La storia con Psy-low è iniziata per un annuncio: cercavamo qualcuno a cui affittare la nostra stanza singola in Santa Croce, secondo piano di una palazzina che se la passava piuttosto bene, uso bagno con doccia, cucina e frigo in condivisione.
Con quei soldi saremmo riusciti a pagare l’affitto e magari a farci pure un po’ di cresta, giusto qualche vizio. Quando noi eravamo ancora noi, e nessuno avrebbe anche solo potuto immaginare che l’arrivo di Psy-low sarebbe stato come tuffarsi di testa in una piscina vuota.
Psy-low era un tipo roccioso: alto parecchio più di Michele, potrei affermare che sfiorasse i due metri. Aveva il volto largo, la mascella sempre in movimento e due occhi color catrame che non riuscivano a star fermi. Le sue mani sembravano quelle di un altro: erano sottili, le dita lunghe e più bianche rispetto al volto e agli avambracci, come le avesse tenute a bagno per anni nella candeggina.
Parlava l’italiano con un marcato accento spagnolo, e la cosa mi piaceva. Psy-low si chiamava Jorge. Ci tenne subito a descriverci la sua attività.
«Quando la porta è chiusa vuol dire che lavoro e nessuno deve disturbarmi».
Jorge coltivava gli psilocybe. Non li avevo mai presi e neanche Michele, sempre avuto paura mi prendesse male.
Fui proprio io a ribattezzarlo Psy-low, perché suonava meglio di un semplice “Psilo”, come Jorge usava definire i suoi amici funghetti, e poi era anche il nome di un gruppo punk che all’epoca avevo sentito suonare nel pub dove andavamo di solito. Mi sembrò un segno del destino.
«Paghi subito?» disse Michele allungandogli la mano.
Jorge aprì il suo enorme zaino e tirò fuori un rotolo di banconote. Un mese di anticipo e la caparra. Sembrava un buon inizio.
«Ma ci campi?» dissi io.
«Non mi lamento, e il sabato sera lavoro come buttafuori».
Gli diedi la chiave e si chiuse dentro.
Michele uscì di casa: «vado a pesca», mi disse. Era un pomeriggio di novembre, lui cercava giovani studentesse straniere da portare in camera e divertircisi un po’, e mi diceva di fare lo stesso, che questo concetto di possesso nella coppia era roba vecchia. Io non avevo nessuna voglia di scopare con altri, e tanta paura che quello stronzo mi attaccasse qualche malattia, perché odiava i preservativi. Però non stavamo male insieme, alla fine eravamo un “noi”, lui aveva parlato al plurale fin dai primi tempi e la cosa mi era sembrata meglio di un diamante.
Eravamo rimasti soli io e Jorge e andai subito a prendere la copia della chiave della sua camera: aspettai che uscisse. Mangiai mezzo pacco di biscotti e lessi un paio di Dylan Dog. Michele non si decideva a tornare e cominciavo ad annoiarmi. Dopo quelle che mi parvero almeno due ere geologiche finalmente lo spagnolo uscì dalla sua grotta.
Il cellulare gli squillò con la voce di Rihanna. Jorge disse qualcosa in spagnolo e continuò a borbottare anche mentre chiudeva il portone di casa. Avevo campo libero; era il momento di fare un giro nel suo mondo di unicorni e gnometti.
La prima cosa che mi colpì furono le lampade di Wood che ronzavano. Indossavo una maglietta bianca e diventai fotonica: come quei corpi che danzano di fronte alle casse pulsanti, illuminati dalle luci violette, simili a falene in cerca di salvezza. Chiusi gli occhi: mi sentivo bella, anche se Michele non me lo diceva più da tanto (“Ti sei appesantita sui fianchi, mangi troppo!”: non era mai avaro di critiche).
