Antiparos

L’intenzione inziale era di tenere Elsa lontana dal mio mondo, dal mio passato, da Antiparos.

Il giorno del suo compleanno ci hanno scattato una foto in un ristorante. ‘Ivan Desier con la sua nuova fiamma ha occhi solo per lei, e già si mormora di matrimonio.’ Nello scatto la guardavo rapito, lei appariva di profilo, i lineamenti illuminati dalla lanterna più infantili di quanto realmente non siano. È stato quel trafiletto a darmi l’idea. Non era questione di tempistiche, ci conosciamo da sei mesi e per me è diventata già tutto. Ho commesso l’errore di annunciare ai giornalisti le mie intenzioni, in passato. E cosa è successo dopo, lo sanno tutti. Cambiare lo schema di gioco mi obbliga a sviare, a imparare nuove strategie con me stesso. Così ci siamo sposati in comune, di nascosto. Io, lei, pochi familiari e nessun amico.

Elsa si fotografa davanti al vetro dell’aeroporto che riproduce il suo riflesso dietro la pista in strisce dimmerabili. Uno scatto per i suoi social, uno solo, da Milano Malpensa. Abbiamo fatto un patto: nessuna intromissione dall’esterno. Non è semplice, per lei che da modella vive di questo, e per me che suono.
Ma ha un trucco. In una giornata fa una cinquantina di scatti, che poi archivia e utilizza dilazionati nel tempo. Una linea temporale parallela, creata appositamente per chi guarda – la prova che il tempo è una questione di rappresentazione. Ora indossa il mio cappello, e vorrei dirle che le sta bene, mentre si sporge lontano per prendere un campione omaggio del profumo dalla cesta di un negozio, ma bastano gli sguardi di chi ci incontra a sostituire le mie parole. Sì, siamo una coppia splendida, sappiamo l’effetto che creiamo insieme. È qualcosa di simile alla serotonina che si libera di prima mattina, quando il sonno si esaurisce. Mio fratello me lo ripete sempre: dovrei togliere i tatuaggi che ora non mi rappresentano più. Potrei iniziare dal ramo di quercia che termina in scintille azzurre, in tre sedute laser ci potrei fare altro. Ma se lo facessi otterrei il risultato opposto, suppurerebbe inchiostro a ricordarmi quello che ero prima di arrivare qui, come ci sono arrivato dopo Antiparos, come ho cancellato le tracce per non ritrovare là fuori quella strada di una notte di sette mesi fa, la ghiaia sotto i piedi, il caldo dell’alba estiva, la voce di Fotis che grida in inglese “l’italiano è uscito fuori di testa”…
Ci sediamo a un bar, dove un ragazzino dalle guance canine e sporgenti mi riconosce. Dopo averci scattato una foto la madre mi ringrazia: “Sei da sempre il suo modello”. E mi viene da sorridere, al pensiero di essere un modello per qualcuno. Non ho mai avuto grandi meriti a eccezione di una bellezza cattiva e di una familiarità senza costanza con gli strumenti musicali.

Recuperare uno stile di vita sano comporta tempi lenti, mi ha spiegato il mio analista. “Per uno come te abituato agli stimoli, a fumare prima di dormire, sarà complesso all’inizio. Riprenderai a ricordare i sogni al mattino, mentre avrai buchi di memoria per i fatti recenti, poi tutto andrà al suo posto”.
Non sono riuscito a dirgli che faccio lo stesso sogno quasi ogni notte, da quando sono tornato in Italia. Gli stessi colori violenti, i suoni penetranti, sempre Antiparos.

Elsa finisce di bere il suo succo di ananas, sorride mentre cerca la mia mano sotto il tavolo.
Mi sono scordata di comprare la borsa che ho visto al duty free” dice con delusione.
Ci vado io”, la anticipo alzandomi.
La sfioro con una mano, mentre lei intinge più volte il cucchiaino nella crema chantilly che le hanno portato a parte, a ricreare minuscoli affondi puntellati in attesa che la schiuma riemerga.
Sono questi i gesti infantili che la accostano all’immagine di quello scatto sul giornale. Minimi vizi che nessuno noterebbe in mezzo a una serie di espressioni e attitudini adulte, allenate dietro l’obiettivo.

