A mia nonna Muresta io non piaccio. Non le sono mai piaciuta.
A mia nonna Muresta non piace niente, a mia nonna Muresta non piace nessuno, a nonna Muresta piace soltanto Alfredo mio.
Quando ho portato Alfredo a casa, ho detto a tutti: “lui è il mio fidanzato”.
Mio padre ha riso, perché di solito i miei fidanzati durano quanto le statue nelle chiese del paese: ogni mese, qualcuno si fotte un piccolo Gesù Cristo o una santa Lucia senza occhi.
Alfredo mio non è un cristiano come gli altri, io lo chiamo il mio pulcino perché ha i capelli color cannella bruciata, sempre arruffati come piume, e perché quando facciamo l’amore lui non mi bacia, mi becca sulla bocca.
Tutti lo hanno amato fin dal primo momento, perché aiutava mio padre a sistemare la legna e ascoltava sempre gli sfoghi di mia madre. Ma quella che veramente ci moriva appresso, ad Alfredo mio, era nonna Muresta; a me lei, invece, aveva sempre fatto venire il vuommeco.
Mi impressionava ogni cosa di quella vecchia: il modo in cui succhiava il brodo di pollo dal cucchiaio, le calze nere che le comprimevano il grasso delle cosce, i capelli talmente bianchi da avere riflessi ocra, le rughe che le cucivano una ragnatela fittissima sul viso.
Quando ero piccola, nonna Muresta mi odiava: diceva che io ero il diavolo, che le avrei portato via mio padre e che facevo cadere i crocifissi dalle chiese. Una volta mamma aveva lavato per terra con tanta fatica, anche se non si sentiva bene. Nonna Muresta aveva camminato scalza nel corridoio, perché doveva andare in bagno: si era messa a fare tante ciampate sul pavimento tutto bagnato.
“Di chi è la colpa?” aveva chiesto papà, che era tornato dal lavoro.
“Io non ci colpo: è stata la criatura”: nonna Muresta si era grattata la testa e mi aveva indicata.
Papà aveva fatto quel gesto che faceva sempre quando gli venivano i malepensieri: si era sbottonato i pantaloni e si era sfilato la currea.
A me la currea faceva paura più dei mostri, più dei serpenti.
“Tua madre ha tossicato tutta la notte, si è messa in piedi giusto per pulire questa latrina di casa e tu ti permetti il lusso di fare la zozzosa. Voi mi fate finire al cimitero, a me”.
E papà si era tolto la currea, e quando si toglieva la currea papà diventava brutto, gli occhi gli diventavano neri e tosti come due olive ammaccate e cambiava pure la voce: la currea sulla schiena, sul culo, sulle cosce, me la sentivo dura come il ramo di un albero, chiudevo gli occhi e mi gustavo ogni schiaffo di cuoio trattenendo le lacrime, offrivo la carne a mio padre che me la illividiva tutta, e alla fine la mia pelle sembrava il manto striato di un animale.
In ogni striatura, io ci mettevo una goccia d’odio per lei, una lacrima calcificata per la vecchia, un urlo imbalsamato solo per nonna Muresta.
Mentre papà mi insegnava a campare con la currea, nonna Muresta quel giorno aveva sbadigliato e se ne era andata.
Io, in realtà, mi schifo anche di vederla mangiare.
Mi fa venire il ciglio di panza specialmente quando è San Vincenzo e mamma fa il pollo: nonna Muresta prende un pezzo di pollo, quasi sempre il collo, e inizia a rosicchiarlo con una faccia compiaciuta e tutto il suo muso si fa oleoso, come una che ha immerso la faccia nel grasso.
Di grasso puzzano anche le coperte di lana del suo letto, su cui mi costringeva a fare la pennichella quando ero piccola: lei si metteva a fissarmi mentre io dovevo stare sul letto immobile e in mutande, con la lana ruvida che mi pizzicava le gambe e mi sembrava di stare in un campo di erbe di montagna o di ortiche.
A nonna Muresta non piace nessuno, perché per lei sono tutti cornuti, zoccule e gente che la vuole fottere: dorme con tutti i soldi ficcati sotto il materasso e dice che se li porterà dentro il cappotto di legno, quando tra cent’anni schiatterà.
