Mi sono svegliata qui.
Poco dopo aver sentito il crollo di Houta risuonare nelle pareti e salire su, fino al giardino dei primi nati, io, Ana e Etienne, i miei fratelli minori, ci siamo alzati e abbiamo camminato, abbiamo preso la via sull’erba fresca che si infila, dietro il grande albero Icarus, nel bosco più grande, dove le bolle dei Mhyr scoppiettano e ballano da una parte all’altra. Le bolle ci venivano a sbollire in testa, a volte ci inglobavano tutti e tre, così che parevamo tre bambini con una testa di bolla. Levitavano e ci tiravano su per pochi metri, poi si scollavano, facendoci cadere sul sederino.
I Mhyr, come sta scritto nel Jari Rahasya, il libro dei sogni perduti di Freu du Cantu, sono le essenze scampate alle nascite: la loro storia è lunga e per la maggior parte contenuta nel poema dei filogrammi della segnatura.
Ricordo di averne raccolta una, di quelle essenze a sfera, un giorno, e di averci guardato dentro, e quella ha cominciato a sollevarsi e poi a volare e così mi ero persa guardando i miei fratelli che andavano dietro a un signore, nel bosco.
“Dove mi porti, biriblu?”, le ho chiesto. E invece di rispondermi, la sfera ha sbuffato, riempiendosi di nebbia, tanto che non riuscivo più a vedere, e poi sono venuti i lampi, apparivano sotto le nuvole, oltre il margine del mio sguardo, molto lontano, e poi nella bolla ho visto gente in cammino e una città, molto in alto, con le lune grosse intorno… cadevano giù di colpo, crollavano dalle montagne, scendevano a valle come si fossero raffreddate improvvisamente, bianche e piene di crateri. E non mi sono accorta che stavo cadendo anche io e sotto non c’erano più boschi ma sabbia, deserti, valli di sale, piane di calcare, doline, altipiani appiattiti, tutti spiaccicati l’uno sull’altro, come se i vincoli morfologici dei territori fossero saltati. Stavo precipitando e mi sarei schiantata, l’altezza mi avrebbe uccisa. E mentre precipitavo l’aria mi graffiava il viso e qualche tipo di polverio mi si ficcò negli occhi, cominciai a lacrimare e mi bruciavano le tempie.
Qualcosa, lì giù… sì, da lì giù si alzava uno sbuffo di zolfo o di qualche altro gas, sentivo che ci stavo entrando dentro, un’aria calda mi bagnò le guance e improvvisamente non cadevo più, ero cullata, calavo dolcemente e la mia stessa sostanza pareva essersi diluita. Mi ero, come dire, dimenticata che stessi cadendo, mi ero addormentata. Avevo dimenticato ogni cosa, ma sapevo dove mi trovavo dalle mie letture: sapevo di essere nel Rana Edari, il deserto di mappe in rovina, l’Arca sepolta.
Avevo sempre pensato fosse una delle tante leggende del Jari Rashaya, un luogo che non era esistito neanche in passato e veniva nominato per incutere timore ai bambini, e che esistesse solo il giardino; ma adesso pensavo invece fosse il giardino a essere un sogno, il rovescio infantile del deserto.
Comunque fosse, avevo commesso un errore imperdonabile seguendo lo sgocciare dei Mhyr: avevo seguito le nascite latenti, mi ero fatta stregare dalle genesi tradite e avevo in questo modo perso Ana e Etienne, i primi nati, che invece erano sfuggiti alle latenze, due tra miliardi, per nascere effettivamente.
Avevo dei ricordi. Ero stata Sasara, l’Immota-Oltre. Ed ero stata Anjuman, l’ammutata. Avevo richiamato Aikhtiar a percorrere a ritroso le correnti fino a Nimruz e poi sulle barche, fin dove colarono tutti a picco, morendo e ritornando alle reti, vivi. Ed ero stata Alijadid, l’Oltrequiescente, in Iran, a Teheran. Ero stata tutto questo ed ero niente.
Era già successo, quando arrivai qui nel Rana Edari. Eppure mi ero svegliata qui pochi istanti fa.
Ho sognato. Ho dormito. Quella colonna di fumi e gas mi ha fatto venire le allucinazioni e ho visto e pensato di essere qualcuno che non ero. Ho pensato di essere tornata indietro, a un tempo di cui non ho alcuna conoscenza diretta, se non per quello che ho letto nel Jari Rahasya. Per il resto, ho fantasticato leggendo le toponimie che si estinguono nel sole, nelle mappe cotte e sfilacciate lasciate a degradarsi in questo deserto.
