«Bastare a se stessi è la sfida più grande».
Il sole è tramontato già da un pezzo quando esce di casa per far respirare i pensieri: un ritrovamento inatteso ha risollevato domande forse mai davvero sopite.
E così ora cammina lungo la stretta strada sterrata che, dalla cascina in cui soggiorna d’estate, nella campagna toscana, porta al paese.
Se credesse almeno nel destino, potrebbe incolpare esso. Ma non crede nemmeno al destino. La scelta di riprendere in mano, dopo più di trent’anni, quell’ingiallita edizione de Il lupo della steppa di Hermann Hesse è stata sua, e solo sua. E mentre leggeva, quel pomeriggio, si è ritrovato tra le mani una busta. In quella stessa pagina del libro, un passaggio sottolineato a matita: La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e me l’ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri. Con le dita tremanti ha aperto la busta. Al suo interno, una lettera scritta a mano. Ha riconosciuto subito la grafia dell’autore. Su quella non ha avuto alcun dubbio.
Camminando inghiotte e vomita, vomita e inghiotte metri e metri di terra battuta, e intanto cerca di ricordare. Giunto in paese, si ferma davanti alle poste. Era una fredda sera di inizio dicembre. Era il suo compleanno. Viveva ancora nel palazzo rosso di via Mac Mahon, a Milano, aveva da poco finito il dottorato e si apprestava a partire per un viaggio nell’Italia più profonda, quella dimenticata dalle cronache ufficiali, lui, da solo, in sella alla sua Guzzi. Quel giorno aveva tanti pensieri per la testa. Per fissarli, aveva preso carta e penna e aveva scritto una lettera al sé del futuro, nascondendola poi tra le pagine di quel volumetto tanto importante, allora. E oggi? Mancano sei mesi al suo sessantesimo compleanno e non riesce a smettere di pensare alle parole con cui concludeva la breve missiva: bastare a se stesso, per lui, è stata davvero la sfida più grande. E l’ha vinta.
Quella vecchia lettera però l’ha completamente spogliato. L’ha costretto a ripercorrere le tappe della sua vita, ogni singolo passo che lo ha portato a essere quello che è: sentimentalmente un fallito, incapace di costruire una qualsiasi relazione disinteressata con gli altri esseri umani; uno stimato accademico per il resto del mondo. Nel corso degli anni ha scelto la solitudine, ha scelto l’indipendenza. Ha scelto di bastare a se stesso. Nietzsche scriveva che l’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’Übermensch, un cavo al di sopra dell’abisso. Lui l’abisso l’ha affrontato e infine, camminando in equilibrio, è riuscito a percorrere la fune che lo ha portato a oltrepassare l’uomo. E le altre persone, per lui, ormai sono solo un ghigno o una dolorosa vergogna.
Il rigagnolo dei ricordi è diventato un fiume in piena. Dietro a quella lettera c’erano le sue letture giovanili. Letture diverse, che ora ritrova scorrendo le righe della missiva. Adesso sì che la ricorda bene quella sera in cui si era messo a scrivere, con la mano ferma, su un foglietto strappato da chissà quale quaderno. Come al solito, era rimasto per interminabili minuti a fissare il foglio bianco prima di cominciare a scrivere. Ma, una volta appoggiata la penna sulla carta, le parole erano fluite ininterrotte.
«Caro Andrea, non so dove sarai e con chi sarai, se sarai con qualcuno, quando leggerai queste mie, ma anche tue, poche righe. Se hai ritrovato questo testo è perché hai deciso di rileggere Il lupo della steppa. Questo, probabilmente, vorrà dire soltanto una cosa: che sarai ancora alla ricerca di te stesso. Ma la domanda che mi pongo, e che voglio porre anche a te, cioè al me del futuro, è questa: esiste davvero un se stesso? L’identità è davvero un’unità ben definita, coriacea, inflessibile e insensibile al mutamento? Oppure non siamo forse fluidi che di volta in volta prendono la forma di ciò che li r-accoglie? Io non lo so, Andrea, ma spero che quando mi leggerai saprai rispondermi. Una cosa però l’ho capita: bastare a se stessi è la sfida più grande».
Nel frattempo, ha ripercorso a ritroso la stradina ed è di nuovo davanti al cancello d’ingresso della cascina. Dalla campagna l’abbaiare lontano di un cane rompe il silenzio soffocante dell’afosa notte toscana. Il cielo è limpido, si vede una moltitudine di stelle. «No» sussurra a mezza voce, «una risposta a quelle domande ancora non ce l’ho. Non ho ancora capito chi, o cosa, sono realmente. Però anche io ho una domanda per te: ne è valsa la pena?».
Schiude piano il cancello e rientra nell’aia, ma non si dirige verso il portone della cascina. S’inoltra invece nel giardino e siede sulla panchina dove è solito trascorrere qualche ora a leggere, dopo pranzo. Proprio lì, quel pomeriggio, ha riaperto la sua vecchia copia de Il lupo della steppa. Il vento leggero fa oscillare piano un’altalena dimenticata lì da chissà chi, da chissà quanti anni. Orione lo osserva. «No, non credo che ne sia valsa la pena. Ho quasi sessant’anni e sì, ho vinto la sfida di bastare a me stesso. Ma bastare a me stesso ormai non mi basta più». Si rialza lentamente e torna in casa. Sale la doppia rampa di scale, un gradino alla volta. Arrivato in cima, si ferma sulla soglia aperta della camera da letto, senza entrare. Lo sguardo indugia sulla finestra socchiusa che dà sul balcone intarsiato di bouganville in fiore. Ormai ha preso la sua decisione.