Et pour avoir cette vie-là, j’ai remonté les bretelles,
quand le rêve est trop long, le réveil est brutal.
La vie qu’on mène, Ninho
Mi ritrovo fatto d’erba sul regionale veloce che da Bologna procede in direzione Verona.
Fingo di leggere questa pagliacciata new age che è La sottile arte di fare quello che cazzo ti pare per dimostrare che io sono uno che non le manda mica a dire, e ogni tanto alzo gli occhi verso i casolari solitari e i campi, alcuni coltivati e altri no, che popolano il mio paesaggio. Seduto di fronte, il mio amico che ha speso cento euro per il cinturino dell’Apple Watch che i cugini gli hanno regalato per la laurea magistrale conseguita in ritardo a causa del lavoro alla pro loco del paese. A questo ci siamo ridotti: siamo andati in centro a Bologna di proposito, siamo entrati all’Apple Store e abbiamo speso un centone, e ora stiamo tornando a casa senza nemmeno esserci concessi il tempo di bere una birra, di fare un aperitivo, che ne so, di socializzare con altri esseri umani come noi.
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Il treno viaggia spedito e senza ritardi e l’amico sta sostituendo i cinturini . Dopo quasi mezz’ora finalmente un miraggio riempie di senso il mio orizzonte: cinque ragazzini e due ragazzine corrono verso di noi, lustrando il corridoio della seconda classe con le suole delle loro VaporMax Plus. Parlano con una specie di cadenza milanese, anche se sono emiliani – da quattro o cinque anni tutti i teppistelli o presunti tali imitano la parlata dei trapper di Cinisello e di Rozzano.
A dodici anni le baby gang erano la cosa che mi affascinava di più in assoluto. Quel mostro invisibile dell’opinione pubblica, un concetto che mai ho afferrato, nemmeno da adulto, li accusava delle peggio malefatte, e un giorno sì e l’altro pure i servizi di Studio Aperto di mezzogiorno li scannavano vivi in diretta televisiva sull’altare del moralismo. Mi facevo registrare il telegiornale da mia nonna con il videoregistratore a cassette mentre ero a scuola, lo guardavo nel primo pomeriggio, dopo i Simpson. Quelle storie mi intrigavano più delle Brigate Rosse, le baby gang erano le mie personalissime e privatissime BR, ma senza ideologia, quindi ancora meglio, perché io non lo capivo l’ideologia a che mi servisse. Erano qualcosa a cui appartenere senza zavorre sovrastrutturali. Era semplice: pietre da scaraventare dal cavalcavia contro le auto, vecchie da scippare il primo del mese all’uscita dalle Poste, compagni di classe timidi da picchiare a ricreazione, motorini su cui sgommare; e tutto questo per nessun motivo, niente, era solo la sterile prevaricazione del branco sull’ecosistema urbano. Il branco me lo sognavo pure la notte: erano i sogni più belli, io e un gruppone di amici scalcagnati in giro per il centro – sono gli unici sogni che rimpiango quando mi sveglio a metà nottata per andare a bere. Avrei fatto di tutto pur di diventare braccio armato di una baby gang, persino offrire come vittima sacrificale la stessa nonna che mi registrava il telegiornale con tanta cura e devozione.
L’aria si arrugginisce al contatto con il vagone, il vento sfrigola impaziente e io ho i timpani che fischiano: chiudo gli occhi per affinare l’udito. Non riesco a decodificare chiaramente le parole dei sette; sono fermi a pochi metri da me, stanno preparando l’attacco e farfugliano. Stai cappando bro’, dice uno; ti giuro che no fre’, no cap, gli risponde l’altro, e tira fuori un pezzo di metallo dalla tasca: fleeeexxx, esclamano in coro. È l’unico scambio che riesco a estrapolare dal discorso. Porto la mano destra verso il collo e mi sfilo la collanina con il crocifisso d’oro e poi la ripongo al sicuro nella tasca interna del giubbotto. Sta per succedere: me lo sento e allora faccio meglio a stare all’erta. Stringo i pugni, li aspetto al varco: quanto ci mettono a farsi sotto? Io sono qua, dove altro posso andare? Inaspettatamente il branco cambia direzione, migra in massa verso un’altra carrozza. Resto di sasso, deluso per l’ennesima volta. Il mio amico mi chiede cosa sto guardando da dieci minuti, non si è accorto di niente, la sua curiosità è tutta sul nuovo acquisto.