Tutte le nonne delle mie compagne avevano delle borsette belle assai, da cui le nipoti pescavano tanti spiccioli per comprare i gelati al bar della piazza. Le nonne delle mie compagne erano brave a cucinare le mulignane ‘mbuttunate, il sanguinaccio e i castagnacci: nonna Muresta, invece, non sa cuocere nemmeno un uovo. E quando mia madre cucina, nonna Muresta si fa sempre rifare il piatto: “Antuné, qua c’è un capello, fatti la coda prima di cucinare”; “Antuné il sugo di ‘sta pasta mi sa di acido”; “Antuné, quella carne dell’altra volta m’ha fatto venire pesantezza di stomaco”.
Le nonne delle mie compagne, il pomeriggio, si mettevano sulle scale a cucire i centrini e raccontare storie: nonna Muresta usciva solo quando moriva qualcuno, così poteva ridere del fatto che lei ancora una volta era riuscita a fare fessa la morte.
Manco il Padreterno la vuole, a nonna Muresta, così continua a starsene sempre nella stessa casa nella piazza del paese, come un ingombrante e maleodorante animale d’appartamento, perché i vecchi puzzano, non servono a niente, i vecchi mi fanno schifo quando vanno in bagno, e mi fanno schifo anche i lamenti che fanno per alzarsi, sedersi o andarsi a coricare. Mi fa schifo il fiato dei vecchi, più di tutto. Sa di cantine chiuse, carne di vitello andata a male e tenuta nel congelatore.
A nonna Muresta non piace nessuno, a nonna Muresta non piaccio io perché sono l’anticristo e quando sono nata lei ha pianto per un mese, perché le avrei portato via mio padre. A lei piace solo Alfredo, a nonna Muresta piace solo Alfredo mio.
La prima volta che ho portato Alfredo a casa di nonna Muresta, io mi vergognavo di portarcelo.
“No, ma pare brutto che non lo porti da tua nonna”, mi aveva detto mamma. ‘Pare brutto’, in Cilento, è l’unica misura che serve per campare. Allora ho preso Alfredo mio e l’ho fatto salire sulla piazza dell’orologio.
Abbiamo fatto una salita ripidissima e ci siamo ritrovati nel centro storico, che ci ha riservato il suo sorriso cattivo di pietra.
Sulla piazza c’era il solito cane zoppo, e sempre gli stessi bambini lo prendevano a calci e gli davano nomi diversi: quel giorno si chiamava Raffaele. Alfredo ha accarezzato Raffaele e gli ha sorriso.
Quando siamo entrati a casa di nonna Muresta, c’era odore di carne, cipolle e spezie, una zaffata che pareva morsicare le narici. Era ancora il tanfo della cena cucinata dall’ultima badante: anche quella era scappata, perché tutte le sue badanti, dopo due giorni, tornavano urgentemente da un marito malato in Romania.
Nonna se ne stava lì, vicino al caminetto spento.
Sul tavolo c’erano gli avanzi della cena: piatti sporchi, bicchieri pieni di acqua e molliche di pane, scorze di frutta.
Ancora mi sembra di vederla, nonna Muresta che mi ignora tutto il tempo. Non mi chiede mai come sto, se sto studiando all’università, che cosa sto combinando, non mi chiede mai se sono morta o viva. Quel giorno ha ficcato i suoi occhi in quelli di Alfredo mio e non li ha tolti più, non li ha tolti mai più.
“Vedi che ci sta una seggiola vicino al fuoco, vieni qua”.
Nonna Muresta parla al singolare, parla con gli occhi ficcati in quelli di Alfredo mio, sventola le mani grassocce e gli fa segno di mettersi vicino a lei.
Io non esisto mai per questa vecchia, sono un complemento d’arredo, sono tappezzeria, non c’è differenza tra me e il piatto di percoche che stanno avvizzendo sul davanzale.
“Sei il guaglione di mia nipote, non sei di qua?”
“Sono del Sannio” risponde Alfredo, perché lui è educato, risponde a tutti.
“E addo’ sta? Vicino Salierno?” Nonna Muresta si fa civetta e curiosa.
“No, provincia di Benevento”.
“E come ti trovi qua?” Nonna Muresta si avvicina alla seggiola di Alfredo.
“Io e Lucrezia ci siamo conosciuti su internet, su un sito per gli incontri, e l’unico modo per vederci è venire qua, stiamo lontani”.
“E lei non ci viene da te? A casa di mamma e papà tuo?”