Prendo le scale mobili per arrivare al duty free, entro e chiedo alla commessa la Chloé Hobo bag piccola in pelle granata. Sto ancora pagando, quando mi sento toccare sulla spalla, e mentre ancora immagino un cliente in coda, mi scuso a voce alta:
Ho quasi fatto…”
Ivan?”
La salopette sopra un top in tessuto sportivo, una giacca maschile e i capelli castani a nascondere il rosso sbiadito sulle punte, il viso pieno, lo spazio ridotto tra la bocca e il naso. Aliki.
Aliki mi dà un bacio sulla guancia. La guardo per indovinarne le sensazioni, ma ha imparato a dissimulare, e ritrovo solo un sorriso accessibile, senza colore. Ora ricordo, la sensazione di trovarmi davanti due Aliki. Una, con cui avevo girato il mondo e che si allenava sul tetto del camper, i capelli ancora bagnati. L’altra, l’attrice; la ragazza precocemente scoperta e appena ritoccata per apparire sufficientemente naturale, che si presentava in completo Armani e un attimo dopo lanciava un video motivazionale sui suoi canali. Due versioni di cui avevo sempre ammirato la reversibilità. Ma se prima compativo chi conosceva solo la seconda, adesso ero io l’estraneo a cui era preclusa la prima.
Le labbra brillano di un qualche gloss a edizione limitata, sotto le luci del negozio. Deve averle ritoccate da poco, perché sono turgide e troppo lisce, come bucce di susina rossa. Emana un sentore zuccherino di frutti tropicali, è di qualche balsamo per capelli, probabilmente della sua linea personale.
Hi Ivan, how you doing?”
I’m fine, are you alright?”
So che potrebbe parlare in italiano, ma sceglie di non farlo, di non venirmi incontro.
How long are you staying?” Chiedo, ancora prima di sapere perché si trovi qui. Sbaglio sequenza e lei esita solo un momento.
I’m here for the commercial.”
Già, lo spot. Ora ricordo. Aveva firmato il contratto per una ditta di liquori, e le riprese erano state spostate per permetterle di finire quelle della serie. Questo mio conoscere dettagli della sua vita passata, che ancora riverberano sul suo presente, mi dà la percezione di quanto poco tempo sia trascorso dall’ultima volta che ci siamo visti. E quanto sia cambiato tutto in questo tempo, per me.
What about you, what brings you here?” Chiede lei, più per educazione che per avviare una vera conversazione.
Holidays”, rispondo, “We’re done with the next season line up.”
Bello”, commenta. “Davvero bello.”
Questo lo dice in italiano e il tono assume un senso diverso, più personale. Non so se sia voluto. Mi guardo intorno per capire se ci sono altre persone con lei.
Ah, no…” aggiunge notandolo. “Sono sola, gli altri devono raggiungerci sul set nel weekend.”
Conosco la sua puntualità maniacale, il suo darsi completamente al lavoro, e quanto questo contrasti con il disordine, con lo stile di vita estremo, i vestiti buttati a terra, lungo il corridoio, le cartacce e i copioni appallottolati sotto il divano.
Non mi chiede se sono solo, non serve. Lavora con i tabloid, deve aver letto i giornali.
Stai bene, quindi” conclude. E so che vorrebbe aggiungere un ‘ora’.
Sto bene”, confermo. “non sono mai stato meglio.” Lei cerca il mio sguardo come per capire se le stia mentendo. “Davvero. Ho ricominciato a suonare, abbiamo fatto il tutto esaurito.”
Sapevo che avresti ricominciato. Era scontato.”
Scontato?”
Sì, scontato, prevedibile” cerca tra le parole, poi passa all’inglese. “I knew you’ll be on your own here.”
Se penso a come mi ero sentito quando ero venuto la prima volta a Antiparos, con lei…