L’ultimo treno di giornata è semivuoto; lo popolano i disperati e i tossici con i bustoni dell’IN’s; dentro le buste: confezioni da due di hamburger di pollo e microplastiche, birre Dahlberg, caschi di banane quasi incommestibili e gambi di sedano da sgranocchiare. Nella latta marcia dove mi sono chiuso per pisciare, il risucchio d’aria, dopo aver tirato lo sciacquone, si porta via pure un frammento della mia anima in compressione e a quel punto, appena la ferraglia del treno mi permette di sentire meglio, avverto le urla e il parapiglia generale provenire dall’altra carrozza. Esco di corsa, con la cinta che penzola dai jeans e un paio di gocce sui pantaloni. I ragazzini hanno appena accerchiato un anziano ben vestito che viaggia da solo; un tirapugni luccica tra le mani che si affollano a un metro dal volto dell’uomo. Lo vedi questo? Te lo stampo in faccia, boomer di merda!, gli fa il capobranco, te lo stampo in faccia, wallahi! Rimango nella terra di nessuno per trenta secondi: ora torno al mio posto e me ne sto zitto, penso, questa è la cosa migliore da fare, mi vado a sedere e questa me la dimentico come me ne sono dimenticate tante altre di cose spiacevoli che mi sono successe.
Due donne si affrettano per raggiungere l’epicentro del marasma, le vedo accorrere dall’altro capo del vagone per dare manforte alla vittima. Esortano i teppisti ad andare via, li minacciano: lasciateci in pace o chiamiamo la Polizia Ferroviaria. Io sto fermo. Strillano altre frasi in acuto di difficile comprensione, poi si rivolgono a me: lei che fa lì impalato? intervenga, lei che è un uomo, intervenga per Dio! Non mi restano più dubbi, in casi come questi bisogna mostrarsi per quel che si è. Tolgo la cintura e scatto verso i maranza: devo intervenire, hanno ragione le signore, come faccio a ignorare ciò che sta avvenendo? devo farlo, e ora mi trovo a un passo da loro. Sono eroi mitologici: posso quasi toccarli, accarezzare il biondo platino di uno, sfiorare le treccine lunghissime e strettissime dell’altra, rabbrividire di piacere di fronte a una felpa Balenciaga tarocca. Le loro scarpe sono pulitissime, il doppio taglio dei maschietti inappuntabile, e ho un principio di erezione che mi annebbia il ragionamento. Mi guardano già pronti ad assalirmi, esaltati dalla sfida. Faccio un passo in avanti, poi ordino ai sette gnomi in tenuta sportswear di togliersi di mezzo: li oltrepasso e mi piantono di fronte alle due donne, le fisso: che io sia un uomo voi non me lo potete dire, chi ve lo dice che io sia un uomo? Ma chi pensate di essere? Paolo Bonolis a Ciao Darwin? I loro sguardi si fanno di ghiaccio quando ne colpisco una con una frustata precisa dietro al ginocchio: colpo di cinghia secco. Si piega in due, con i lacrimoni più sinceri che io abbia mai visto; soffre come una ragazzina alla prima delusione d’amore comminatale da un capellone con il giubbotto di pelle nera che si fa chiamare Spiro e che ha chiesto un 125 in regalo per il suo sedicesimo compleanno ai genitori notai. L’altra mi chiede perché l’ho fatto: lei è uno scriteriato, è un esagitato, è peggio di quei sette extracomunitari là! Si chiamano italiani di seconda generazione, la correggo, abbia rispetto, anzi non sono nemmeno sicuro sia corretto chiamarli così: sono italiani e basta, di nessuna generazione, solo italiani, come lei e come me. Agito la cintura, poi le chiedo se ne vuole un assaggio pure lei. Assaggiare, assaggiare, falla assaggiare! urla una della baby gang; li sento ridere dietro di me, so che per loro assaggiare ha un altro significato. Mi sento forte per una volta. Rimango con il braccio sinistro sollevato, la borchia stretta tra le dita, la mano destra sul poggiatesta del sedile che ho accanto, e mi vedo e mi sento statuario e invincibile. Rassicuro il gruppo: le tengo a bada io, le vecchie impiccione, voi prendete il portafogli e datevi una mossa. Eseguono, e l’anziano porge loro tutto ciò che ha in tasca: il portafogli appunto, e nient’altro, però pieno di contanti, perché i vecchi non usano il contactless per pagare, a differenza di noi giovani. Non ha nemmeno il telefono sto scemo, dice una delle ragazzine che poi arriccia le labbra e si fa un selfie con la vittima. I maranza sogghignano come iene di fronte alla carcassa di un istrice diabetico e si dividono i contanti della refurtiva: i loro ormoni danno vita a un’esplosione adolescenziale nella carrozza e catalizzano le energie cosmiche presenti. Li interrompo un attimo, per tenermeli vicini, prima che vadano via e si disintegrino nei miei ricordi anziani: aspettate, urlo, venite qua.