Sulla scrivania Psy-low aveva sistemato le sue creature: spuntavano dalle scatole con le loro piccole teste, i gambi dritti nel terriccio. Li aveva protetti con una pellicola: “Sono il cibo degli dèi”, diceva. Ne era schiavo ed ero più che sicura che ci pasteggiasse ormai da tempo, visto il camion di paranoie che lo portavano a spasso per le palle. Credeva che io e Michele lo spiassimo (e in parte era vero) e che avessimo tentato di avvelenargli le bistecche congelate che teneva nel suo reparto frigo. Disse che ci aveva visti in sogno infilzare le sue bistecche con una siringa piena di varechina. Ero io a convincerlo che gli volevamo un gran bene e che comunque grazie ai suoi funghi era immune a qualsiasi altro veleno terrestre.
Il letto di Jorge era sfatto e nell’aria c’era un odore acre. Il pavimento era ricoperto da pezzi di conchiglie, fortuna che mi ero lasciata gli anfibi o sarebbe finita male per i miei piedi. Con un po’ di immaginazione riuscii a capire che erano i pezzi di uno scacciapensieri o acchiappasogni, dipende sempre dai punti di vista. Sopra la scrivania aveva appeso due poster: Lady Gaga e Raffaella Carrà.
L’anta dell’armadio era aperta e mi avvicinai per sbirciare tra i suoi abiti. Pensavo di trovare solo tute in acetato anni Novanta, che erano quelle che portava di solito. E invece ci aveva piazzato dentro due bustini da donna neri, di quelli con le stecche e i nastri a strizzo. Ne presi uno e quando me lo accostai addosso notai che non era nemmeno lontanamente vicino alla mia taglia, ma era della sua. Lo immaginai tutto inguainato e in fondo non stava nemmeno male. Chissà come si vedeva lui allo specchio dopo una cenetta di psilocybe.
Non vedevo l’ora di raccontarlo a Michele, dove cazzo era finito Michele? Era quasi ora di cena, ma dopo la merenda atomica avevo una leggera nausea. Sperai che lui avesse mangiato fuori. Rientrai in camera mia e mi misi a guardare il soffitto. Mi stavo quasi per addormentare, ma uno squittio di voci mi svegliò. Era Michele più due. La prima: bionda, bassa, tette enormi; la seconda: cresta rossa, asciutta, piercing parecchi, bel culo. Parlavano in inglese, ma dal movimento di mascella e dalle «r» compresi subito che erano americane.
«Stasera ne ho raccattate due» mi disse tenendole strette ai suoi fianchi. «Stavolta voglio che tu ti unisca a noi. Ema dai, che ti costa? Dai, voglio che tu lo faccia!»
Non gli bastava scoparsele nel nostro letto. No, non avevo nessuna voglia.
«Sono stata in camera di Psy-low» gli dissi per sviare mentre la miss America rossa cercava di aprire una bottiglia di birra con l’accendino.
«Che cazzo me ne frega? Dai, ho voglia di scopare prima che queste due mi vomitino addosso. Aspettaci in camera, ti voglio nuda tra cinque minuti».
«Ho trovato due bustini taglia XXL nel suo armadio».
«Mi hai rotto i coglioni, Ema, vai di là! Per me Psy-low può anche crepare!»
Quella sarebbe stata l’ultima volta, poi basta. Noi eravamo ancora “noi” e partecipai all’allegra orgia multinazionale.
Alla fine di tutto Michele, mentre cercava di alzarsi dal letto barcollando, buttò per terra la mia statuetta di Buddha. Era un regalo della mia migliore amica e lo tenevo come una reliquia dai tempi del liceo.
E il vulcano si svegliò, iniziò a zampillare lava senza sosta. Sentivo il calore salirmi dal basso ventre fino alla punta del naso. Lo guardai e immaginai la sua testa che scoppiava come in Kenshiro, con la semplice pressione delle dita sulle tempie. Che bellezza: un lavoro veloce e pulito. Avrei voluto riuscirci anche io.
