«Fifty six Falcons / across the old laundry / I tasted / Jigsaw you / How I hate to see this wasted / I’m thinking of / a parallel / these lines won’t cut / but all it takes / is finding some / way to weld / Some way to weld»
dEUS – Jigsaw You
Scendo le scale di corsa e mi precipito fuori, dietro il rettangolo del portone si apre il viavai isterico dei passanti e sullo sfondo la solita figura immobile della ragazza coi capelli rossi del bar all’angolo che mi guarda – dalla vetrina, mi guarda, come se volesse strapparmi le spalle e indossarle; se solo sapesse, se solo immaginasse cosa c’è sotto le mie spalle – io la lascio sparire dietro l’angolo e continuo avanti, passo per il buonasera dell’edicolante e il cenno del capo del cassiere che fuma una sigaretta con la schiena contro il muro della lavanderia, e tiro avanti, più avanti, fino a dove la strada si spacca in un solco netto scavato da un oceano di automobili, fino a dove la prospettiva si allarga e posso guardare in su, senza dover tirare il collo, posso guardare in alto, fino al taglio rosso del tramonto che cola sangue sul profilo dei grattacieli, una vena recisa nell’indifferenza generale del mondo che si precipita da qualche parte, si precipita altrove, e allora mi fermo e piango, così, da sola, sul limite del marciapiede, mentre il semaforo segna verde [se qualcuno mi vedesse penserebbe che sono pazza, una pazza ferma sotto un semaforo che segna verde, ma nessuno mi vede perché tutti si precipitano, si precipitano altrove, e non c’è nessuno che sia qui, nessuno che sia veramente qui, adesso, mentre il sole crolla e io piango, senza smettere, senza riuscire a smettere, senza riuscire nemmeno a capire perché] piango fino a quando il buio arriva a annegare tutto, il cielo e me e il mio pianto, e non resta che il cono di luce dei fanali che sfrecciano e il semaforo che segna rosso, e poi ancora verde, e allora mi volto e torno indietro – mi volto e torno a casa – torno a casa da te che mi aspetti con le braccia conserte e la schiena sprofondata nel divano per chiedermi di nuovo «Dove sei stata?», e non mi guardi nemmeno mentre continui a ripetere «Dove sei stata?» e io ti dico solo da nessuna parte e poi vado in cucina – corro in cucina – e preparo la cena.
Scusami non ti ascolto è vero – finisco di lavare i piatti e accompagno Luca a scuola – ci sono sì, ma sono anche da qualche altra parte, sono qui di fronte al lavandino che faccio finta di ascoltarti – è vero, sì, è vero che faccio finta di ascoltarti – e sono insieme a un ragazzo con gli occhi senza colore che mi tiene – mi tiene per mano – sul bordo di una città straniera, livida nella pioggia e scintillante come un artiglio d’acciaio piantato nel petto a mozzare il fiato, e tutta quella bellezza – così calma, così inconsapevole – mi fa esplodere, è una detonazione impercettibile, appena un sussulto ma lui la sente – lui sente tutto – e allora mi guarda con i suoi occhi grigi e mi tiene – mi tiene per mano – e io non vado da nessuna parte, non mi rompo in mille pezzi, non mi dissolvo sopraffatta da tutta quella bellezza lancinante che mi cade sul petto ma resto [resto lì con lui, dentro le sue mani, dentro la sua voce che dice esattamente quello che io non riesco a dire] e non c’è nessun altro posto dove vorrei restare, non c’è nessun altro posto dove voglio restare, ma non posso – perché ci sono, sì, ma sono anche da qualche altra parte – perché sono qui al centro della cucina a dirti che accompagno Luca a scuola e vado in ufficio, e quando ho finito di risponderti se n’è già andato – lui, e quell’istante, e il bordo scintillante di quella città straniera – se ne sono già andati e non c’è modo – non c’è proprio modo – di farli tornare indietro.