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Gli occhi di chi tradisci somigliano terribilmente a quelli di un condannato a morte: non vogliono crederci, ti implorano di non farlo e di non chiuderla così, di riparlarne, perché la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa fermamente contro l’esecuzione, anche se tu sei un dissidente politico saudita colpevole di avere condiviso un meme con uno a cui sta per essere mozzata la testa al centro di Chop Chop Square e davvero non te ne fai niente di niente delle belle parole ammonitrici degli organismi internazionali. Al mio amico impongo di togliersi il cinturino di tessuto e di consegnarmi l’Apple Watch e leggo nel suo sguardo un’incredulità infantile e fastidiosa, due occhi che mi comunicano involontariamente che una vigliaccata del genere poteva aspettarsela da chiunque, ma non da me, perché io non sono il tipo. Come faccio a dire al mio amico che sono esattamente il tipo? Quel tipo di infame che ti ruba da sotto il naso la fidanzata e si presenta con lei alla tua festa di laurea, anche se ti aveva promesso di non farlo in nome del legame storico che vi unisce, ma lo fa lo stesso, mandandoti di traverso le patatine al lime e pepe rosa che stai mangiando con la tua Peroni in mano, mentre tua madre maledice lei – perché è sempre colpa della donna – e tutta la sua genealogia. Sono quel tipo di bastardo, io, e lo deve vedere. Il maranza supremo sfoggia il tirapugni e ne raschia il metallo con le unghie per minacciarlo. L’ho appena comprato il cinturino, Gigi: lo abbiamo, porca troia, appena comprato insieme, sei pure venuto con me per farmi compagnia, perché siamo amici e gli amici sono amici pure quando non c’è molto da fare, e lo so che sono anni che non c’è molto da fare per noi, ma che cosa stai combinando ora? Sei diventato scemo? Ti giuro che la prossima volta offro io da bere. Vorrei dirgli che non sono diventato scemo e che per me gli anni in cui non è successo niente sono stati troppi, e che oggi ho solo realizzato il mio sogno da bambino, e a nessuno andrebbe distrutto il suo sogno da bambino, nemmeno a uno come me. Prendo l’orologio, lo faccio roteare tra le mani e lo consegno al maranza capo. Gli regalo pure il libro che stavo leggendo e ci salutiamo dopo esserci scambiati i nostri social.
Tra una o due fermate arriveranno a prendermi i siamesi della Polfer, scortati come si deve da due bellimbusti dell’esercito, pugliesi o siciliani, per un ingresso congiunto in pompa magna. Sono già stati allertati e mi porteranno via e io non opporrò resistenza. Studio Aperto sottolineava sempre che quell’arrestato lì o quell’arrestato là non aveva opposto resistenza, e così anche io farò parte di quella categoria di persone che, di fronte alle Forze dell’Ordine, abbozzano. Mi fa male tutto, soprattutto i polsi, e non vedo l’ora che mi vengano a prendere; rimarrò seduto qui nell’attesa, carrozza numero uno, solitario e pacifico. I maranza sono già andati via, mi hanno urlato da lontano che sono un grande e io lo so che sono un grande. Le donne stanno piangendo quattro file più indietro e temono che io possa colpirle ancora, ma non hanno la forza di muoversi; il mio amico starà tremando di vergogna e di oltraggio qualche carrozza più in là, immagino, ma non lo so per certo, e di quello che sarà di lui da oggi in poi non mi interessa: è anche colpa sua se siamo dove siamo, non è che io volevo tutto questo.
Mi farò dare un passaggio in questura e confesserò quello che c’è da confessare. Se mi chiederanno perché e per come, allora dirò la verità, ovvero che uno non può aspettare in eterno che le cose accadano e che a volte ci si deve mettere in gioco e rischiare, che non è mai troppo tardi per diventare ciò che si vuole, che il cielo è il nostro limite e che siamo fatti per volare sempre più in alto: lo dicono i motivatori e i santoni e i profeti della mindfulness, e oggi capisco che avevano ragione. Può avvenire in certe vite che il treno passi una volta sola e a questo giro sono salito a bordo senza paura, quindi sissignore, come in ogni storia rotonda e conclusiva posso dire finalmente di avere imparato qualcosa dagli avvenimenti e dalle cose che ho visto e ho letto.
un Maissalise atipico ….Grandioso