Lui accompagnò le americane alla porta e poi si chiuse in bagno per farsi la doccia, come sempre dopo una scopata.
Sentii un respiro pesante e colpi di tosse sincopati, la porta sbattuta con forza. Psy-low era tornato a casa. Lo bloccai prima che si chiudesse nel suo regno, e in sottofondo, lavandosi, Michele cantava I was made for lovin’ you: era la nostra canzone, me la dedicò la prima sera che mi portò a cena da McDonald, le bollicine di coca che mi risalivano nel naso.
«Jorge, te ne devi andare. Non so come dirtelo».
Lui respirava come un treno a vapore, non si era ancora ripreso dalle tre rampe di scale.
«Michele vuole matarte. Me lo ha confessato stanotte. E poi…»
Psy-low strabuzzò gli occhi e bestemmiò qualcosa in spagnolo.
«Ha detto che vuole versare l’acido sui tuoi psilocybe!»
Lui gridò ed entrò di corsa nella sua camera, prese il suo scrigno di funghi, infilò qualche tuta nello zaino e via giù per le scale del palazzo.
Michele uscì dal bagno senza accappatoio gocciolando acqua ovunque.
«Che cazzo succede?»
«Psy-low».
«Psy-low cosa?»
«Se n’è andato via. Scappato».
«Che coglione».
«Le sue paranoie lo uccideranno».
«Per fortuna ha pagato in anticipo, almeno per un po’ siamo coperti».
«Sì, amore, ora ce ne staremo soli io e te. Domani sera ti preparo una bella cenetta, ok?» dissi baciandolo sulla guancia.
La mattina dopo mi svegliai lucida e con una fame preistorica come non mi capitava da tempo. Michele dormiva ancora e me ne andai senza svegliarlo. Volevo uscire presto per fare la spesa.
Che bella serata: assaporai ogni minuto di quell’attesa, del momento in cui lui avrebbe assaggiato il mio menu. Risotto con i funghi, bistecche, patate e gelato.
Aveva piovuto parecchio nell’ultimo mese, ma ormai da diversi giorni il sole scaldava Firenze: il clima ideale per quello che cercavo.
Presi una vecchia scatola da scarpe, mi infilai una tuta e me ne andai cercando di non fare il minimo rumore.
Non ricordavo dove avevo parcheggiato la mia Panda e neanche l’ultima volta che l’avevo usata. Non uscivo di casa da almeno una settimana, l’avevo trascorsa in pigiama a bere latte e a mangiare pan di stelle. Michele mi lasciava fare, mi aveva sempre lasciato fare. L’importante era che non facessi troppe domande e che mi ricordassi che era meglio annuire, che negare. Semplice e sincero, tutto sommato onesto.
Quella mattina mi sentivo piena di luce e non avevo fumato niente, non avevo preso nemmeno qualche goccia di xanax.
Di fronte al bar di Carlo, ecco dove l’avevo parcheggiata. La domenica prima: colazione sgrassante dopo una serata a casa di una tipa che aveva pellicce attaccate sulle pareti dell’intero salotto e fumava sigarette col bocchino.
Il finestrino della mia auto era decorato da una cagata di piccione formato famiglia, a guardarla meglio sembrava un cuore. Girai la chiave e come al solito lo stereo lasciato acceso mi sparò in pieno volto la voce di Ozzy.
All day long, I think of things. But nothing seems to satisfy. Think I’ll lose my mind. If I don’t find something to pacify.
Dopo quasi un’ora di viaggio nel traffico arrivai finalmente al mio supermercato naturale.
Mio nonno mi ci portava da bambina in un bosco come quello. Mi aveva insegnato a riconoscerli, mi aveva insegnato quasi tutto.
