La restituzione

Evento privato, gli dico e mostro l’invito. L’uomo alla reception controlla in elenco e poi annuncia: sala grande, primo piano.

Sono le due meno venti – ho trovato subito l’hotel e avuto fortuna col parcheggio. Bene, penso, mi accredito e faccio altri cinque minuti di pratica focalizzata sulla restituzione.

Attraverso la hall, seguendo i banner arancioni e verdi, e salgo lo scalone, la sala è in fondo al corridoio. Avanzo deciso – confidence is key. Ad accogliermi è una brunetta carina, già vista a qualche meeting. Sorride. Mi consegna il badge e indica l’ingresso: posti riservati, terza fila. Avanzo ancora. Non c’è porta ma due tende di velluto scuro, aperte al centro come un sipario. Prima delle tende, alla destra del sipario, un grande specchio da terra.

Non è stato facile – da ragazzo ero timido, schivo, pronto solo a cedere il passo e a farmi da parte – quante occasioni perse. Ma ora sono qui. Sistemo il badge – mi prendo tutto il tempo – facendo passare il laccio tra il colletto e la camicia. Sorrido allo specchio – al senior in coda alle mie spalle – e attraverso il sipario.

Il badge è un tesserino plastificato da tenere al collo, tutti in sala ne hanno uno. Ce ne sono di colori diversi: oro per i manager, blu per i senior e verde per gli esploratori – le matricole, come dice qualcuno. Il mio è arancione: best-recruiter. Tre, sei, a volte undici contatti utili al mese, premio fedeltà e fatturati platinum, tutti gli obiettivi raggiunti – posso dire di saperci fare con le parole.
Ma il reclutamento è un fatto individuale, privato – si vende sé stessi, come insegnano i coach, uno stile di vita. E così sarà nella restituzione, mi dico. Stay confident e tieni il focus che le parole arriveranno.

Insomma, entro. La sala è quasi piena – volti noti, responsabili e team leader, ma anche molti sconosciuti – un sacco di gente. Terza fila. Le sedie sono disposte a piramide, verdi in fondo, arancioni e blu davanti, oro in prima fila. E tutte guardano al palco. Al vertice, illuminato. Ho bisogno della pratica. Pochi minuti, mi basta una saletta appartata – anche il bagno – dove possa chiudere gli occhi e focalizzare.

Quindi esco, scendo giù – ho tutto il tempo, mi ripeto. Vado al bar della hall.
È una sala enorme, con luci calde e soffuse, deserta. Ordino, perché usare senza consumare è da poveracci, e chiedo per la toilette.

Cinque minuti, forse dieci, chiudo la pratica e subito mi sento meglio.

Quando esco, il barman mi viene incontro, un braccio dietro la schiena e con l’altro regge un vassoio. Appoggia il bicchiere su uno dei tavoli, con questo fare così, un po’ lezioso, e torna al bancone.
Che è una sala enorme l’ho già detto – e silenziosa – coi lampadari antichi, tipo di bronzo, gli specchi e i soliti velluti alle pareti. Perché no? mi dico. Figurati se il meeting inizia puntuale. È un momento di luce e di possibilità, decido di brindare. Ai successi, alle sfide, brindo a me stesso! E poi – mi ero scritto due cose, giusto per non andare a braccio – ripasso al volo gli appunti, mi concedo il tempo per un’ultima revisione.

Insomma, sono lì al tavolo col mio Negroni, rileggo il discorso e qualcosa non mi convince. Cerco la penna – voglio che tutto sia perfetto – e una voce scura, profonda, mi prende alle spalle.
È un signore alto, distinto, capello bianco e barba curata. Permette? Dice – e si siede.

Evento privato – indica il badge –: non si offenda ma siete tutti uguali, fatti in serie con lo stampino, non so se mi spiego.
No, dico io, si spieghi.
Dite tutti le stesse cose: facevate un lavoro frustrante ma poi avete scoperto qualche metodo “esclusivo per fare un sacco di soldi e avete svoltato. Parla in questo modo saccente, facendo le virgolette con le dita.

Dia qua, e mi strappa i fogli di mano. Infila gli occhiali – io scelgo di restare calmo, vediamo dove va a parare – poi schiocca le dita e alza quella sua voce scura: il solito.
Champagne, chiede il barman? Una bottiglia, risponde il vecchio. E, rivolto a me: le sembro tipo da prosecco?