Mi sembrava un posto incredibile, dove ognuno poteva fingersi diverso, e diventare la versione migliore di sé. Erano tutti alle prese con un lavoro personale, parlavano in termini di investimento e di ricerca inesauribile della propria natura. C’era qualcosa di febbrile e sacro in quell’isola, e di terribilmente umano nelle sue contraffazioni. La ricerca salutista, la cura maniacale individualista, i nuovi preparati, le pasticche di melatonina buttate giù dopo quelle di MD nel frullato proteico… Ogni cosa, laggiù, era nuova. Un nuovo progetto, un nuovo metodo per lavorare di più, per meditare, un nuovo locale. Lo ieri diventava obsoleto, saltando la categoria nostalgica mediana, un passo prima dell’oblio. Uno ieri senza denominazione, usa e getta.
Non aveva un’anima, Antiparos, lo si intuiva dalla scarsità di ristoranti del posto. Un locale di sushi accanto a uno italiano e a uno cambogiano per accontentare ogni desiderio, la sintesi perfetta.
Avevo capito che era quella, l’essenza del luogo. La sua sperimentazione, l’apertura maliziosa verso lo sconosciuto, mentre i tramonti salati evaporavano dalla costa per finire sui cortili di erba sintetica, nel rumore di un tagliaerba estivo.
La verità era più semplice. Avevo amato Antiparos perché era l’isola di Aliki, l’essere più straordinario che avessi conosciuto.

Avevo capito subito quanto lei fosse speciale dopo il primo scambio di parole, al festival Electric Island di Toronto, nel 2018.
In quei mesi, le cose qui in Italia non funzionavano. Il progetto che avevo costruito con il mio collega diventava sempre più un percorso da solista, il suo. Inizialmente, ero quello che scriveva i pezzi, suonava e faceva da manager. Poi, quando erano subentrate etichette maggiori, questi ruoli erano stati ricoperti da personaggi più prestigiosi, e io ero finito a eseguire due accordi, come alla recita di fine anno, e a essere quello svestito nella locandina dei live, per attirare gusci di arachidi allo zoo.
Era diventato frustrante. Avevo chiesto al mio collega di farmi cantare. Non tutto, solo poche strofe. Volevo ritagliarmi uno spazio senza sottrarlo a nessuno. Lui aveva reagito con violenza, urlandomi contro. Continuava a ripetere che volevo rovinare i pezzi, che non ero pronto, né abbastanza allenato. La mia voce calante non teneva le note, sembrava scricchiolare, eppure avevo la sensazione che fosse quella, la caratteristica che avrebbe affascinato, così come affascinava me. Ma lui non ammetteva imperfezioni, venerava la levigatezza, anche nella vita. E io avevo imprecisioni nell’anima. Sono uscito dal progetto, le placche alla gola e la febbre intermittente da mesi. Il mio corpo aveva somatizzato la rabbia, punendomi per i troppi sì che avevo detto negli anni. Ho lasciato il tour a metà e sono partito per il Canada. Avrei lavorato qualche mese nel backstage di un festival, per la prima volta dietro le quinte. L’Electric Island, appunto.
Ero convinto di aver fatto la scelta giusta. Mi illudevo che ovunque avrei trovato qualcuno ad aspettarmi, anche una faccia sconosciuta, con in mano il biglietto per una nuova corsa. Poi avevo conosciuto Aliki. Ex bambina prodigio, recitava da quando aveva sei anni. Viveva la notorietà come uno stato di fatto, non aveva mai conosciuto una vita diversa da questa, e per la prima volta mi ero sentito capito. Lei era speciale. Aveva la capacità di rinascere ogni giorno, di reinventarsi in progetti, missioni sociali, film, serie, look. Non conosceva la paura di sbagliare un passo. E ora, era diventata produttrice.
La ammiravo, io al confronto ero meschino. Non ero neppure stato in grado di prendermi quel poco di spazio che mi sarebbe spettato. Di farlo senza alzare la voce, senza violentare me e gli altri. Aliki aveva un suo modo di ascoltare ogni creatura, le ragioni degli altri assumevano una connotazione sublimata. Lei era in ogni individuo. E ascoltava, come faceva con me. I suoi giudizi erano senza rancore, abbracciavano visioni a lungo termine che a me sfuggivano, concentrato com’ero sul dettaglio esposto. Avrebbe avuto le sue motivazioni per essere peggiore. Aveva subito una violenza da bambina, da parte di una figura che frequentava la casa di famiglia. Non avevo mai saputo altro, non ne parlava in quei termini. Sapevo solo che un giorno era finita, aveva avuto il coraggio di chiudere a chiave la stanza, dopo sette anni di abusi. E si era sentita in colpa, proprio in quel momento. La mente è un luogo buio, diceva lei. Non hai mai abbastanza luce per guardare dove metti i piedi. Servirebbe camminare lungo spot a led calpestabili che guidino la strada come nei viali da giardino a luce calda. La nostra vita andava avanti così, lavoravamo di giorno – io ero stato introdotto da un suo agente in una serie –, e nel tempo libero giravamo con il camper per Antiparos. Ho ancora delle foto in pellicola Ektar, di lei in reggiseno e mutande che accarezza un cane randagio a cui allunga un pezzo di pane, mentre ci fermiamo per la strada a fare benzina. Foto di paesaggi venusiani e falesie a picco sul mare. Altri scatti, in hotel boutique di design. I campi da golf sulla spiaggia, circondati dalla foresta. I raggi di sole di fine agosto a stigmatizzare le cosce e il viso scottato dal sole, il resto del corpo in ombra.
Forse, speravo che a contatto con un essere tanto puro sarei diventato anche io una persona migliore. Ma se il contagio interessa il male, il bene si preserva integro, restio a diffondersi endemicamente.

