Anatomia solare

È sdraiata sul lettino, gli airpods alle orecchie; piercing tribali sul lobo sinistro, conficcati come ami nella cartilagine di un bivalvo di carne. Stende le gambe sopra la tela verde. I piedi indossano piccoli fantasmini di sabbia vulcanica.
Gli occhi sono coperti da lenti riflettenti.

La sagoma di chi osserva appare storta, agganciata al risucchio di un uragano. La testa enorme, il corpo strozzato. La brace di una sigaretta avvampa l’opale del sole che si staglia sui Ray-Ban. Marina respira; il petto le si alza mentre cerca di sistemarsi meglio con le spalle. Solleva lo schienale del lettino. Incurvandosi rilascia all’occhio scrutatore lo spiraglio tra due seni grossi, giovani.

Le ascelle sono rasate, ne annusa una per precauzione. Si guarda attorno, sigaretta in bocca a esporre un glande di cenere in bilico tra le labbra. Ha l’aria assorta. Con una mano dalle unghie lunghe e dipinte di nero si gratta, o meglio, graffia la coscia sul punto esatto in cui i capillari si sono ramificati in un delta rosso. Gira la testa verso l’osservatore e gli chiede se ha della crema solare spray. Lui gliela porge. Marina si spruzza la protezione sulla coscia, sulla pancia (che ha degli accenni di muscoli, segno che è andata in palestra come aveva sperato di fare in inverno), sullo sterno stellato di efelidi.

Per la schiena chiede aiuto a chi vede, a chi può raggiungere le scapole, la cruna del coccige.

Ha un tatuaggio ampio sotto la nuca. Un disco solare stilizzato, selvaggio. La pelle è al latte, se lui ci posasse le labbra oltre che gli occhi sentirebbe l’aroma più femminile possibile; un dono. Le mani dello sguardo si muovono verginali sulla schiena scultorea di Marina. Lei gira di tre quarti la testa e sbuffa una voluta di fumo. Ha un cipiglio attento, serio, ora lo si intravede. Le ciglia lunghe, il taglio del trucco che la arabesca.
Sulla nuca alcuni peli posano l’impronta di un’ombra.

«Grazie, Fra’».

Lo sguardo non finisce di carezzarla, si sporge sul balcone dei fianchi dolci e modulati dal sole; una chimera di dimensioni umane. Il pacchetto di Chesterfield blu alla deriva delle assi del tettuccio calato a visiera. Marina si gira e slaccia il reggiseno lasciando libera di frangersi l’onda del suo corpo che fluisce privo di scogli, come liquido.

Sente che la follia gli sta tramando gli occhi; vorrebbe posarsi su quel corpo, stendersi come lei è stesa sul telo, come il telo sul lettino, come il lettino affonda le zampe sulla sabbia lui vorrebbe affondare nei meandri degli odori della pelle di Marina che gli sono rimasti sui palmi delle mani dopo averne saggiato spalle, vertebre, brani di nudo.

È uno sporcarsi della propria fame.

Sotto il sole di Fregene la sua forma traluce il mistero del sesso che l’occhio, Fra’, vorrebbe provare, come un aperitivo al tramonto di una lunga giornata di allenamento alla svestizione: il fianco di Marina tradisce il chiodo di un capezzolo mentre si allunga, staccandosi dalla superficie del pareo, del top, per prendere una sigaretta sopra il tettino reclinabile. La mano fa tentativi alla cieca prima di agire con decisione e incollare nuovamente il petto alla sua coperta.

Sempre la stessa mano si torce e riallaccia, ancora brancolando senza vista ma stavolta con successo, il gancio del reggiseno. Il passaggio alla posizione supina rivela un taglio di cosce e un’apertura acuta sullo slip dalle cromature infuocate. L’occhio non vede la matrice della fiamma; sotto quel rosso una noce di nero che Fra’, solo, sente. La caverna dell’ombelico mima la matassa dei suoi scuri pensieri di accoppiamento, da sviluppare in qualche posto distante una notte.

Le gambe ai due estremi del lettino, il pube compresso che imbuca il pareo disteso nel bacio delle grandi labbra nascoste dal tessuto del costume. La carne alla coscia modellata in una chiave di do dall’intelaiatura. Un piede incurvato come collo di cigno; le falangi sono piccole rovine tra le dune; la pianta è increspata in una sequela di onde imbrunite dalla sabbia.

“Forse andrò a farmi un bagno. Mi daresti un’occhiata alla roba?” chiede all’occhio di Fra’ che si distoglie con un battito subitaneo dall’aureola nera del tallone sinistro.
“Sì, certo”.

Marina si alza e flette il busto allungando le braccia al disco solare, lo cerchia con le mani quasi fosse una palla da volley. La schiena si inarca in una conca spirante fino alla pesca dei glutei, parzialmente sconfinati dal perimetro del fuoco.

Afferra il pacchetto di Chesterfield con le mani rese nodose da una leggera disidratazione. Ne estrae una con due punte di dita simili a piedini di una ballerina: lo smalto nero le scarpette, la curva del gesto lo sgambettare in calze bianche.

Accende corrucciando il volto, affilando il taglio egizio delle sopracciglia. Solleva gli occhiali, rabbocca il filtro con un tic di labbra, sgrana gli occhi verso gli occhi di Fra’ che non ha smesso di studiare l’arsenale di piaceri che è quella ragazza.

“Tutto a posto, Fra’?”
“Sì, ero sovrappensiero”.
Abbassa la visiera.
“Vabbè, io vado. Quando Antonietta torna, dille di raggiungermi”.
“Ok”.
“A dopo”.

E se ne va compassando con le gambe verso il baluginio della costa. Fra’ che segue l’ondeggiare delle lingue di fuoco sul suo sedere; l’architettura delle articolazioni che da pallide si fanno lucenti, scomparendo con la pelle che lo abbaglia sotto i raggi del mezzogiorno; la medusa nera dei capelli a fluttuare tra le sagome di altri corpi del tutto insignificanti. Cadaveri di grasso. Fra’ che posa gli occhi tra le pagine di un romanzo; si eclissa.

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