Brave persone

«Ragazzi, non vogliamo problemi».

Io, in piedi in mezzo a Edgar e Vincenzo, allargai le braccia in segno di “veniamo in pace” mentre lei, la bionda, stava palesemente valutando il nostro abbigliamento.
«È meglio se andate via».
«Guarda che io ho un master in geofisica applicata» spiegai indicandomi con le mani, poi girai il pollice a sinistra verso Eddie «e lui è ingegnere meccanico».
«E l’altro?» chiese la bionda, come se cambiasse qualcosa.
«Chi, Vincenzo?» indicai a destra sempre con il pollice. «Lui vi spacca il culo».
Vincenzo tirò fuori da dietro la schiena un fucile a pompa e lo puntò sulla bionda.
«Chiudi lentrata» dissi.
La bionda non si mosse.
«Hai capito?» le chiese Eddie.
Lei fece un movimento impercettibile con la testa che significava sì.

Iniziammo a salire le scale di vetro.
«Ah, eccolo, questo è quello che mha fatto il colloquio» disse Edgar fermando uno che scendeva.
«Vuoi che te lammazzo subito?» chiese Vincenzo serafico.

«No, me lo porto su» disse Eddie, «vieni, bello» lo prese per un braccio, quello salì insieme a noi e poi camminò nel corridoio con le chiappe strette e trascinando i piedi.
«Me sa che se sta a caca sotto» dissi io.
«Taccompagno al bagno?» disse Vincenzo facendogli scorrere la canna del fucile dal ginocchio fino allinguine. Quello tremava e faceva no con la testa. «Peccato… me piacciono tanto i biondini».
«Portaci dal direttore» dissi.
Il biondino allungò il braccio destro con lindice puntato verso la porta in fondo al corridoio.

La settimana prima

La pelle nera della poltrona scrocchiava ogni volta che Eddie si muoveva per accavallare o scavallare le gambe fasciate da quei pantaloni comprati per il matrimonio del cugino. Solo che il matrimonio cera stato tre mesi prima, ormai era luglio e quella stoffa lo faceva sudare. Appoggiò i gomiti sui braccioli cercando di stare fermo, la sua pelle era nera quasi come quella della poltrona. Lo chiamò il tizio delle risorse umane con cui aveva già parlato al telefono e lo fece accomodare in ufficio.
«Aspettiamo un momento il mio collega» disse il tizio dietro alla scrivania.
«Certo» disse Eddie facendo un gesto con entrambe le mani e la pelle della poltrona fece scrack.
«Anzi, se intanto mi vuoi dire tre pregi e tre difetti che ti contraddistinguono».
Capirai, se lera studiata per settimane quella risposta, la trovavi su tutti i siti digitando “come rispondere ai colloqui”.
«Be, direi che sicuramente uno dei miei pregi»
Il telefono del tizio squillò e lui rispose alzando laltra mano per fermare Eddie.
«Arrivo». Si alzò e uscì da una porta laterale che rimase socchiusa.
«Questo è negro» disse il tizio alla persona che lo aveva chiamato.
«Glielhai detto che qui non assumiamo negri?»
«Ho chiesto pregi e difetti».
«E che pregi cha, il ritmo nel sangue?»
«Difetti: emano un forte odore di sudore» scoppiarono entrambi a ridere.
Eddie alzò il braccio destro e girò la testa annusandosi lascella, profumava di deodorante.

Cinque giorni prima

«Gli spacco il culo» disse Vincenzo col suo solito tono pacato, in estremo conflitto col contenuto delle sue frasi.
Io invece, dopo aver sentito la storia del colloquio, rimasi un attimo zitta, poi mi spostai in avanti sulla sedia di plastica fuori dal bar dove andavamo sempre il pomeriggio, sbattei una mano sul tavolino di metallo e le birre tintinnarono, alcune gocce di condensa iniziarono a colare giù dalle bottiglie formando un bordo di acqua intorno alla base
«Razzisti dimmerda».
Mi scolai la birra, inclinai il collo della bottiglia in avanti verso Eddie e Vincenzo e mentre la muovevo su e giù dissi che bisognava fare qualcosa.
«Gli spacco il culo».
«Abbiamo capito, Vince. Ma come?» chiese Eddie.
«Come si chiamava quel tuo amico della gang?» disse Vincenzo.
«Perché?» chiesi.
«Potrebbe andare a fargli una visita».
«No, adesso fa il magazziniere e cha pure un figlio, non fa più quelle cose».
Il barista passò a togliere le bottiglie dal tavolo e si sedette un attimo con noi per respirare. Quel giorno era il più caldo della settimana, lavevano detto in televisione.
«Che state a trama?» incurvò la schiena in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia.
Noi lo guardammo tutti insieme e nessuno disse niente.
«Cavete le facce sospette, rega. Che dovete fare? ditelo a zio».
«Abbiamo un problema con certi razzisti» risposi.
«Razzisti Vi posso dare una mano?»

