La macchia mediterranea fa da zerbino, all’entrata dell’Abbazia di Thélema. Nell’aria cocente del primo pomeriggio un moscone, per quanto grosso, può attraversare l’intero edificio indisturbato (entrare dall’uscio, percorrere il piccolo ingresso, ronzare nella stanza centrale e uscire dalla finestra sul retro) alla ricerca di frescura, poiché lui ha scardinato tutte le porte.
L’idea di avere delle porte, infatti, sarebbe in contrasto col sommo precetto del maestro (“Fa’ quello che vuoi”) e, in definitiva, porrebbe seri dubbi sull’intera sua dottrina.
È questo il periodo siciliano della sua vita. L’aria di luglio avvolge il corpo di Leah che, al piano inferiore di un letto a castello, fatica a chiudere gli occhi. Anche la nudità è espressione del precetto: uno strato sottile di tessuto può costituire una barriera invalicabile fra l’individuo e la sua libertà personale (per lo stesso motivo, pensa Leah, prima o poi lui arriverà a scotennare qualcuno).Ai piedi della donna, al centro della stella a cinque punte disegnata sul pavimento, raggomitolato dopo l’amplesso con lei, riposa invece sereno il caprone. È stata la loro prima volta.
Attraverso le porte divelte, la notte precedente Leah li ha sentiti: Aleister e l’altra. Ha provato qualcosa, e si è chiesta se quello che provava fosse contrario o meno alla dottrina. La mattina non c’è stato nemmeno bisogno che il maestro glielo chiedesse, perché poteva leggerglielo in faccia.
Le si è avvicinata e le ha detto: «Ricordati che abbiamo il diritto di vivere in accordo con la nostra legge, di vivere come vogliamo, lavorare come vogliamo, giocare come vogliamo, riposare come vogliamo, morire come e quando vogliamo.»
Lei gli ha risposto: «Sì.»
«Io stavo semplicemente facendo questo», ha insistito lui.
Allora lei ha accennato, sentendo come il dovere di dire altro: «Ma forse questa cosa che sento è invece quello che voglio io?»
«No, questo è ciò che non vuoi. È ciò che non vuoi che io faccia. È l’esatto contrario della dottrina. Tutti hanno il diritto di fare ciò che vogliono.»
«E se qualcuno provasse a dubitare di questo diritto?»
«Allora avremmo il diritto di ucciderlo.»
E così lei, quella stessa mattina, per mezzo di una voce cupa alle sue spalle, aveva appreso le poche regole della dottrina.
Si dice che il maestro, molti anni prima, passò una notte all’interno della Camera del Re, nella piramide di Cheope. Lì, dopo averlo invocato, gli apparve Thoth nelle vesti di una luce astrale. Era stata quella luce a dettargli il libro di cui adesso esisteva una sola copia, in forma di manoscritto, riposta su una delle mensole della cucina, tra l’origano e lo zafferano e la farina con cui facevano il pane. Anni dopo sì, di copie ne sarebbero esistite molte di più – centinaia, migliaia – conservate in molte case di molte parti del mondo. Ma per adesso il Libro della Legge, e la Legge stessa, esercitavano la propria giurisdizione solo su quella cucina e nelle camere adiacenti.
Sul letto del maestro, vuoto, resta appeso un cartello che informa “Aleister Crowley is -ot at home” e, a seconda del suo umore, il trattino viene sostituito con una N o una H. Al momento è una N, e lui non è in casa. Probabilmente è alla scogliera. Tornerà dopo il tramonto. Chiamerà il caprone a sé, siederanno fuori insieme e gli domanderà com’è andata con Leah. Aleister, infatti, ritiene che il piacere dell’animale sia un elemento imprescindibile per l’evocazione.
Il fatto che, davanti a un paesaggio del genere, ad Aleister Crowley sorga comunque il desiderio di evocare un dio oscuro è ciò che più stupisce: il verde dei lecci, che quella fortuna la assaporano da migliaia di anni; la terra non del tutto gialla di sabbia; l’azzurro puro, così puro del mare, striato sulla superficie dai riflessi bianchi di un sole alto. Tutto questo ha davanti Aleister, e desidera essere una cosa del genere: un luogo immortale, perché solo così forse può trovare la pace che cerca.
È questo che lo spinge a impegnarsi a tal punto nell’evocazione. In quel paradiso terrestre, Aleister vorrebbe vedere aggirarsi la figura allungata, nera di Sheitan: o chiddu cu li corna, come lo chiamano da quelle parti.