Alfredo scuote la testa.
“No, la vengo a trovare io, o qua al paese o nella città in cui studia, che pure è lontana”.
“E tu non studi?”
“No”. Alfredo la guarda con certi occhi buoni.
Quando nonna Muresta parla con Alfredo cambia voce.
“A me non mi piacciono quelli con i capelli rossi, nove su dieci sono maligni”: nonna Muresta guarda Alfredo e gli tocca quelle piume rossicce da polletto ruspante, quelle piume sempre scompigliate che gli tocco io quando io e lui ci mettiamo nel letto. Ogni volta che Alfredo si ferma a casa nostra al paese, papà non lo fa mai dormire con me e dormiamo in due stanze diverse: lui però, verso le tre, ci viene lo stesso in camera mia, passa dal balcone. Alfredo si stende sulla mia brandina e mi becca sulle labbra, e io lo prego sempre di beccarmi ancora e ancora, sempre di più, e quando ha finito di beccarmi lui se ne esce sempre dal balcone, e io nel buio non sento niente, solo il fruscio di piume che Alfredo lascia dietro di sé.
“A me non mi piacciono quelli con i capelli rossi, ma a te ti stanno bene” e continua ad accarezzare le piume arruffate di Alfredo mio, e lui non dice niente, perché Alfredo mio è bravo e non dice mai di no a nessuno, né a me né agli altri, Alfredo è un pulcino docile, il pulcino più calmo di tutta la figliata del pollaio.
“Marcello mio pure teneva i capelli rossi, non ha fatto manco in tempo a farli diventare bianchi”.
Nonna Muresta è sempre triste quando parla di nonno Marcello, che è crepato giovane e io non ho mai visto; quando parla del marito, però, nonna Muresta diventa ancora più brutta, gli occhi si slargano e si fa lacrimosa e tutta gonfia in faccia.
Nonna Muresta continua ad accarezzare i capelli di Alfredo mio come se stesse impastando la pasta per fare i cavatielli: ravana tra le penne di Alfredo, ci fruga dentro, le sue dita grasse si muovono sul suo cuoio capelluto disegnando geometrie che conosce solo lei.
Quando nonna Muresta parla con lui, cambia voce.
“Bravo, si vede che hai patito, io li riconosco gli occhi di quelli che hanno patito, perché ne so qualcosa”.
Nonna Muresta di solito ci ha sempre una voce di tempesta, ma quando parla con Alfredo la sua lingua si arrotola in tanti ghirigori di aria e miele che me la fanno sembrare ancora più chiatta e vecchia.
Prende una percoca, se la sbuccia e inizia a morsicarci vicino.
“Ne vuoi nu picchia picchia?” chiede ad Alfredo.
Io, ovviamente, per nonna Muresta non esisto. Sento il tonfo dei suoi denti che sbattono contro l’osso della percoca: la sua eccitazione di trovarsi di fronte ad Alfredo mio sembra tutta condensata lì, in quel nocciolo che ha in bocca.
“Ho patito, ho patito e sapessi quanto ho patito”.
Nonna Muresta inizia a raccontargli tutti i fatti suoi, sempre con quella voce cambiata che non le ho mai sentito.
Lei ogni volta dice che è malata e che si stanca anche di parlare, ma vicino ad Alfredo la sua lingua va veloce, si allarga e diventa una tovaglia da sventolare, e dalla tovaglia cadono briciole che sono tutti i segreti e li cunti che racconta ad Alfredo mio.
“Lo sai dove stiamo qua? Stiamo vicino al fiume”: la sua voce si fa di zucchero e d’acqua quando gli racconta degli animali che nuotano nel fiume Calore, diventa voce di foresta quando gli racconta di quando lei da piccola raccoglieva i ricci di castagne e tornava a casa con le mani sanguinanti; si fa di legno quando le parla del sentiero di Fontefredda e delle vipere che dormono sotto i sassi bollenti.
“Io una volta facevo tutto, andavo girando e uccidevo li sierpi con le mani mie, ora mi hanno chiusa dentro ‘sta barracca e sto sola insieme ai cani del vico”.
Alfredo annuisce e ascolta, perché Alfredo non sa dire di no a nessuno e lo dicono tutti che Alfredo è educato e io non me lo devo fare scappare come ho fatto con gli altri, che mi hanno lasciata come una scema.
