Costa pugliese, anni novanta.
Riverso sulla battigia, aveva la guancia destra sulla sabbia e le braccia aperte a ricordare un Cristo. I capelli, neri come il giaccone, danzavano al ritmo della risacca. Avrà avuto trent’anni.
Premetti le dita sul collo, sentii il cuore pulsare. Allora lo trascinai sulla sabbia asciutta e presi l’acqua dal carretto per levargli il sale dalle labbra.
“Come stai?”
Dischiuse gli occhi ed emise un lamento. Lo spogliai, stesi i vestiti su uno scoglio ancora freddo e lo coprii con la mia lunga veste bianca.
Quella mattina non mi sarei immersa.
L’alba rischiarava la muraglia di roccia calcarea alle mie spalle e la ripida discesa da cui ero arrivata, una mulattiera che ora mi appariva minacciosa. Mai avrei potuto risalire Cala Nacchera da sola, impossibile trascinare il carretto col peso del corpo di quell’uomo. Sedetti accanto a lui. Disegnai cerchi sulla sabbia con un osso di seppia in attesa dei pescatori. Prima o poi qualcuno sarebbe arrivato. C’erano le reti da ritirare.
“Chi è?” chiese Salvo quando mi vide.
“Gesù” risposi.
“Se ti sente Don Mario… Come è arrivato qui?”
“Non ne ho idea. Voglio portarlo a casa”.
“Non sai nulla di lui. Meglio il presidio medico”.
Mi aiutò per il sentiero impervio, io spingevo, Salvo tirava. Arrivati alla spianata, fu categorico: dovevo consegnarlo alle autorità, mi avrebbe accompagnato lui in paese.
Rinfrescai il mio viso e quello dell’uomo con l’acqua della borraccia, afferrai il carretto e puntai dall’altra parte, verso la collina. Salvo sbuffò e riscese in spiaggia.
Mia madre non la pensava in modo diverso. In piedi sulla soglia, con le mani a stringere i fianchi e i gomiti ad angolo, disse che in casa non ce lo voleva. Misi il carretto all’ombra dell’ulivo davanti alla veranda e rimasi a guardarla. Feci un passo nella sua direzione. Prese il crocefisso d’oro dall’incavo dei seni per baciarlo e invocò il suo Dio. Non servì neanche spostarla. Mi rannicchiai e sgusciai raso muro. Se lo sa Don Mario, se lo sa Don Mario, diceva mentre rifacevo il letto che fino a pochi mesi prima era stato di nonna.
Preparata la camera, trovai mia madre sotto l’ulivo, davanti al carretto. Finsi di non vederla farsi ripetutamente il segno della croce.
Pregai l’uomo della spiaggia di aiutarmi a sostenerlo, lui mise la forza che poté, in corridoio alzò più volte lo sguardo sulle cianfrusaglie della mia galleria.
I paesani ne parlavano sempre. Con la scusa di visitarla, verificavano se tra i ritrovamenti ci fossero oggetti di valore da rivendicare. La dentatura di uno squalo, il lume a olio incrostato di conchiglie, avevo trovato anche un’anfora romana mentre nuotavo su un banco di nacchere, enormi cozze rosse che vedevo allora per la prima volta. Posate d’argento e interruttori di ceramica erano riposti su mensole insieme a sassi, vetri levigati, anelli e proiettili della seconda guerra mondiale. Più crescevo, più le mensole aumentavano.
Presto si diffuse la voce. Il solco sterrato che portava al cancello blu divenne più profondo. In tanti venivano a fotografare la mia collezione, nonostante la nostra casa fosse su una collina pietrosa, in cima a una salita dissestata. Mia madre li faceva pagare.
Con i primi soldi aveva fatto fare al falegname delle frecce segnaletiche azzurre con su scritto Casa Marina. Ci pensava lei ad accogliere i turisti. Io a tredici anni già non amavo stare in mezzo alla gente. Di me dicevano tutti che ero strana, che mi isolavo, che arrivavo a scuola tardi e con i capelli sempre bagnati. E che a fine lezioni non mi fermavo mai a giocare coi compagni.
