2008. Albori dell’Era Ironica.
«Eccoti. Com’è andata a scuola?»
«Tutto benissimo mamma – tu come stai?», le rispondi, facendo volare qui e là lo sguardo.
Le menti: l’espressione più sincera che tu sia in grado di disegnare coi tuoi lineamenti non potrà mai affrontare quegli occhi, cui si suppone tu debba voler bene più di ogni altra cosa al mondo – un giudizio in sospeso, fintantoché la tua età adulta e la vecchiaia di lei non imporranno, nel gioco a turni di un’esistenza semplicissima, di pagare il prezzo del tempo passato. Ma hai solo tredici anni, e di queste cose ancora fai fatica a curarti davvero – imparerai mai a farlo?
La sua voce continua a scivolarti addosso mentre t’infili in camera tua, scagli in un angolo quaderni e libri che nemmeno oggi hai aperto (a scuola, difatti, oggi non ci sei proprio andato), e poi getti te stesso davanti al PC: i nervi cominciano a distendersi, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
Premi il grosso bottone grigio sul corpo massiccio di plastica e metalli rari: l’apparecchio lentamente si avvia, il suo ronzio fa vibrare l’aria e le corde del tuo animo.
Circa trenta minuti dopo tu e gli altri tre compagni di gioco (chissà da dove vengono, chissà quanti anni hanno, se sono ragazzini come te o se invece sono dei vecchi, forse sono persino coetanei di tua madre) siete già accucciati l’uno di fronte all’altro, nella pancia scura di un elicottero da guerra – compagni, fratelli: in realtà tu sai bene che stai fissando negli occhi la schiera dei tuoi avversari, i tuoi nemici; hai tredici anni ma ti è già stato insegnato perfettamente come odiare.
Scegli le tue armi con perizia, soltanto a metà consapevole dell’ambiente reale che ti circonda – la stanza, il letto disfatto dalla notte precedente, i libri per terra, il disordine, la sporcizia (tua madre ha ormai da tempo smesso di implorarti di tenere con cura le cose: non le interessa più). Il soffio bollente e continuo del computer slega gli istanti l’uno dall’altro, li atomizza e li lascia fluttuare in un continuum mezzo sogno e mezzo vero, ti incatena a un ambiente altro, riconoscibile soltanto in virtù delle azioni che compirai, che hai già compiuto chissà quante volte, una funzione di te: il fucile di precisione, il coltello da caccia e il visore notturno, il giorno (20 minuti), la notte (altri 20), il crinale di roccia (poligoni e modelli 3D), la foresta che si spiega sotto, fin dove il tuo sguardo riesce a spingersi (la mappa e il PG).
Ora – quanto tempo è trascorso? – sei accovacciato nell’ombra della notte. Sei disceso dal crinale (ma non sai dire quando sia successo), ti sei addentrato nella foresta; hai già ucciso: il noob cui hai strappato la vita, in un istante simile a tutti gli altri, non ti ha nemmeno sentito arrivare, mentre gli sfilavi alle spalle e strillavi “preso, frocio di merda!” (avresti potuto anche dirgli “negro”, o “ebreo”), passandogli la lama del coltello attraverso la carotide (R1 + |cerchio|).
Hai avvertito i punti ESP correre fra i tuoi neurotrasmettitori assieme all’endorfina, poi hai lootato il suo cadavere (|tenere premuto triangolo|) e infine ti sei addentrato ancora di più nella foresta: i 20 minuti del giorno (gli ennesimi) volgevano al termine e cedevano il passo a un’altra notte – ancora: quanto tempo è passato?
Adesso stai camperando, silenzioso, sul punto più alto di una formazione rocciosa che si staglia appena sopra la foresta, illuminata al negativo dal visore notturno del fucile (R3). Dinanzi a te, ciò che appare è un nulla disabitato.