La voce di nonna Muresta si fa di flauto e tamburi quando gli racconta della sfilata di San Vincenzo, della processione che fa tremare le campagne: lei l’ha sempre fatta tutta, distribuendo vino e pane ai musicanti. La voce le diventa un materiale vischioso e umido quando gli parla della prima notte di nozze con nonno Marcello, e quando gli dice “teneva gli stessi capelli tuoi, uguali, gli stessi”, e allora là non ne posso più.
Sento un dolore sordo nel basso ventre, un nido di vespe proprio sotto la pancia, e allora abbraccio Alfredo da dietro e gli dico che ce ne dobbiamo andare perché io devo studiare.
“E tu ci devi andare a sturià. Mica Alfredo”. Nonna Muresta mi guarda con gli stessi occhi terribili e compiaciuti di quando a tavola rosicchia la carne di pollo.
“Alfredo vuole rimanere, è vero? Gli devo finire di raccontare li cunti, si vede che gli interessano”.
Nonna Muresta si aggiusta il cerchietto che le tiene a bada i capelli bianchi e sputa nel fazzoletto dove ha messo il nocciolo di pesca.
Alfredo rimane con lei, io torno a casa e faccio sempre la stessa strada.
La notte, verso le tre, Alfredo entra dal balcone e viene a stendersi sul mio letto. Io faccio finta di dormire: sento il fruscio delle sue piume, sento lo spostamento d’aria che solo i volatili come lui riescono a generare nella stanza. Si corica al mio fianco e fa ciò che fa sempre, inizia a beccarmi il collo, col becco umido: io me ne accorgo quando Alfredo ha il becco umido, perché sa di dentifricio alla menta. Mi becca sempre di più, con colpi di lingua e respiri che sanno di uovo e di nido, e io vorrei fare quello che faccio sempre: accarezzargli le piume, che tra le mie mani sembrano penne di brace incenerita, e salirgli sopra, a cavalcioni, come mi ha insegnato lui. Invece non faccio niente, le mie palpebre continuano a essere chiuse, le strizzo così tanto da vedere scintille e fiammelle gialle, e nel frattempo il becco di Alfredo, il mio pulcino, scende sempre di più. Indugia sull’ombelico, poi scende proprio lì, dove sento un bruciore, umido anche quello: devo ripassare tutte le mie forze per non saltare come le alici che guizzano nelle reti dei pescatori. Mi scappa soltanto un respiro più pesante, ma lui pensa che io stia russando e se ne va a dormire nella sua stanza.
Il giorno della Madonna del Granato, papà entra in cucina con certi stivali color cane bagnato e ci dice: “Nonna Muresta non sta bene da una settimana, e nessuno le ha portato nemmeno un acino di pasta al forno”.
Va a lavarsi la faccia, e con la barba ancora gocciolante ritorna a tavola e fa: “Perché giustamente qua ci sta il povero stronzo, che dopo una giornata a rompersi i reni deve pure salire fin sopra la piazza”. Si lava i denti e bestemmia sempre lo stesso santo, san Vincenzo, e a ogni bestemmia butta una spazzolata sugli incisivi.
Mio padre è brutto quando parla di nonna Muresta, invecchia e gli si fa il grugno da cane: “Tanto voi vi svegliate a mezzogiorno, e qua c’è pure chi si danna per farvi studiare lontano e pagarvi pure la casa là sopra, ma studiare di che?”
Alfredo è vicino a me, siamo seduti al tavolo del soggiorno in pigiama, con i libri aperti sempre sulla stessa pagina, mentre mamma sta controllando il forno dove ci sono i rigatoni, e in mano ha un pentolino pieno di gusci di uova sode.
“Una nonna ti è rimasta e non vai mai a vedere come sta, nessuno la pensa”. Papà si massaggia il cranio con un pettine a coda, e la coda del pettine traccia una riga affilata come la paura che ho di lui.
Quando papà parla di nonna, ad Alfredo tremano un po’ le piume, come se qualcuno gli avesse soffiato sulla testolina proprio là dove spunta la cresta.
Papà ha gli occhi rossi di quando vuole prendere la currèa, allora io e Alfredo ci mettiamo paura, saliamo in piazza e ci arriviamo col fiatone. La Madonna del Granato ha rigato di fiamme il cielo della Valle del Calore, lo ha maculato di fuochi d’artificio.