Quattro giorni prima

«Ecco, qua cè tutto quello che vi può servire» disse il barista.
Dentro al garage, sotto un palazzo sulla Tiburtina, cerano diversi fucili attaccati al muro, cartoni pieni di mazze da baseball, alcune pistole appoggiate su un tavolo lungo e stretto, qualche mazzetta da muratore e un machete. Io presi subito una pistola cromata e provai a mettermela nella cintura dietro la schiena.
«Io non voglio armi» disse Eddie.
Vincenzo si rigirò tra le mani il machete, poi lo lasciò sul tavolo; tirò su una mazza da baseball dal cartone, la soppesò, provò a impugnarla come un battitore e poi la rimise a posto; si guardò intorno e rimase a fissare la parete a est dove una quindicina di fucili stavano attaccati a dei ganci, una volta guardati tutti si diresse verso il fucile a pompa che usavano in quasi tutti i film dazione americani, lo sganciò, aveva deciso.
«Ce lavete una batteria?» chiese Eddie.
«Una batteria come?»
«Quella per le macchine».
Il barista aprì un armadietto di legno, dal ripiano in basso tirò fuori la batteria e lappoggiò sul tavolo davanti a Eddie.
«Ma che ci devi fare?» chiesi.
«Per farli sfrigolare un po».
«Cazzo, come Arma Letale!» Vincenzo era entusiasta, aveva tutti i dvd di Arma Letale, Rambo e Lispettore Callaghan.

La mattina del giorno X

Alle otto di mattina raggiunsi Eddie e Vincenzo che condividevano un appartamento. Le armi stavano già in macchina, la batteria era nel borsone della piscina di Eddie con un paio di guanti di gomma, i cavi e due spugne.
Vincenzo stava mangiando un pancake con quelle cazzo di polveri proteiche al cocco che a contatto col calore della padella sprigionavano una puzza di crema solare allaroma di caipirinha.
«Forse ci ho ripensato» disse Eddie.
«Thanno chiamato negro e hanno detto che puzzi» gli ricordò Vincenzo.
«Potremmo finire in galera, io non ci voglio andare, sono un ingegnere».
«Perché, un ingegnere non può finire in galera?»
«Ma ti hanno trattato come una merda» dissi.
«Non abbiamo mai fatto una cosa del genere, siamo brave persone».
«Le brave persone si rompono il cazzo, prima o poi» disse Vincenzo.

