primavera e il clima è insolitamente mite, così mi reco da loro a piedi, con la scatola del gioco sottobraccio; mi inebrio del profumo dei primi pollini, lo sguardo contro il cielo che imbrunisce, mentre salgo per le vie già quiete come se fosse notte. Martina e Carlo hanno apparecchiato il tavolo in giardino. Insieme a loro ci sono anche Caterina e Théodore, il suo fidanzato ginevrino. La vista che si gode da casa loro, va detto, non è la migliore tra quelle che può offrire il Bruderholz: spazia a ovest verso la zona industriale con l’inceneritore e la discarica, il confine francese, i palazzi di edilizia popolare e infine l’aeroporto.

Mentre Carlo ci serve delle verdure grigliate e una schiacciata che ha fatto con le sue mani (e con l’olio del suo uliveto), espongo le regole del gioco. Pierre non parla italiano, ma essendo francofono mi sembra che più o meno ci si intenda. Poi tiriamo le classi di appartenenza. A me toccano gli operai: sguaiatamente esulto alzando il pugno e gridando “trionfi la giustizia proletaria”. Carlo ottiene gli studenti, Martina i professionisti, Caterina i contadini e Théodore i commercianti. I capitalisti finiscono nelle mani di Riccardo, che non manifesta comunque grandi emozioni in una direzione o l’altra. Carlo è uno dei primi ad allearsi con me, e approfitta delle caselle in cui le lotte studentesche vengono associate a quelle operaie per sfoggiare le sue credenziali rivoluzionarie: è stato rappresentante d’istituto al liceo che tutti (eccetto, si capisce, Pierre e Riccardo) abbiamo frequentato, a Firenze, e in questa capacità ha organizzato varie manifestazioni e occupazioni, incluso quella del 1993, che finì per durare quasi un mese.

Riccardo ha l’opzione di allineare i contadini ai capitalisti, ma rifiuta perché gli pare che si trovino in posizione di grave svantaggio. Finisce che me li prendo io, insieme ai professionisti. A lui rimangono solo i commercianti. Nel gioco dovrei rappresentare la classe principale, alla guida di un ampio fronte anticapitalista, ma nella realtà, al contrario di Carlo, non ho grandi credenziali come leader: non mi ero mai occupato direttamente di politica al liceo, e anzi durante l’occupazione del 1993 io e i miei amici ci eravamo limitati a prendere possesso di un’aula remota dove esser lasciati in pace a drogarci e a giocare di ruolo. Quasi a scusarmi, mi sento di dover rimarcare che per fare la rivoluzione, oltre alla leadership, servono anche braccia pronte a menare, e rivendico di essere stato uno che non si tirava indietro quando ai tempi del liceo c’era da darsele coi fasci. Porto come esempio quella volta che vennero in piazza D’Azeglio per picchiare Guelfo, io corsi dentro a scuola a chiamare rinforzi e piombammo infine in una dozzina sui tre fascisti, travolgendoli e facendoli scappare tra manate, pedate e risate.

Alla fine il blocco comunista trionfa, arrivando alla rivoluzione prima che i capitalisti, in netto svantaggio, possano anche solo avvicinarsi alla casella nera della guerra termonucleare globale. Riccardo rimane comunque poco interessato al gioco e alle descrizioni dei vari vantaggi e penalità, che evidentemente non riescono a stuzzicare il suo immaginario, e non sembra dispiaciuto della sua sconfitta. Io e Carlo esultiamo abbracciandoci, lui mette su “Contessa” di Pietrangeli e insieme con Caterina cantiamo levando il pugno: “Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce e impugnate il martello, scendiamo giù in piazza e picchiamo con quello…” Martina si leva preoccupata e ci intima di fare piano, che siamo in Svizzera e i vicini ti mandano a casa la polizia per un nonnulla. Non le diamo ascolto, non prima che arrivi la parte clou: “Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sottoterra!” Riccardo sorride, chiaramente soddisfatto di aver fatto divertire suo padre.

Sulla via del ritorno, la lotta di classe sottobraccio, smaltisco l’eccitazione e l’ebbrezza nell’aria già fredda della notte. Quando sono ai piedi della collina sento un’esplosione in lontananza. La prima cosa che mi passa per la testa è la sinagoga, a un centinaio di metri da casa mia. Ma il rumore sembra provenire da dietro, e ancora annebbiato immagino si tratti di un incidente d’auto (invero assai improbabile in una zona della città così poco trafficata).

La mattina dopo, arrivato in ufficio, apprendo invece che l’esplosione che avevo sentito è stata causata da una bomba artigianale, piazzata da ignoti estremisti di fronte alla villa di una storicamente ricca famiglia basilese, non lontano da casa di Carlo e Martina. Il mio collega Alì, che addirittura abita a poche decine di metri di distanza, racconta preoccupato di come tutta la sua famiglia si sia svegliata nel cuore della notte, e di quanto gli è stato difficile (tentare di) nascondere ai propri figli la vera natura di quanto successo. Essendo lui cresciuto in Libano negli anni ’80, posso solo lontanamente immaginare quanto le esplosioni possano scuoterlo. Mi precipito a leggere la Basler Zeitung, ma vi trovo solo un breve articolo di cronaca, puramente fattuale, che sembra minimizzare la portata dell’accaduto. Mi suona bizzarro: in Svizzera gli attentati di matrice politica non sono esattamente all’ordine del giorno. Già il giorno seguente in effetti la notizia sparisce dai media; ne deduco che le autorità abbiano intimato di tenere un profilo basso, per contenere i rischi di emulazione.

A me invece capita di riparlare coi colleghi dell’attentato: tutti ne sono rimasti piuttosto scossi e spaventati. Nel mio caso, il sentimento dominante mischia reverenza e meraviglia per un gesto del genere in un luogo così improbabile, con una punta di simpatia per le motivazioni degli esecutori. Perciò durante una di queste conversazioni cerco di minimizzare l’accaduto, rilevando come si sia trattato di un gesto puramente dimostrativo: programmare l’esplosione nel cuore della notte, davanti al cancello di una villa, indica chiaramente che si voleva evitare qualsiasi danno alle persone. Alì si agita e mi fa notare che la bomba è stata piazzata in una zona residenziale, proprio sul percorso che fanno i suoi figli per andare a scuola; rabbrividisce al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere con un errore nella programmazione dell’innesco.

Non ribatto nulla: difficile argomentare che uccidere bambini in età scolare possa configurarsi come “rischio accettabile” o “danno collaterale”. Poi mi viene da pensare che, anche senza errori di programmazione, la bomba avrebbe potuto ferire o uccidere un passante notturno. Questo sarebbe stato presumibilmente un po’ più accettabile alla mente degli attentatori, tanto più che stiamo parlando di un quartiere di ville di ricchi borghesi. Che il passante notturno fosse di rientro dalla lotta di classe in cui aveva fatto trionfare la giustizia proletaria, non credo avrebbe spostato di granché questa valutazione.

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