Quando cominciai a lavorare il bisso, però, divenni davvero solitaria.
Avevo terminato la terza media, e come le mie mani e la mia casa spandevo odore di alghe essiccate.
Furono le cozze rosse a portarmi la seta delle onde. Quei grandi molluschi si potevano mangiare?
Lo chiesi ai vecchi in piazza. Risero. Solo io potevo fare domande così idiote.
“A qualcosa dovranno pur servire, no?” dissi al falegname.
“Vai dalla signora Teresa”.
E io ci andai dalla signora Teresa, settant’anni e la pelle disidratata. E lei mi mostrò tessuti mai visti, leggeri e volatili al tatto. Mi facevano pensare ai re e alle regine che avevo visto sui libri di scuola. Solo loro avrebbero potuto indossare tanta eterea e finissima bellezza. Loro. E gli uomini di chiesa.
Mi disse che li aveva tessuti con la fibra estratta dalle valve di quelle conchiglie.
“E come si prende?”
“È un segreto. Bisogna essere quasi pesci per farlo”.
Andavo a trovarla ogni giorno. Le raccontavo di come prima e dopo la scuola diventassi pesce, di quanto mi piacesse arrivare all’alba sulla spiaggia senza orme, delle sacche di juta che riempivo con tutto quello che trovavo, del carretto che avevo costruito per portare via con me le cose pesanti.
Conosceva di fama la mia galleria. Ora mi manca di conoscere te, così disse quando venne a vederla. E si prese tutto il tempo che le servì prima di fidarsi.
Solo dopo molti incontri mi spiegò come prendere il filo dell’acqua.
Solo dopo tanti altri mi insegnò a tesserlo e a ricamare il mare.
Sei tu, annuì un giorno, e mi portò a Cala Nacchera. Dalla battigia indicò una macchia scura oltre la seconda secca, proprio dove avevo trovato l’anfora. Il vento le accarezzava la lunga chioma bianca e la tunica turchese le svolazzava intorno come un’onda. Sembrava una sacerdotessa del mare.
Raccolse i capelli sulla nuca con un fermaglio e rimase in costume nero intero, intorno a una gamba aveva una fascia elastica con alloggiamenti per tre coltelli. Ognuno aveva una dentellatura e una lama diversa.
Entrammo in acqua. La vidi diventare pesce. Nuotava lentamente, un petalo soffiato dalla corrente che tratteneva più ossigeno di me. In apnea, con gli occhi grandi dentro la maschera e gli zigomi premuti dalla plastica, si faceva spazio tra le alghe di Poseidonia e accarezzava i molluschi.
All’inizio dissalavo e cardavo la fibra da lei. Col suo fuso ho tirato i primi fili di bisso e sul telaio di famiglia ho realizzato prove di tessitura, impalpabili centrini fatti male che arricchirono da subito la mia esposizione. I visitatori aumentarono e mia madre rincarò il costo d’ingresso.
In molti avrebbero voluto acquistarli nonostante le imperfezioni dell’inesperienza, ma io non volevo venderli. Al mio no, loro raddoppiavano l’offerta. Se avesse potuto, mia madre si sarebbe sfregata le mani.
Per due giorni riportai in cucina colazioni, pranzi e cene. Accostavo la porta della camera per non disturbare l’uomo del mare.
La mattina che non lo ritrovai a letto, mi mossi silenziosa in casa e lo scovai oltre il portico. Guardava il roseto senza rose. Si voltò quando poggiai il vassoio sul tavolo di marmo scorticato in giardino.
“Come ti chiami?”
Non rispondeva.
“Io, Sonia” dissi, battendomi il petto. “Tu?”
“Borian”.