I primi tempi la portavo in Italia, le facevo conoscere la mia famiglia, i borghi, i paesaggi. Tutti erano innamorati di lei, della sua gentilezza e della premura naturale. Poi gli impegni l’avevano richiamata sempre di più ad Antiparos, mentre io facevo avanti e indietro.
Soffriva la solitudine, e una notte mi aveva chiamato piangendo. Era bisessuale, lo dichiarava e la ammiravo per questo. Quella volta mi aveva chiesto se poteva uscire con una ragazza e io credevo di essere abbastanza maturo da accettarlo, volevo solo farla felice. Essere il miglior fidanzato, amico, compagno. Non sarei stato egoista, non stavolta. E mi ritrovai a dire l’ennesimo sì della mia vita per vigliaccheria. Ma mi sopravvalutavo. Da quel giorno accadde sempre più spesso, in mia assenza. Finché non tornai ad Antiparos e lì mi propose di fare sesso a tre. Iniziammo con modelle e attrici di sua conoscenza. Sul momento sembrava tutto eccitante, ero fidanzato con una ragazza meravigliosa, la amavo, e in più potevo avere altre donne inarrivabili, divertirmi senza impegno.
A questo si aggiungevano le droghe. Metanfetamine, anfetamine, mdma, coca e ketch. In ordine sparso o insieme. Era stata Aliki a offrirmele, durante le serate con registi e attori. Lei ne faceva un uso limitato al contesto. Io iniziai a farmi tutti i giorni. Se in Italia la gente mi fermava per strada, lì in mezzo durante quelle feste ero il meno conosciuto e la frustrazione ancora una volta mi portava a cercare sfoghi altrove. Anche il sesso iniziava a essere uno sfogo, un piacere represso e svincolato con violenza. Guardavo le ragazze alle feste solo per pensare a come sarebbe potuto essere, portarle con noi. Mi sentivo onnipotente. Dopo i primi tempi, il meccanismo iniziò a vacillare. Io ero geloso dei momenti che Aliki passava senza di me con altre ragazze, lei era gelosa dei nostri rapporti a tre, quando ad esempio volevo farlo due volte con un’altra. La gelosia ci stava logorando gradualmente, ma eravamo troppo arroganti e luminosi per accorgercene. Non si pensa mai che una scia luminosa possa sparire dietro ai tetti, annegare in acque invisibili.
La mia carriera da attore stava funzionando. La mia vita, invece, era sempre più allo sbando. Ormai pensavo solo a farmi. Ero diventato intimo di Fotis, un amico di Aliki che viveva in una casa a Fanari Beach, dove i festini si prolungavano per giorni. Ogni notte sembrava un lungo sogno senza conduzione, e mi ritrovai una di quelle sere, probabilmente fatto, perché fu lui a dirmelo in seguito, a scrivere un messaggio al mio ex collega in Italia. Quello che per anni era stato come un fratello per me, e che avevo denigrato arrivando a prenderlo a schiaffi, le ultime volte, solo perché non voleva darmi un contentino. Gli scrissi, “mi manchi”. Solo questo.
Aliki mi mise davanti a un bivio. Se volevo vivere con lei dovevo smettere, altrimenti dovevo lasciare la casa la sera stessa. Fu così che mi allontanò da un giorno all’altro. E senza neanche più lei l’effetto fu, all’opposto, quello di togliermi ogni motivazione per cambiare. A chi potevo servire, se neanche la persona che mi amava riusciva a starmi accanto? Mio fratello mi chiamava sempre più preoccupato, mi pregava di tornare in Italia: Aliki doveva averlo cercato. Questo mi incattivì. Una mattina accesi i social ed entrai nella pagina di Aliki. Tra abiti firmati, lasciati intravedere dalla sua cabina armadio fucsia, pose accattivanti alternate ad altre in stile baby in una vasca rosa confetto effetto cocoon, i capelli ciliegia sparsi sui bordi, c’era un post di quella mattina. Lei nel nostro letto, con una mascherina da notte di pelo bianco rialzata sulla fronte, i capelli spettinati e un cuore con su scritto ‘lonely awakening in my honeymoon’. Mi sentivo raggelato. Fino ad allora, avevo sempre pensato che mi avesse allontanato momentaneamente, che dipendesse solo da me. E che quando avrei finito di ingozzarmi di caramelle nella mia gita al luna park, sarei stato riaccolto e tutto sarebbe tornato a posto, come nei primi mesi in Italia. Invece, per lei che non aveva mai ufficializzato niente del suo privato, questo era un messaggio diretto a me. Non ci sarebbe stato più posto nella sua vita per noi né ora, né mai più.