Vagai tra gli alberi senza meta per almeno un’ora, ma trovai solo degli squisiti cocchi. Poi li vidi: i miei angeli se ne stavano dritti sotto una quercia scoppiata dai fulmini. Ne scelsi una decina per il risotto: volevo essere sicura che quei bastardi facessero il loro dovere. Del resto rispettare le dosi è importante in cucina. Li avrei mescolati ai cocchi: un ottimo sapore, e del tutto simili ai funghi porcini.
Era molto presto e per fortuna non incontrai nessuno; non sarei riuscita a sostenere controlli o qualsiasi altra forma di socializzazione umana. Non a quell’ora del mattino e senza aver assunto alcuna sostanza.
Avevo recuperato l’ingrediente principale, ma mi mancava tutto il resto. Il riso ce l’avevo, che è sempre bene tenerlo a casa come base per rimettere a regime i succhi gastrici. Comprai due bistecche di manzo, le patate, il gelato e una bottiglia di vino rosso.
Rientrai che erano quasi le dieci, Michele dormiva ancora. Nascosi la scatola con i miei angeli sotto il letto di Psy-low: il sacro fuoco delle spore li avrebbe protetti.
Mi spogliai e rimasi in mutande e reggiseno, avevo freddo e i capezzoli si stavano indurendo. Perché non rimanevano sempre così? Erano dritti e sparati come due proiettili. Strisciai sotto le coperte, abbracciai Michele da dietro e lo toccai. Si svegliò dolcemente con la mia mano su e giù a dargli il buongiorno.
«Brava».
«Devi andare a lavoro, amore» sbadigliai.
«Prima finisci quello che hai iniziato».
Mi prese di nuovo la mano su e giù per svegliarlo del tutto, e io fissai lo sguardo su una macchia di muffa che aveva sporcato la parete di fronte al letto. Il movimento sempre più veloce.
Restai a letto ancora un po’ e trascorsi il pomeriggio a cucinare. Avevo intimato a Michele di essere a casa per le 20, puntuale e soprattutto da solo.
Era tutto pronto e in largo anticipo.
Mi lavai per bene e indossai quel vestito nero aderente che a lui piaceva tanto. Riuscii a non fumare erba e a non bere neanche una birra. Volevo essere lucida per il mio tesoro.
«Ema, sono a casa amore» disse lui sbattendo la porta.
«Hai fame?» chiesi sculettando verso la cucina. «Siediti» gli ordinai.
«Portami da bere».
Stappai la bottiglia di vino e gli riempii il bicchiere fino all’orlo. Lui mi sorrise con la bocca storta, gli occhi accesi.
«Tieni, Miche. Risotto ai funghi per te! Sono freschissimi».
Mi versai un calice di vino.
«A noi!» dissi alzando il bicchiere.
Brindammo occhi negli occhi come si deve e Michele iniziò a divorare il riso. Dopo un minuto di apnea chino sul piatto, riemerse.
«Ma tu non mangi?»
«No, amore, solo il secondo. Ho cucinato tutto il pomeriggio e ho lo stomaco chiuso».
«Però una cena così non me la preparavi da quanto?»
«Credo di non avertela mai preparata, ma da oggi in poi cambierà tutto».
«Fai un po’ come ti pare, ma la prossima volta mettici più sale».
Passammo al secondo, poi dolce e caffè: il bicchiere di Michele era sempre un pieno e un vuoto, su e giù, fino alla fine della bottiglia.
Barcollò verso la nostra camera e crollò sul letto.
«Vieni qui amore» mi disse.
Era dolce il mio Michele.
«Dormi, sei stanco. Ora pensa solo a riposare».
Lo spogliai e gli misi quella tuta di ciniglia bucata che chiamava pigiama. Poi presi la mia valigia e ci infilai più roba possibile.
Lo guardai per l’ultima volta: sorrideva nel sonno. E chiusi la porta della camera a chiave. Il suo telefono era sul tavolo della cucina, spento.
Me ne andai prima che iniziasse a marcire, il fegato a spappolarsi.