Legge in fretta a bassa voce – il focus, la vision, blablabla, nessun capo niente obblighi – e scuote la testa. Io lascio fare – andare via ora sarebbe come darla vinta. Quando arriva la bottiglia, il mio cocktail è finito. Lei beve in fretta, dice lui, e fa segno al barman.

Poi mi guarda serio. Come ben sapete, non vendiamo prodotti ma uno stile di vita. Che significa? No, non risponda. Se già lo sanno, è inutile. Cancelli.
Ma è la nostra mission, dico io.
La vostra cosa?
Mission.
Lui appoggia il foglio e batte l’indice sul tavolo: cancelli.

Non saprei. In effetti con qualche taglio è più incisivo. Mi fissa in quel modo, anche il suo respiro si fa pesante. Va bene, dico io, e tiro una riga. Lui approva.
Poi sfila gli occhiali e cambia tono, come in confidenza.
Ascolti, le sue parole sono vuote, lei parla senza dire. Questa pratica, ad esempio, che cos’è? E gli obiettivi raggiunti, quali sono? Lei deve essere più concreto, specifico, capisce?

Anzi, sa che le dico? Mi strappa di mano anche la penna e traccia una grossa X sul foglio. Questo non le serve, mi creda, le parole sono già dentro di lei.
Così, tra un bicchiere e una bottiglia, proviamo e riproviamo il discorso. A braccio, senza scaletta. E alla fine tutto scorre: è come se le parole mi uscissero da sole – ma sono quelle giuste, concrete – frasi sciolte e brillanti – adesso sì che funziona!

Vorrei abbracciarlo – grazie, non ci siamo neanche presentati – ma lui si fa umile, schivo com’ero io un tempo.
È il momento, dice, sistema quel colletto e vai.
Poi mi stringe la mano.
Sei un ragazzo in gamba, è stato un onore essere tuo ospite.
E sparisce così come era apparso: mi volto e non c’è più.

Ma c’è la brunetta carina, sorridente. Ci sono i banner arancioni e verdi, il bar della hall non è più deserto – che succede? – qualcuno ha preparato un buffet. Ed ecco che entrano – sorridenti anche loro – responsabili e team leader, coi tesserini colorati, i senior, le matricole.

È il momento. E allora sai che faccio? Salto sul tavolo e attacco: nessun capo e niente obblighi, un solo stile di vita!
Senza scaletta, così, a braccio.
Facevamo lavori frustranti, troppo ghiaccio e poco gin, ma poi abbiamo “svoltato”.
Sorridono tutti, e anche a me viene da ridere perché sembrano proprio fatti in serie, con lo stampino.
Ci meritiamo – parole giuste, concrete – il Campari e le bollicine.
Ma quanti sono? Escono dai fottuti muri, letteralmente. Sì, le-bol-li-ci-ne. E anche i loro riflessi sembrano di plastica, non ce la faccio. Provo a restare serio – il focus, la mission – ma penso a prima, quando stavo per farmi la pratica addosso e… non riesco più a smettere. Scusate, scusate… Rido – mi strappo la camicia – rido come una scimmia.

È strano perché sono ubriaco ma – in qualche modo – non sono mai stato così presente. Ricordo che, al corso, il coach paragonò l’attività a una performance. Ci disse che dobbiamo essere un po’ psicologi e un po’ istrioni – osservare i dettagli, calibrare. Saper entrare ma anche uscire di scena e io capisco che è arrivato quel momento quando il barman alza la cornetta.

Va bene, dico, ho finito.
Prendo fiato, la stanza da quassù sembra più ampia.
C’è un uomo, tra le sagome. Ha riso fino alle lacrime, ha la camicia a brandelli. Mi guarda da uno specchio, ma è fatto di carne, preciso e concreto. È stato un ragazzo timido, poi un venditore o qualcosa del genere, di stili di vita. Ora piange forte, ma è intero. Pronto a restituire.
Va bene, ripeto, ho imparato la lezione.
Sfilo il laccio da quel che resta del colletto, strappo via anche il colletto. Prima di scendere dal piedistallo, ringrazio per l’ospitalità.
Siete gente in gamba – il badge lo lascio sul tavolo – è stato un onore.
E, con la giusta umiltà, vado veloce verso l’uscita.

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