Da piccola, non capiva. Vedeva le facce accartocciarglisi di fronte, coprirsi con le mani, fuggire.
All’oratorio sentì dire da un bambino in lacrime che le stava accanto sull’altalena «papà andiamo via, c’è puzza». E indicandola: «è lei papà, è lei che puzza». Alla fila per il cinema lo stesso, grandi e piccoli si disperdevano. «Non si può entrare con quella lì». Rosa si rifugiava contro il petto della madre, che la riaccompagnava a casa, nella sua stanza.
A scuola non la ammisero mai. In nessuna scuola. Con la scusa che le classi erano già formate e avevano raggiunto il numero massimo di iscrizioni. Ma era chiaro il motivo. «Vedrai, l’anno prossimo ce la faremo», diceva la madre. Ha studiato con il suo aiuto i primi anni, ha imparato a leggere, a scrivere, a fare di conto. Ha continuato poi da sola e con voracità, quasi fosse affetta da una bulimia di conoscenza, nel paradosso di diventare sempre più colta pur non possedendo nemmeno la licenza elementare. La madre le recuperava ogni settimana libri nuovi dalla biblioteca; quando si ammalò, non potendo andare di persona, prese a servizio un fattorino che le lasciava il sacco con la spesa e i libri sul pianerottolo e recuperava quello con i resi e il proprio compenso, senza mai entrare in casa. Il fattorino continuò a farlo anche dopo la morte della donna. Lo fa ancora.
C’è un libro che Rosa tiene sempre sulla scrivania, un libro di cui spesso, la sera, rileggeva dei passaggi ad alta voce con la madre. Resurrezione. Nel personaggio di Katjuša Maslova cercava una risposta per se stessa, lasciandosi trasportare, a tratti, in rêveries estatiche.
Al mattino la madre le preparava la vasca per il bagno. Aggiungeva all’acqua essenze profumate, la aiutava a strofinarsi per bene la pelle con un guanto esfoliante. Ma non appena si asciugava, subito alla madre si stringevano le palpebre e le guance. Le lavava i vestiti in continuazione, per evitare che l’odore li impregnasse e diventasse così opprimente da non permettere a nessuno di condividere con lei lo stesso spazio.
Rosa fece molte visite specialistiche, ma gli esami non risolsero l’enigma sulla causa del suo male. Seguì diverse terapie, affidandosi a diete alimentari, creme antibatteriche, iniezioni di botox, farmaci anticolinergici, ionoforesi. Nulla che abbia mai funzionato.
Ai giorni di quiete si alternavano quelli di disperazione, in cui Rosa covava la rabbia con i pensieri ossessivi della sua disgrazia, si tirava pugni alle spalle e piangeva schiacciando la faccia contro il cuscino su cui si imprimeva un sudario di lacrime. La madre le si sedeva vicino, non diceva niente. E con la sua presenza Rosa riusciva a calmarsi, il respiro diventava profondo e i pensieri si disperdevano, fino al giorno dopo.
Quella rabbia è scomparsa quando la madre è morta. Al funerale non c’era nessuno oltre a lei e il prete con un fazzoletto premuto sul naso. È tornata a casa da sola e al coro dei ragazzi «arriva la merdona!» si è detta «è vero, sono fatta di merda». Ha accettato il destino sancito dal suo stigma. Ma ha anche iniziato a uscire di casa.
Nelle prime ore del mattino, non vista, corre fino al bosco. Con passi lenti e silenziosi da ladra supera il ristorante e la casa abbandonati che si trovano al suo imbocco. Delle volte si siede sulla panchina di ferro della veranda, stando attenta a non calpestare i vetri delle bottiglie rotte, i preservativi usati e gli escrementi lasciati in ricordo da animali e uomini notturni. Più spesso prende uno dei sentieri che si inerpicano tra gli alberi, aiutandosi con una torcia. Impara lo sfarfallio delle foglie mosse dal vento e il crepitio dei rami piegati dal peso degli uccelli. Conosce il rischio di essere vista e si immagina di essere una lepre in fuga. All’alba, torna a casa e dorme fino a mezzogiorno.
Una notte, lasciatasi indietro il ristorante abbandonato e già riprendendo il passo sicuro di quando è nel bosco, qualcosa accade da farle fermare il respiro e le gambe. Rosa punta la torcia verso la panchina e, per un istante, la luce illumina il volto di un uomo che, seduto, la guarda. La luce prende a vorticare, Rosa scappa, torna a casa e si rannicchia sotto le coperte, in attesa che qualcuno venga a prenderla. Ma nessuno viene e, a mattino inoltrato, prima di riuscire finalmente ad addormentarsi, ripensa a ciò che ha visto, all’uomo seduto, ai suoi occhi grandi e tristi a forma di castagna.
