A Xu Lizhi
Nello stabilimento della Foxconn, alle porte della fumida megalopoli di Shenzhen, Cina, sono le dieci di sera: Zhao ha appena inserito l’ennesimo capacitore nell’ennesima piastra circuitale che la catena di montaggio gli pone davanti.
L’ultimo di quei settecento pezzi che l’azienda considera il minimo standard giornaliero per il dipendente virtuoso. Ora che il suo supervisore di sala è distratto, come raramente accade, Zhao incide con un cacciavite una X in una zona franca e poco visibile della piastra. Non compromette il dispositivo. Secondo lui, lo rende speciale. Poi avvia le manovre per la chiusura della postazione. Ha le ginocchia atrofizzate, quando si alza. Le mani, sì, si erano mosse. I polmoni avevano respirato e il cuore, sì, aveva battuto. Ma Zhao ha l’impressione d’aver dormito per tutte le quattordici ore di turno. E, attraversando il cosiddetto CORRIDOIO DI DEFATICAMENTO tra sala macchine e spogliatoio, Zhao pensa: chi ha comprato la mia anima? E subito se ne vergogna: ‘Non hai di che lamentarti’, gli avrebbe urlato suo padre se l’anno prima non fosse morto per un colpo di sole, in una risaia.
Nello spogliatoio, in mezzo al baccano degli altri operai, Zhao dismette la tuta da lavoro. Indossa i suoi vestiti. Esce dallo stabilimento e si incammina verso il dormitorio. Nello striminzito appartamento assegnatogli d’ufficio dalla Foxconn, sente Haoyu, uno dei quattro colleghi con cui abita, imprecare dal bagno: “Manca l’acqua!”. Zhao rinuncia alla doccia serale e si spoglia e si distende sulla branda sfibrato. Pensa al poeta Xu Lizhi. Zhao, oggi, ha ventiquattro anni. La stessa età di Xu quando si è ammazzato. Entrambi hanno lavorato alla Foxconn. Entrambi sono stati dei dagongzhe stipati negli autobus e deportati come maiali dalle periferie ai centri di produzione grazie alla promessa di una vita dignitosa. Verso quella fabbrica-caserma, madre gravida di chimere e di false opportunità. Non finirò come Xu, mormora Zhao addormentandosi.
In quel momento, di là dal Pacifico, al Business and Economics College di Cal State, California, è l’una postmeridiana del giorno precedente: Jim, studente al primo anno, si sveglia. Trevor, il suo coinquilino, dorme dall’altra parte della stanza. Ha vomitato nel sonno. Jim si alza, raccoglie libri e MacBook nello zaino e va a pranzo nel refettorio del campus. È in ritardo. Al tavolo, è solo. Ripassa mentalmente le formule che gli permetteranno di superare l’esame di Economia Generale fissato per quel pomeriggio, l’ultimo prima della pausa estiva. Ha un dubbio sul modello matematico della Teoria del Caos di Edward Lorenz applicato ai mercati finanziari. Per fugarlo consulta i suoi appunti, aprendo il MacBook accanto al sandwich al formaggio e al bicchiere di succo d’arancia. Dopo dieci minuti di attività, la macchina si spegne. È irrimediabilmente compromessa. Dallo smartphone, dopo aver concluso la verifica su un paper specializzato, ordina un nuovo computer da duemila dollari che gli sarà consegnato la settimana seguente. Al termine dell’esame, il professor Hopkins dice a Jim: “Lei ha un’eccellente preparazione ma, per onorare le migliaia di dollari che la sua famiglia ha investito nella sua istruzione superiore, mi permetta una domanda ancora”. Jim, sulla sedia, è teso. “Mi dica: qual è, secondo lei, la differenza sostanziale tra il mercato rionale di un paesino dell’Europa centrale e un mercato finanziario?”
Quindici anni più tardi, alla periferia del villaggio di Hanyucun, Ming entra nel cimitero distrettuale. Ha con sé tre margherite raccolte sul sentiero che dal villaggio conduce attraverso una folta pineta al camposanto. L’aria oggi è limpida e il cielo di un blu che lo ferisce. Le lapidi dormono a migliaia in file serrate. Giunto su quella di Zhao, suo fratello maggiore, Ming sistema le margherite in un’ampolla di creta. Tanto è il tempo trascorso dalla morte di suo fratello che Ming non piange quasi più. Nella tasca dei pantaloni ha una delle lettere allegate ai vaglia che Zhao mandava da Shenzhen. Tutte si concludevano con la frase: ‘Questi soldi sono per te e la mamma. Io sto bene’. Ming porta una lettera all’anno sulla tomba del fratello. Questa tradizione familiare, ha deciso, durerà finché le lettere non si esauriranno.