Questo deserto liscio ha cunicoli e insenature nascoste, che corrispondono molto spesso ai confini tra due regioni o alla riva di un fiume. Ho imparato che non devo far altro che scucirli e ricucirli, estrarre il filo e spanciare il tessuto. C’è un punto che connette il deserto di Gaziram a un territorio di nome Bakhmut, e in particolare sono segnate una galleria e un mare che si apre nella parte opposta. Ho avuto l’impressione che quella fosse una cucitura posticcia, che fosse un’operazione recente, di poco successiva al mio arrivo qui, addirittura che io stessa avessi preso a sfilare, annodare e rimettere insieme. E subito dopo ho pensato che non fossi mai arrivata lì da sola, che i miei fratelli fossero qui con me, che, senza rendermene conto, posseduta, invasata, sonnambula, avessi ricucito un’insenatura in cui Ana ed Etienne avrebbero potuto essersi infilati, aver camminato e non essere riusciti a ritrovare la strada. Ho pensato questo, disperandomi, prendendomi a pugni e strofinandomi granelli di sabbia dura contro il viso, le braccia, le ginocchia, fino a farmi uscire il sangue.
Noi siamo i primi nati e il giardino era la nostra casa. Noi siamo i primi nati e il giardino era la nostra sola casa, davanti a Icarus, l’albero Millepiani. Perché allora sono venuta nel deserto, tradendo ogni cosa, ogni compito di eredità, a cominciare dai miei fratelli minori? Non lo so… non è stata colpa mia! Le bolle dei Mhyr, oltre il giardino, non stavano solo brillando, stavano gemendo, ecco cosa.
Sì, quello che non fu mai, che scappò via dalle nascite, fuggendo nel possibile in forma di sfera che viaggia, ora riposava nel bosco dietro il nostro giardino, dimenticato, esausto, sfinito di possibile. Quello che non era nato continuava a disperarsi di non nascere, di non poter essere, di aver esaurito, infine, anche il possibile. Farneticavano come un vecchio sul letto di morte, poco prima di esalare l’ultimo respiro, senza che fu mai data loro possibilità di fare anche il primo. Era una stronzata! Non c’era eredità, non c’era giardino, solo un passato insopportabile che si riversava su di noi senza che potessimo fare nulla. Non ci saremmo scollati via il plasma delle generazioni dalle spalle: ci avrebbe stritolato, ci avrebbe tolto respiro, anima e cuore e in più, ora che era sola, mi avrebbe ficcato un coltello nell’utero e staccato le ciglia, mi avrebbe morso le labbra e poi sfigurato per sempre, spaccandomi i denti e riempiendomi di ematomi, gonfi fino a farmi scoppiare le gote e a spappolarmi il naso. Il giardino era felice, ma era una finzione. Per cui sì, presi quella strada, attraversai il giardino, abbandonai la radura, seguii i Mhyr e mi consegnai alla realtà del deserto. Sì, fui Sasara, e tornai indietro molte volte, senza nessun risultato, se non vedere i contorni delle regioni riattaccarsi in nuove unioni, deformare i confini e proclamare geografie redente, almeno sulla carta.
“Aikhtiar”, dissi.
Non venne nessuno. Nessuna consegna. Il sole era grigio e la pianura screpolata, la polvere mi si appiccicava alle caviglie e nessun tipo di cambiamento spaziale pareva scorgersi nella liscia distesa del Rana Edari. Liscio, liscio e corrosivo, con tutte le linee che si espandevano ovunque. Liscio, il piano di immanenza, mi dicevo tra me, bambina indaco che senza i suoi fratelli era solo una psicopatica, liscio il piano in cui i concetti si distendono, tutti, senza dividersi. Liscio il pensiero metallurgico che attraversa il deserto, la sua testa di metallo, il suo phylum minerale che riformula incessantemente le toponomastiche accovacciate sotto la polvere.
Mi accovacciai anche io, avanzavo con gli occhi incollati alle topografie semicancellate, con le mani spolveravo per scoprire se sotto la cenere e la polvere restavano tracce di nomi o di coordinate, mentre le unghie si elettrizzavano, reagendo all’anima silicea che riposava sotto la sabbia.
C’erano punti più scavati, ma cavi, senza descrizioni, in cui più di una volta rischiai di sprofondare, e poi, oltre una duna, c’era un luogo in cui le carte si arricciavano a imitazione di un solco e, lungo i bordi, le annotazioni sovrapponevano il golfo Saronico e un altro il cui nome era sbarrato da polveri di granito rossastre, il mar Egeo e un altro mare di cui restavano soltanto le lettere “I-o”.