«Il mio nulla» fai appena in tempo a formulare, quando un’eco dal retro del tuo ippocampo ti strappa alla concentrazione, all’illuminazione: di nuovo, la voce di tua madre ti richiama, poi ancora, una seconda volta, l’ennesima a darti fastidio – appena prima di tornare alla vita (nella morte?), fai in tempo ad accorgerti del proiettile che da un punto lontano della foresta passa velocissimo attraverso il tuo cranio, una traiettoria che non avresti saputo vedere o immaginare – parte il replay della kill e tu strilli: «Figlio di puttana! Culattone del cazzo!»
Hai solo tredici anni: imparerai che certe cose non vanno proprio dette, certe azioni vanno lasciate incompiute. Chissà come si è fatto già tardissimo, e tua madre ti ricorda che la cena è in tavola.
🎮
2023. Oggi.
«Eccoti. Sei in ritardo, dovevi iniziare tre minuti fa».
«Scusami – tu come stai?» chiedi al tuo supervisore, 10 livelli più su di te, lungo una scala che tutti ti assicurano non essere gerarchica – prendete tutti una miseria in busta paga (chi più, chi meno): così corre voce in magazzino. Non lo senti rispondere mentre t’infili al volo la pettorina catarifrangente e ti avvii di corsa verso il lunghissimo nastro trasportatore che continua a rigurgitare pacchi su pacchi, uno dietro l’altro in una serie infinita, procedurale; ti chiedi quanti punti avresti già totalizzato, non fosse stato per quei tre minuti di sonno in più.
Hai provato a guardarti attorno, tempo fa – grosso modo quando avevi appena cominciato, in early game –, hai cercato il limite ultimo della mappa, le pareti distantissime dell’enorme magazzino, uguale (supponi, a ragione) a infiniti altri su un pianeta infinito (supponi, a torto). Hai subito compreso che non ti sarà mai concesso il tempo di trovare quella fine.
Lavorare qui, sei arrivato a ritenere pian piano (peraltro molto dopo rispetto a molti altri, più colti e meno indaffarati di te, che con la cultura hai sempre ritenuto di non aver nulla a che fare), è sostanzialmente come giocare a un videogioco: però un gioco fatto molto male, disegnato da un demente. È sicuramente per questo che non mi riesce di livellare come gli altri, dev’essere questa la ragione alla base dei miei punteggi da impedito, da ritardato. Nel tempo speso a elaborare una giustificazione tanto banale (peraltro, in potenza il seme di una lamentela assolutamente ragionevole: non fosse esso germinato proprio nella tua mente così inadatta, così limitata) i tuoi compagni (i tuoi avversari, i tuoi nemici) hanno lavorato il doppio di te, hanno giocato due, tre volte meglio di te: ritorni alla foresta e ai cicli diurni di 40 minuti, all’uccidere e all’essere ucciso, non sai se rimpiangere o maledire tutte le tue ore passate davanti ai videogiochi – fai finta, nonostante tu già lo sappia, che adesso non sia esattamente lo stesso.
R1 + |quadrato|, L2 + |tondo|, |tenere premuto X|, |su|, |select|, |start|, L3+R3. Immagini al meglio che puoi le funzioni che in un’altra epoca ti appartenevano più della lingua e dei cinque sensi, mentre passi pacco dopo pacco in rassegna, e mentre ti figuri il dio-giocatore che regola il tempo e l’essenza profonda del tuo lavoro, che si è divorato la tua vita. Forse il dio-giocatore esiste veramente.
Ti soffermi solo un attimo, per un lampo d’immaginazione, una fantasia (un desiderio?): scruti verso l’alto impensabile delle mensole, filari e filari di scaffalature senza fine, una babele di oggetti, di contenitori – si materializza in qualche parte lontana del tuo cervello l’immagine limpidissima di un futuro preciso – esse cederanno tutte assieme, in un singolo potentissimo momento, ti sommergeranno e tu morirai, e il tuo animo respawnerà non sai né dove, né quando. Forse un giorno succederà veramente.