Nell’ufficio del direttore delle risorse umane

«Chi cazzo siete?» disse il direttore alzandosi in piedi quando spalancammo la porta del suo ufficio con le nostre tute acetate Adidas coordinate – io a destra con la tuta verde, Eddie al centro con la tuta nera e a sinistra Vincenzo in viola.
Era evidente che questa cosa delle tute non lavevamo pianificata al meglio, non avevamo pensato che era luglio, stavamo schiumando.
Eddie buttò in avanti il tizio del colloquio, quello barcollò e si appoggiò alla scrivania.
«Che cosa sta succedendo, qui?» disse il direttore rivolto al suo sottoposto.
Quello tremava e non parlava.
«Adesso, brutti razzisti di merda, vi mettete seduti su queste poltrone del cazzo che scrocchiano» dissi indicando le sedute con la mia pistola cromata.
Il direttore stava per opporsi, aveva le palle, ma non così tante perché quando Vincenzo caricò il fucile obbedì subito.
Eddie aveva appoggiato il borsone sulla scrivania, lo aprì e tirò fuori la batteria, i guanti, i cavi e due spugne rosa.
«Le spugne rosa?» chiesi a bassa voce a Eddie.
«Sono di Vincenzo» rispose allargando le mani.
Vincenzo li stava legando, gli prese le braccia, le fece allungare ai lati della poltrona e le fissò con una corda facendola passare sotto la seduta. Poi prese le forbici che stavano sulla scrivania e gli tagliò le camicie scoprendogli il petto, il direttore aveva uno strato di peli castani e bianchi che gli ricoprivano i pettorali mosci, invece il tizio più giovane era glabro e abbastanza tonico.
«Mmm» fece Vincenzo passandogli lentamente lindice sullo sterno.
Il tizio fece una smorfia ma non riusciva a dire niente.
«Non te innamora, chicco, coi razzisti non me saddrizza».
«Quanta gente ci lavora qua dentro?» chiesi.
«Siamo otto» disse il capo.
«Stronzate!»
«Qua ci sono solo lamministrazione e le risorse umane, la produzione è in periferia».
«Chiamali tutti e falli venire qui».
Cinque impiegati arrivarono e li facemmo mettere in riga di spalle a guardare fuori dalla finestra con le mani intrecciate dietro la schiena.
«Ma non si può alzare laria condizionata?» chiese Vincenzo lanciandomi unocchiata.
Io risposi con unalzata di spalle che significava “e che cazzo ne so”.
«È spenta, aspettiamo il tecnico da due giorni» disse uno di quelli attaccati alla finestra.
Eddie si mise i guanti di gomma, inzuppò le spugne al distributore di acqua e iniziò ad armeggiare con i cavi e la batteria davanti ai due legati.
«Ma che volete?» disse il capo.
«Vogliamo giocare coi razzisti» rispose Eddie.
«Ma noi non siamo razzisti, giuro».
«Laltro giorno lo avete chiamato negro» dissi.
«E avete detto che puzza» aggiunse Vincenzo.
«Vi ho sentito» disse Eddie facendo friggere i cavetti davanti al petto del capo, senza toccarlo.
Lo toccò con la spugna bagnata sullo stomaco e quello scattò per la scossa divincolandosi sulla poltrona che gracchiava. Laltro piagnucolava «No, ti prego».
Eddie toccò anche lui e quello iniziò a strillare come un maiale. Lo toccò di nuovo. Ci stava prendendo gusto.
Io e Vincenzo restavamo di lato e guardavamo la scena immobili, un po ci faceva schifo, un po eravamo soddisfatti perché se lo meritavano.
«Lo vuoi sentire comè la puzza vera, eh stronzo?» disse Vincenzo alzando il braccio sinistro e avvicinandosi al naso del capo. La sua tuta viola aveva due macchie ovali scure sotto le ascelle. «Queste sono le polveri proteiche, senti, mi fanno puzzare come una capra da latte».
«Ma che cazzo è una capra da latte?» lo guardai arricciando il naso.
«Chiedetegli scusa» disse Vincenzo appoggiando la canna del fucile tra le cosce del capo. Quello tutto rigido e immobile non disse niente. «Di che sei un razzista di merda e chiedi scusa» gli spinse il fucile nelle palle ma quello non parlava.
«Chiedi scusaaa!» strillai io.
«Io non chiedo mai scusa di niente, i perdenti chiedono scusa» disse il capo.
«Vedete, è questa mentalità aziendalistica di merda che si sta diffondendo in qualsiasi settore lavorativo, e anche nella vita di tutti i giorni, che sta fottendo il mondo in cui viviamo. Questa mitizzazione, specialmente da parte dei più deboli, del vincente che non si scusa nemmeno se ha torto e nega anche davanti allevidenza».
«Vince, ma non gli dovevi spaccare il culo?» disse Eddie.
«Vi siete dimenticati di dire che oltre a spaccare culi ho anche un dottorato in filosofia, cazzo, ho studiato a Uppsala, cazzo».
«Va bene, direi di andare via prima che facciamo la fine di Quel pomeriggio di un giorno da cani» dissi.
«Tutto qua, disagiati di merda?» disse il capo.
Vincenzo appoggiò la canna del fucile sulle labbra del bastardo finché quello non le schiuse e si ritrovò con il fucile per qualche centimetro in bocca.
«Coraggio, fatti ammazzare» disse, consapevole che quella sarebbe stata lunica occasione in tutta la sua vita per poter citare Dirty Harry.
Quello fece un lamento e una chiazza scura gli macchiò i pantaloni, si era pisciato addosso. Vincenzo gli sfilò il fucile dalla bocca «Chiedi scusa a Eddie» disse calmissimo.
«Scusa Eddie, scusa. Sono un razzista di merda» ammise il bastardo.
«Ok, possiamo andare» dissi.
«Li lasciamo così e basta?» chiese Vincenzo.
«Siamo brave persone» disse Eddie.

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