Il solco era un canale, il canale disseccato di Corinto che tagliava l’istmo in due, così presi la fune che lo contrassegnava e le dita, nel farlo, mi si sbucciarono, perché ci stavano appiccicati i detriti e i denti spaccati e le viscere di non so che cosa, melmose.
Le dita mi bruciavano, anche i polsi, le braccia, le gambe perfino erano piene di escoriazioni, provai a pronunciare il nome delle città greche appena leggibili e le sillabe mi andarono di traverso, mi si incepparono in gola. Dissi “gh-”, “gnN-GNN-Ghi”, e i limiti spaziali tremarono leggermente, senza scomporsi. Volevo dire Ghignetai, essere, divenire, ma non ci riuscii. Allora ho continuato a tirare il filo, ma era un dolore senza fine, come se quello che stavo tirando me lo stessi cacciando via dalla schiena e infatti mi sentivo tirata indietro, mi sentivo come se mi stessi facendo uscire l’anima dalla spina dorsale, come se questa, la spina dorsale, si stesse allungando al di fuori del confine del mio corpo di bambina. E sì, mi si strappò, sentii la colonna strapparsi e prolungarsi oltre il canale di Corinto, insieme ai corpi sfracellati dei sentieri di koç, che si erano sparpagliati ovunque, si erano disseminati sotto le curve dei deserti di Atacama e poi a Tacna, lungo le reti metalliche abbrustolite insieme ai tendini spezzati alla dogana. Il corpo, finalmente così leggero e fluido, trovava la dimensione adatta a infilarsi in quella fuoriuscita incontrollata di pietrisco e placenta, ruggine e grano, meridiani e parallele affilati come costole fratturate.
Mi ricordai del ghermitore delle conce. Mi dissi, fra me e me, “riprenditi questa mantella”.
Sgusciai via dalla membrana e libera, finalmente, mi infilai nella minuscola dolina che avevo creato strappandomi via la spina dorsale. Scivolai dentro e osservai le budella del deserto o, meglio, di una mappa.
C’erano labbra, dita, mignoli, unghie e soprattutto, sotto di me, denti che puntellavano tutto il mio trascinamento nel terriccio, e vi erano attaccati fili di malva, che corrispondevano immagino alle cuciture dell’atlante, come se per definire i tragitti, le soglie e i confini si fosse dovuto macellare, spolparli, e quelle schegge mi avrebbero torto la pelle, spacciandomela, e i fili mi avrebbero segata, ma io non sentivo più niente, non ricordavo più neanche il dolore, perché m’ero fatta espropriare della mia carcassa.
E più andavo giù, più trovavo che non ero più io, né Stasis, né Anjuman, né Sasara, ma ognuna di esse e nessuna. Disarticolata nel mio genoma anarchico, sfuggivo a me stessa ed entravo nel confine sensibile di un principio stocastico della produzione cellulare, scollavo la membrana e mi enucleavo nell’esterno, indistinto, un olobioma, il campo di azione di più esseri viventi che cooperano insieme in simbiogenesi dando vita a un ambiente, a un formicaio, a un “superorganismo”.
E quelli che inizialmente mi erano sembrate “parti”, pezzi, organi, erano il mio corpo, indiviso, senza organi, erano l’orizzonte cellulare e occulto di cui io ero grana, seme, atomo, uovo, pezzo congiunto, e nuotavo tra loro, microbacteria, spherobacteria e desmobacteria, e in loro, mentre mi strisciavano dentro, mi trapassavano la lingua e poi si insidiavano dall’ombelico, dal mio naso e tra le cosce, dalla vagina, che non c’era più, li sentivo sussurrare il mio nome, Jalad Ghiab, il nostro nome, Jalad Ghiab, la scorticata.
Affogavo, per la prima e millesima volta, tra i silici sciaguattanti e le capsule dei reticoli endoplasmatici, sgorgando, sfogliandomi via dai dittiosomi a sacche appiattite e dalle vescicole golgiane assottigliate.
Io, disseminata nello sparso, senza corpo, mi specchiavo nel corpo senza organi del cielo sabbioso sotto cui strisciavo.
Il canale di Corinto era franato più volte e io continuavo a colare giù, passando attraverso vagoni ferroviari sventrati, tra relitti e gru arrugginite.