Prendemmo il caffè, la spremuta d’arance e una fetta di pane bagnato su cui lo zucchero si riverberava come polvere di diamante, poi si diresse al capanno di lavoro che era stato di mio padre, dietro la fontanella dalla bocca asciutta, la prima cosa che riparò.
Si prese cura di tutto ciò che stonava alla sua vista e alle sue orecchie, dai rattoppi alle perdite d’acqua: il gocciolamento del lavandino e della cisterna del bagno sparì e le porte smisero di cigolare. Lui sempre zitto, i movimenti lenti, lo sguardo basso. Mamma pensava fosse scemo.
Per lucidare con l’olio paglierino le mensole e le scalette e per spolverare le mie carabattole mi aveva chiesto il permesso, però.
Rimise in funzione anche la vecchia bici di papà, adesso le ruote giravano e i freni funzionavano. E tolse tutte le erbacce in giardino. Nelle aiuole esplosero macchie di ogni colore e il roseto si rivestì di lucide foglie e di bianche rose odorose. Anche mia madre si fermava ad ammirarle. Lo faceva di nascosto. Come quando l’avevo trovata davanti al sifone del bagno, gli occhi sorpresi e in mano il bacile che raccoglieva la perdita finalmente asciutto. Convinta che non la ascoltasse nessuno, aveva detto Possi esse benedetto. Da allora riempiva il piatto di Borian prima dei nostri e aveva preso a farsi portare il vino dal contadino tutte le settimane. Eppure, ogni volta che gli passava vicino si disegnava la croce sul petto. A ogni segno della croce, il bacio finale schioccato sulle dita a labbra strette.
La preoccupavano più le malelingue che non sapere chi fosse o da dove venisse. Salvo lo ha detto a tutti che c’è uno sconosciuto con noi. In paese ci parlano dietro, ripeteva. Ma io volevo sentire i passi di Borian risuonare sulle assi di legno e vedere il suo posto apparecchiato accanto al mio.
Sparsi la voce per strada, in spiaggia, al mercato. Il cartello che attaccammo al bar della piazza recitava: Idraulico, elettricista e giardiniere. Serietà e prezzi modici, a seguire il numero di telefono.
Salvo doveva averlo raccontato a tutti che avevo detto di aver trovato Gesù.
“È venuto a lavare i nostri peccati?” chiedevano con scherno quando ci vedevano.
“Doveva arrivare dal mare, eh? Noi non andiamo bene?” dicevano gli uomini al mio passaggio.
Trent’anni sono passati da quando la signora Teresa mi ha insegnato la sua arte. Ancora mi immergo per recuperare il filamento che fluttua inconsistente in un luccichio di bava, ancora intesso il bisso in veranda tra l’odore acre di pesce e quello pungente delle reti da pesca in disuso.
Era l’alba, andavo alla caletta. Giunta alla mulattiera sotto casa, sentii Borian chiamarmi, fermai il carretto. Saltava tra il pietrisco evitando i ciottoli più grossi e sollevava polvere, tanto era arsa la terra. Arrivò sciando su due pietre basse e lisce, sorrisi quando mi atterrò tra i piedi. Impugnai le manopole per riprendere la strada, ma lui strinse le mie mani con le sue invitandomi a mollare la presa.
Dissi subito No.
Tu gentile, io gentile, disse.
Nessuno aveva mai toccato il mio carretto, solo Salvo quel giorno. E sebbene i paesani si fossero offerti più volte di aiutarmi quando mi incontravano carica di pesi, non li avevo mai lasciati fare. E loro avevano smesso di proporsi.
Da allora l’ha spinto Borian, per evitarmi la fatica – a me, che avevo sempre caricato da sola il necessario per la pesca a filo. Sedeva lì, dove l’avevo trovato. Io andavo in apnea e lui intarsiava rami di eucalipto con un coltello a serramanico. Aveva incominciato con quattro cavallucci marini, gli avevo detto che avrebbe potuto poggiarli su una delle mie mensole se avesse voluto. Ce li mise. Aggiunse quattro fari, quattro delfini, due sirene, due uomini barbuti col tridente in mano e sedici pesciolini. Solo quando vidi la scacchiera capii: erano i suoi scacchi marini e si muovevano su quadrati azzurri e ocra sabbia.