C’è una vertigine nella mia testa – lo sai te l’ho detto – c’è una vertigine che piega i miei pensieri sempre dallo stesso lato, sempre nella stessa direzione, non posso fare a meno di credere che anche se mi costringessi a spostarli in un altro verso tornerebbero lì – sempre lì a quello stesso punto sfocato – devo andare è tardi, è tardi te l’ho detto, devo arrivare sulla tangenziale a vedere il tramonto [non c’è altro posto in questa città dove si possa vedere il tramonto passare da parte a parte, non c’è nessun altro posto in questa città dove si possa vedere l’orizzonte passare da parte a parte, e ricordarsi che il cielo non è una striscia azzurra appesa tra due muri, che il cielo è più probabilmente una strada molto lunga che non arriva da nessuna parte, una strada senza incroci senza deviazioni, che fa un giro completo, due giri, se vuoi anche tre, e si riavvolge su se stessa, tutto si riavvolge sempre su se stesso, basta capire dove ci si vuole fermare, basta solo capire qual è il verso che si vuole seguire].
Non lo so non lo so davvero è inutile – smettila di urlare – non lo so cosa vedo quando guardo in quel modo – così, in alto, dal piano schiacciato di un pavimento, da una lastra d’asfalto, più su di balaustre e cornicioni, più su dei tetti dei palazzi, più su delle teste che tirano dritto – non lo so cosa vedo ma ci dovrà pur essere qualcosa alla fine del mio sguardo, ci dovrà pur essere qualcosa in quel punto sfocato alla fine del mio sguardo – ti prego smettila di tenermi le braccia, così mi fai male – forse se riuscissi a capirlo, se riuscissi almeno a dirlo, non avresti più bisogno di lasciare graffi sul collo della ragazza con i capelli rossi del bar all’angolo che mi guarda – mi guarda, come se volesse strapparmi la pelle e indossarla, se solo sapesse cosa c’è sopra la mia pelle – non avresti più bisogno di lasciarle graffi profondi come grida, come le tue grida adesso, come le tue grida, ieri, dopo la cena, dopo tutta quella gente, dopo tutte quelle parole inutili, io c’ero – lo so, ma non avevo voglia di parlare e comunque non avevo niente da dire – io c’ero, ero lì hai ragione, e mentre portavo Luca a dormire mi sono vista nello specchio del corridoio e il mio vestito era molto bello – ero così bella – ed era un peccato, un peccato davvero che non ci fosse nessuno lì – nessuno che fosse veramente lì – ad avere bisogno di tutta quella bellezza, così sono tornata indietro, sono tornata in salone, ho stretto la mano a tutti gli invitati, a tutti sorridendo, mi sono seduta in un angolo – sono rimasta seduta in un angolo, sì, è vero che sono rimasta tutta la sera zitta seduta in un angolo – e me ne sono andata da una finestra aperta, perché mi pareva di avere intravisto una specie di breccia, di avere trovato un riparo – un taglio di cielo luminoso sfuggito alla notte, alle unghie dei tetti – perché mi sembrava che da sotto quella coperta tutte quelle voci stridule si sentissero appena, che tutte quelle facce sfocate si vedessero appena.
Non lo so davvero – è inutile – non lo so a cosa penso quando guardo in quel modo, non lo so – ti prego smettila di gridare, smettila di stringermi così non riesco a respirare – ma è tardi, è tardi, devo andare, devo scendere le scale di corsa e precipitami fuori, passare per il buonasera dell’edicolante il cenno del capo del cassiere che fuma una sigaretta con le spalle contro il muro della lavanderia e tirare avanti – più avanti – fino a dove la strada si spacca in un solco netto scavato da un oceano torrenziale di automobili, fino a dove la prospettiva si allarga e posso guardare in su senza dover tirare il collo, posso guardare in alto fino al taglio rosso del tramonto che cola sangue sul profilo dei grattacieli, come una vena recisa nell’indifferenza generale – ti prego smettila di sanguinare – devo arrivare al semaforo, e piangere, senza smettere, senza riuscire a smettere, senza riuscire nemmeno a capire perché – davvero non posso restare, davvero credimi non ti volevo colpire – è che non so dove vado quando guardo in quel modo, forse se fossi ancora quel ragazzo con gli occhi grigi sul bordo lucido di una città straniera, se fossimo tornati lì, se potessimo tornare lì, in quell’istante, in mezzo a tutta quella bellezza e cambiare il verso di questa strada, della vertigine nei miei pensieri – fare un giro completo, due giri se vuoi, anche tre – forse, se la tua gola smettesse di sanguinare, dove vado me lo diresti tu.
Io, speravo che me lo dicessi tu.
Margherita, sei pericolosa!
Ma scrivi bene.
Non so però quanti avranno letto il racconto 2 volte come me per essere sicuri di aver colto il senso.