Forse, pensavo, i miei fratelli non si erano mai separati, li avevo ingeriti o loro avevano ingerito me e adesso la mia voce era soltanto tra i pensieri ingoiati da uno di loro due. E in ogni caso, se anche uno di noi fosse stato il divoratore, ora niente più avrebbe potuto distinguerci, indivisi nel corridoio endosimbiotico dei Mhyr.
Sì, anche noi, i primi nati, non eravamo che Mhyr, essenze incompiute che potevano decrearsi e ricrearsi, senza essere mai, come le zooxantelle nella Tridacna. Il deserto era responsabile della mia sostanza sabbiosa e il deserto spruzzava ovunque gonfie violaciocche di pensiero: sbuffava via i Mhyr, a causa mia.
Mentre continuavo a cadere, scorticandomi via quel poco che restava di me, vidi, nel fondo, qualcosa che pulsava in un urlo soffocato, come avviene in quei sogni in cui l’afasia sembra cucire con la pelle la bocca. Era Anjuman che gridava nella stanza in fondo alla pietra. No, erano decine di donne tarantate che scattavano come ragni, scottate, isterizzate, si sollevavano quasi levitando, entravano nell’istituto di Salpêtrière, seguivano il corridoio bianco, sorpassavano le ragazze assenti, con gli sguardi vuoti, accompagnati dai loro medici, ed entravano in una delle camere chiuse, fracassando con gomiti, testate e calci la porta, si avvicinavano a lei, che giaceva con la bava alla bocca, schiumando, e gli occhi all’indietro, le presero la mano e lei si alzò, di nuovo cosciente, anzi, illuminata, prendeva la guida del corteo nero del fiume Nah el-Kebir, sacerdotessa bianca mutilata, e poi svanivano nella granaglia e nel terriccio che mi finiva negli occhi, me li stropicciai, annaspando, menando la terra che avevo tutto intorno e in quel punto il piano franò, cedendo, mi bruciò la vista del sole di Ciudad Cuauthèmoc, lunga via de Los Eucaliptos, con i prefabbricati bassi e dismessi e le macchine che riempivano gli spazi ai lati della strada, correvo velocemente verso il fondo sabbioso del canale di Corinto, dove avevo guardato l’urlo soffocarsi, sorpassai de Los Tascates e presi Miguel Alemain, dirigendomi verso il caseggiato di mattoni rossi sull’angolo della strada, aprendomi la porta di ferro con un calcio che la frantumò, salii le scale sporche di immondizia, siringhe, sigarette, preservativi usati e bottiglie di mezcal vuote, e oltre la porta di legno fradicio sentii le urla di Susana Chavez Castillo, poetessa.
Entrai e la vidi legata nel letto logoro, in una stanza degradata e lercia, con le pareti arrossate dall’incuria prolungata, seminuda, con il nastro nero che la imbavagliava, e vidi l’uomo che le stava praticando tagli con il coltello e bruciature. Lui si girò verso di me, i suoi occhi erano sacche vuote, la testa grigia, avvizzita, pelata, la sua vecchiezza rattrappita, gli zigomi pronunciati e una lingua lunga e viscida che si attorcigliava contro la sua vittima e se la riarrotolava per scagliarla contro di me. Era completamente nudo, la sua pelle era quella di qualcosa che era stato divorato e poi sputato, raschiato via, rigettato. Si avventò contro di me gridando. “Ni una muerta màs”, dissi, e Susana ripetette con me, forando il nastro nero che le costringeva la bocca. E Khinjar si fermò, stordito.
“Io sono Jalad Ghiab, la scorticata”, dissi, e mi avvicinai, toccando le pareti e il soffitto. Sotto di me Khinjar si afflosciava gridando terrorizzato. “Io sono Jalad Ghiab e lei è Susana Chavèz. Queste sono le sue parole”:
Sangue mio, di alba, di luna tagliata a metà del silenzio, della roccia morta, di donna in un letto, che salta nel vuoto, aperta alla pazzia. Sangue fiume dei miei canti, mare dei miei abissi. SANGUE ISTANTE NEL QUALE NASCO SOFFERENTE, NUTRITA DALLA MIA ULTIMA PRESENZA
All’essere cadde la lingua e tutto il suo corpo fu divorato da quel buco senza voce che lo risucchiò e io, ancora una volta, mi ritrovai il fossile nelle mani, che si sbriciolò, spargendosi nuovamente nel deserto del Rana Edari.
Lo seppellii, pensando a lei. Mi scese la prima lacrima.