È un modello molto comodo”, dice indicando la borsa. “Chi l’ha scelta deve avere un ottimo gusto.”
È così”, concludo, già con il sapore della distanza sotto la lingua. Dovrei dire qualcosa che spezzi la conversazione, lei aspetta.
Ho imparato a fare la tua ricetta”, alla fine mi previene. “Ho capito cosa mancava, era il diosmo. Un quinto di diosmo. L’ho rifatta più volte, almeno una decina da allora. Da quel giorno. Ma era tutto da buttare, tutto. Penso che ne comprerò una pianta, voglio coltivarlo io… non credi che dovrei?”
Tu puoi fare tutto.”
Lo dico con convinzione. Subito dopo ripenso alla banalità dei momenti in cui le cucinavo, le sue gambe sospese al muro per il gran caldo della Chora, una rivista in mano e il piede che accarezzava a tratti la strelitza sul vaso. La rarità delle impressioni trascurabili.
Devo andare, adesso. Il mio volo sta per partire. Ciao Ivan.”
Non avrei mai pensato, un mese fa, di sentire ancora la sua voce chiamare il mio nome. A volte mi svegliavo pieno di angoscia, dopo le notti da Fotis. Sognavo Aliki che piangeva, ma dopo il suo pianto diventava il suono degli uccelli notturni che si posavano sulle terrazze di Glifa, e io ero il solo a sapere chi fosse. Lo stesso pianto di ‘quella’ notte. Forse lo avevo solo immaginato, non lo avrei mai saputo. Ero fuggito così com’ero, senza niente addosso a coprire un baratro osceno.
Aliki si discosta appena per prendere la valigia. Ha dei brillantini sulle guance, ora che le luci si sono abbassate le vedo, in fluorescenza. La consistenza gelatinosa le rende l’ovale levigato. Sempre la levigatezza che io non so perseguire. Vorrei dirle altro prima che si allontani, chiederle se mi ha perdonato, perché io l’ho fatto al suo posto.
È vestita, ma io la rivedo vulnerabile, sacra.