Per una settimana riesce a resistere, si accontenta delle fughe astratte dei romanzi. Ma la malinconia che le pesa addosso è troppo grande. Quell’uomo non sembrava un vagabondo, era giovane, vestito bene, i capelli tagliati corti, senza barba e quello sguardo quasi implorante. Forse come lei non riusciva a dormire e i passi lo hanno condotto fino a lì. Deve provare a tornare, facendo più attenzione. La notte riprende la strada per il bosco. Quando arriva al ristorante stringe la torcia più forte tra le mani e fa un balzo verso la veranda, pronta a fuggire alla vista dell’uomo. Ma non c’è nessuno. Appoggia le mani alla ringhiera bassa in legno che separa la casa dalla strada. Attende qualche istante. Nessuno. Apre il cancelletto e si siede alla panchina, per calmare il ritmo del respiro affannato dalla paura. Che subito sopravviene nel sentire una voce che la prende alle spalle.
«Chi sei?», le chiede. «Non spaventarti».
Rosa si volta, è l’uomo che le parla dalla porta semiaperta della casa.
«Abita qui?».
«Sono arrivato da poco. Qui vivevano i miei nonni. Ci venivo da bambino e da allora questa casa è rimasta vuota».
Si passa una mano tra i capelli, Rosa spinge la schiena contro la parete.
«Le va di bere un tè? Non c’è elettricità ma ho un fornelletto con cui posso scaldare l’acqua».
Rosa lo squadra. Che strana proposta un tè di notte nel bosco. Strano che non le chieda perché si trova lì a quell’ora. Ma ancora più incomprensibile è la sua farsa.
«Non sente che odore di merda che c’è?».
L’uomo abbassa lo sguardo. «Devo chiederle scusa, non ho avuto le forze per pulire e sembra che la terrazza sia stata a lungo maltrattata. Se può in parte giustificarmi, io non percepisco più gli odori. Una malattia ha colpito la mia città causando molti morti. Io sono riuscito a salvarmi ma con diversi postumi».
Rosa accetta la proposta e attende la tazza di tè.
«Perché non siete più tornati?»
«Non si può arrivare fin qui in macchina e ogni volta che qualcuno ne parlava veniva troppa nostalgia. I miei hanno provato a vendere la proprietà ma è un unico blocco con il ristorante che era già chiuso quando ero bambino. Io sono venuto qui per cercare un po’ di pace».
Quando l’uomo le si siede accanto, Rosa preme la mano destra contro la coscia, spinge le unghie nella carne. Nessuno oltre a sua madre le era mai venuto tanto vicino. Ma l’uomo ha un tono così dimesso e i suoi occhi tristi le fanno dimenticare la paura. Lo ascolta, scopre che della sua famiglia è il solo sopravvissuto, che ha portato con sé tutti i ricordi e ora ha bisogno di raccontarli a qualcuno. E forse lei, pensa, è destinata a questo.
Il cielo, d’un tratto, schiarisce, senza che lei se ne sia accorta hanno parlato per ore. Gli chiede il suo nome, Martino, le dice.
«Le vorrei fare anch’io una domanda, prima che parta, ma se non vuole rispondere non glielo chiederò più, promesso. Perché viene nel bosco a quest’ora da sola? Cosa cerca?».
«Come lei, cerco pace».
Le notti seguenti le trascorrono insieme, l’uomo le racconta del suo passato, Rosa non ha il coraggio di parlare di sé o di mentire, così descrive i libri che ha letto e alcuni glieli porta in dono. Una notte leggono insieme il passaggio in cui il principe Nekliudoff riconosce Katjuša al banco degli imputati e Martino la bacia. A Rosa sembra che il bosco si sia ammutolito, per la prima volta non sono le parole a salvarla, ma un silenzio da cui non vuole scappare. Quando i raggi del sole si allungano sul letto, lei vede il chiarore dare forma al corpo dell’uomo sdraiato accanto a lei e chiude gli occhi addormentandosi. Al risveglio fanno colazione e passeggiano insieme nel bosco. Rosa teme di incontrare qualcuno e non riesce a nascondere la sua agitazione.
«Per le prede è meglio muoversi di notte», spiega.
Martino la stringe, chiede se vuole fermarsi con lui e provare a cercare pace insieme. Le accarezza piano le spalle mentre parla e Rosa capisce che ci sono momenti che, mentre accadono, prendono subito spazio tra i ricordi. Le serve il tempo di andare a recuperare a casa qualche vestito. Non vuole che lui la accompagni, non occorre. Cammina lenta, nei pensieri ancora immersa nell’intimità della notte, raggiunge il palazzo in cui è l’appartamento che per tutti quegli anni è stato la sua prigione. Nekliudoff ha deciso di seguire Katjuša in Siberia, la neve che copre di bianco il suo mantello cade fitta e così le pietre che i ragazzi hanno preso a lanciare contro Rosa. «La merdona!» gridano a ogni tiro fino a quando lei è immobile, stesa in terra. Scappano via. Dal palazzo esce un uomo con in mano un sacchetto, scavalca il corpo coprendosi il naso con la manica della camicia, scompare alla prima svolta della via.