Sera dopo sera mi insegnava le mosse, non avevo mai giocato prima. Spesso mi lasciava vincere e celebrava la mia bravura per invogliarmi a continuare. Io fingevo di crederci.
Non solo i miei spostamenti, anche le mie immersioni erano state sempre solitarie. Mi allontanavo dal banco di nacchere se si avvicinavano sub mattutini e a chi mi chiedeva come prendere il filo, rispondevo che era un segreto che solo i pesci conoscono. Custodivo l’eredità della signora Teresa sapendo che avrei fatto come lei: ci sarebbe stato qualcuno a cui insegnare e io l’avrei riconosciuto. Quel qualcuno non era Borian, ma lui era ciò che più mi somigliava.
Lo presi per mano una mattina, prima che andasse per legnetti. La battigia sotto i piedi, l’acqua fredda alle ginocchia, le onde sulla pancia e poi il blu tra i capelli liquefatti. I nostri sorrisi risalivano in bollicine sulla prateria ondeggiante di posidonia che ci solleticava la pelle, le valve si aprivano e chiudevano sotto di noi come bocche di un coro muto.
A un anno dal suo arrivo io ne avevo compiuti quarantacinque. Tessevo il mare in veranda, zaffate floreali si sovrapponevano all’odore salmastro della mia casa e della mia pelle. Borian mi raggiunse una sera, attese che imbastissi l’ultimo punto, mi sollevò il mento con un dito e premette le sue labbra sui miei occhi. Prima il destro, poi il sinistro. Quella notte, diventammo tre.
In paese si parlava sempre meno del mio museo, il passaparola non c’era più e le indicazioni per Casa Marina furono divelte. La mia pancia nubile cominciò a venir fuori e i capannelli si moltiplicarono, io e Borian andavamo al mercato attraversando le voci di chi confabulava.
Una domenica, dopo la spesa, ci fermammo al bar per un caffè. Del cartello delle riparazioni erano rimasti gli angoli bianchi sotto le puntine rotonde, accanto c’era una locandina con una scacchiera e la scritta Torneo. Sarebbe iniziato la settimana successiva. Borian accese gli occhi guardandola.
Chi lo iscrisse ripeteva le sue parole pronunciate male e i presenti ridacchiavano.
Lui li ignorò, io feci lo stesso. Non l’avevo mai visto tanto entusiasta.
Andava in paese con la bici di mio padre. Partita dopo partita, i suoi avversari diventavano spettatori e gli sfidanti dissimulavano la delusione in una smorfia ogni volta che dichiarava scacco matto. Smisero di ridere dopo essere stati sconfitti a uno a uno.
La sera della finale, tornava da me con la coppa in mano. Forse il buio, forse una buca. Fatto sta, cadde in un dirupo e a nulla valsero i soccorsi. Mi tenni la pancia con le mani per tutta la notte, il giorno dopo mi portarono la bici accartocciata e il trofeo ammaccato. Sulla base si leggeva Borian Çela, la scritta Primo Class moriva spezzata.
È su una mensola, in camera di Gena, accanto a una mia foto con Borian e alla scatolina con il coltello a serramanico. Intorno, gli scacchi marini.
Non posso darli alla bambina, sono piccoli e ho paura possa ingoiarli, però io e lei inventiamo storie di sirene e re e nelle nostre mani tutti i pezzi sanno anche volare.
Gena ha due anni, lo stesso cognome del padre e il nome della nonna albanese.
Devo decidere se far visita ai parenti di Borian, vivono qui da tre generazioni e parlano Arbëreshë. Sarebbe andato da loro se la nave non fosse affondata.
Gli aveva scritto di me e della gravidanza.
Gli aveva detto che presto avrebbero conosciuto la nostra bambina.