Quella notte è così che la immaginavo, quando mi sono fermato da Fotis. Abbiamo preso le anfetamine, poi sono rimasto alla festa fino alle cinque. Il gioco che era stato scelto si chiamava C&C. Consisteva in una scacchiera speciale con le pedine svitabili e ogni volta che un giocatore mangiava quelle avversarie, poteva aprirle e sniffare la coca dentro. Limonavo una ragazza che a un certo punto aveva iniziato a slacciarmi i pantaloni per succhiarmelo, ma io l’avevo spinta lontano, mordendole il braccio con cui mi aveva accarezzato il collo. Lei aveva iniziato a singhiozzare mentre si teneva la mano sanguinante. Era suo il pianto che avevo voluto credere fosse di Aliki. I ricordi si rigenerano e non sono più miei. Li preferivo impietosi, falsi.
Mi allontanai dalla ragazza che urlava qualcosa contro di me, in greco, poi in inglese. Erano maledizioni, insulti. Mi chiamava cane. Uscii dalla stanza e scesi le scale. Qui Fotis mi prese per il braccio, ma io mi divincolai. Gli dissi che andava tutto bene. Tutto alla perfezione.
Una volta in strada, presi la via per la costa sud. Erano due ore a piedi. Correvo, quello che avevo preso mi esaltava. Sentivo di poter fare qualsiasi cosa, quella sera. Da lontano vedevo il cancello della villa venirmi incontro e iniziai a spogliarmi, lentamente, a ogni passo toglievo le scarpe, i pantaloni, la canottiera, infine le mutande. Mi liberai di ogni cosa che ero stato fino ad allora. Ero solo un verme che strisciava nudo, valevo meno della terra che stavo calpestando, e finalmente mi piacevo.
Scavalcai il cancello e mi ritrovai dall’altra parte della casa. Un cane mi abbaiava contro, mi inseguì fino al portone, io allungavo calci nel vuoto. Salii le scale che conoscevo a memoria, fino alla camera. Entrai e la vidi, distesa sul letto a occhi chiusi sembrava una bambina. Mi avvicinai piano, ma urtai una cesta a terra. Lei aprì gli occhi, e appena mi scorse nel buio iniziò a urlare. Provai a calmarla, a dirle che ero solo io, ma la voce uscì impastata. E più le parlavo, più gridava in preda al terrore. Qualcuno intervenne e mi prese di peso per portarmi via. Ma sbattei sullo stipite come una falena, tentando la fuga, corsi a ritroso lungo le scale verso l’uscita e mi ritrovai all’aperto, mentre il cane mi inseguiva ancora. Inciampai sull’erba alta lungo il cancello, e finalmente riuscii a scavalcarlo cadendo di peso dall’altra parte, mentre i forasacchi pungevano i polpacci.
Di quel momento, ricordavo solo che mi ero rialzato a stento e avevo camminato verso la superstrada. Lì avevo fatto l’autostop nudo, senza neanche uno straccio a coprirmi. Finché due ragazzi non si erano fermati, e mi avevano caricato in macchina. Continuavano a chiedermi dove abitassi. Mi svegliai in albergo, con mio fratello che mi assisteva addormentato su una sedia. Chi lo aveva chiamato e quando era partito? Avevo dormito trenta ore di seguito, e iniziavo a sentirmi molto meglio.
Quando ti sistemi ti riporto in Italia”, mi aveva detto.
Così era stato, e da quel giorno non avevo più rivisto Aliki, fino a oggi. In quei mesi mi ero sentito in colpa nei suoi e nei miei confronti, per aver rovinato tutto. Mi ero fatto del male, non mi ero alzato né lavato per giorni, ma almeno con le droghe avevo smesso. Una volta tornato a casa, avevo scoperto di non averne più bisogno.

Esco all’aperto. In preda al panico prendo dei respiri profondi. Ricordo le parole del mio analista.
Prima i fatti lontani, poi quelli recenti… prima i fatti lontani… le psicosi ossessive portano a ricreare strutture mentali in contrasto con la personalità e le credenze del soggetto…”
La Chloe Hobo bag incartata ancora in mano, cammino verso l’uscita dell’aeroporto fino alla piazzola dei taxi. Qui ne chiamo uno con un cenno di mano, ma vedo che ha già caricato una famiglia. Dal finestrino aperto un bambino con il muco trasparente dei bambini sani, protetti, mi rivolge uno sguardo atterrito.
Ne chiamo un altro.
Il tassista si ferma per lasciarmi salire. Da dietro osservo i capelli lisci, lunghi, il collo della camicia non stirato, le dita appena sporche di tabacco rollato con cui attiva il contachilometri. Sul cruscotto, l’adesivo giallo e rosso “Sailing Antiparos”.
Dove la porto, signore?”
Mi sporgo leggermente in avanti verso il suo collo madido, per essere sicuro che mi abbia sentito bene:
Mi porti nel posto peggiore che conosca.”

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