In quel momento, Jim, divenuto il più giovane amministratore delegato della costa occidentale d’America, è insonne nel suo attico di LA. Le file dei sindacati della sua corporazione di import-export sono in fiamme: gli operai protestano davanti alle filiali di tutto il paese, ne hanno assediato e distrutto gli ingressi. Jim ha firmato una circolare che obbliga gli operai all’uso di una cavigliera elettronica per tracciarne i movimenti all’interno degli hangar di stoccaggio merci. Con questo accorgimento, i consulenti del CDA hanno previsto una crescita della produttività del 20%. Quando Jim, a notte alta, si addormenta, vede la sagoma di un uomo, in piedi su un altare, stagliata contro il profilo di un villaggio distrutto. L’uomo distribuisce cubi di plastica bianchi alle persone radunate attorno all’altare. Prede di un delirio collettivo, urlano, hanno fame, si contendono i doni dell’uomo che è in pieno controllo dell’ambiente circostante. Li mangiano. Jim è in mezzo a questa folla. Terrorizzato dall’uomo, lo guarda dritto negli occhi. Il viso dell’autorità è il suo viso. Le mani dell’autorità sono le sue mani. Riconosce quel potere anarchico che tutto può. Di cui si subiscono solo gli effetti e sempre se ne ignorano le cause.
Ming rientra a casa mentre Jim è in auto per recarsi all’incontro coi sindacati dove dovrà mantenere la linea dura per salvaguardare i suoi azionisti. A Hanyucun è ora di pranzo. La madre di Ming apparecchia la tavola per tre. Come ogni giorno, il posto vacante riceve la sua porzione di riso e di zuppa d’alghe. Jim, durante un break dalla discussione, si chiude in bagno e urla. A fine pasto la madre di Ming svuota il cibo nella pattumiera. Ming le intima di smetterla con quella messinscena, è uno spreco che non possono permettersi. La madre dice: “Tuo fratello si è sprecato per noi”. Ming, frustrato, prende un coltello dalla cucina ed esce fuori. Va a controllare le trappole piazzate attorno alla casa di legno. Una tagliola è richiusa su una volpe in fin di vita. Contro legge, Ming ha messo su un piccolo racket di pelli d’animali. La volpe sanguina da una zampa. A differenza di Zhao, Ming non conosce misericordia. Non era mai d’accordo con lui. Specie quando, nelle lettere, scriveva: ‘Chi tira le fila, se oppressi e oppressori sono comunque vittime? Il denaro, forse. Nell’olocausto contemporaneo ciascuno fa quel che deve’. Ming infila il coltello da carne nella gola della volpe e inizia a scuoiarla.
Jim, estenuato dalla riunione, torna nel suo attico e con una mazza da baseball distrugge il suo tavolo di vetro Kartell. Frantuma le vetrate che danno sulla terrazza. Picchia contro i mobili che si incrinano. Le lampade Flos. Gli altoparlanti murali per la domotica. Dà fuoco al divano a isola. Dallo sgabuzzino tira fuori gli scatoloni del college. Era ancora un ragazzo impaurito dal mondo. Li consegna alle fiamme, ora in possesso di tende e scrivanie. Fiamme simili a quelle che, quindici anni prima, presero i casamenti-dormitorio della Foxconn per il mancato collaudo delle tubature del gas. Jim guarda gli scatoloni divampare: la scocca del suo vecchio MacBook si apre. Jim esce in terrazza. Non vede la piccola X sulla scheda madre del computer liquefarsi. Si getta dal settantesimo piano. Cadendo pensa che la più grande conquista del potere sia stata scorporare il senso di colpa dai mercati. Era forse questa la risposta che gli avrebbe permesso di superare l’esame di Economia Generale del professor Hopkins. Non importa più, pensa Jim. L’AD si impiglia tra le carrucole di un ponteggio per i lavavetri.