La porta di casa di nonna Muresta è soltanto accostata, non chiusa col catenaccio come sempre.
Raffaele, il cane della piazza, se ne sta da solo vicino a una bancarella di noccioline.
A casa di nonna c’è puzza di carne bollita, e nel lavello ci sono tanti piatti ammassati; lei è stesa sul divano, non ha il cerchietto in testa e si protegge la pancia con una coperta a quadri.
La finestra è spalancata ma non passa niente, l’aria rimane ferma e si posa sul muso di nonna Muresta, che si apre in una smorfia quando vede Alfredo mio.
“Vieni nu poco ‘ccà”.
Alfredo si siede vicino a lei, e gli occhi di nonna si accendono di una luce violenta e sinistra. Inizia ad accarezzarlo sulle penne, e Alfredo non le dice niente.
“Lo dicevo che eri nata con la cammisa, tu”. I suoi occhi si posano su di me e sulla camicia bianca che indosso.
“La vedi sta camicia che tieni?” e nonna Muresta la ripassa tutta con lo sguardo, dal colletto ai bottoncini, “la vedi? ‘sta camicia è fortunata”.
E torna a guardare Alfredo mio, ad allisciargli le piume, e Alfredo si fa allisciare, e Alfredo non dice niente a nonna Muresta, e allora nonna Muresta mi guarda e fa “Tutte ste fortune a te e manco te le sai tenere”.
E continua ad allisciare Alfredo mio, e io mi sento in bocca lo stesso sapore di metallo di quel giorno di tanti anni prima, che ero passata a trovare nonna Muresta una mattina di agosto e le avevo portato i peperoni fritti, fatti da mamma.
Quella mattina ci eravamo sedute al tavolo di plastica e ci eravamo messe a mangiare: a me nonna Muresta mi faceva schifo quando mangiava i peperoni fritti, e ogni tanto una mosca grande quanto una noce le andava a sbattere vicino al muso, e sembrava che mangiasse mosca e peperoni, e io non riuscivo a finirli perché lei mangiava, parlava e aveva il muso tutto lucido. Mi veniva da vomitare e fare pipì insieme, ma nonna Muresta mi aveva chiesto se potevo avvicinarmi un po’ di più a lei. Io mi ero avvicinata e lei aveva iniziato ad allisciarmi i capelli, a passarmi la mano tra le ciocche, a chiedermi “Ma perché non mangi?” e io mi ero lasciata allisciare i capelli da quella nonna enorme e piena d’olio. Non le avevo risposto, lei mi allisciava e mi diceva di mangiare, ma io avevo lasciato i peperoni nella vaschetta, galleggianti nel loro liquido.
Proprio mentre la sua mano mi stava allisciando, l’altra mano invece me la sentivo già sulla faccia, e in bocca non sentivo più il sapore terrigno del peperone fritto, ma quello di sangue e metallo.
“Tuo padre si rompe le ossa a cogliere ‘sta roba e tu fai pure la prelibata” e quella nonna immensa era sempre più vicina a me, tanto che potevo sentire il suo alito di fritto pesante.
Mentre mi diceva queste cose, i miei capelli erano ancora caldi della mano che mi aveva allisciata.
Nonna Muresta ora alliscia Alfredo, e io nelle narici sento ancora l’odore dei peperoni, sento una paura che mi si posa sulla nuca come una cosa fredda e gelata.
Continua ad allisciare Alfredo mio, e lui si fa allisciare, non dice niente.
“Che peccato che non stai qua” e nonna Muresta continua ad accarezzarlo, “ma quando te ne vai, è assai lontano qua da dove stai tu? E ogni quanto vieni?” nonna Muresta vuole sapere tutto.
“Quando Lucrezia non ha da fare gli esami là sopra e sta un po’ qua” Alfredo risponde sempre con educazione.
Nonna Muresta sospira forte: “Io non sto bòna, io patisco, vienimi a trovare più giorni”.
Continua a sospirare, a toccarsi la pancia, a muovere la coperta, e Alfredo non le dice niente, ha lo sguardo neutro.
“Vieni più giorni, così forse riesco a sanare”. Nonna Muresta ha un rantolo nella voce, che io non riesco a riconoscere.
Si fa tardi: nonna continua a stare sul divano, lamentandosi sempre di più e parlando da sola. Mi rivolge la parola soltanto quando io sono sul ciglio della porta.
“Una cosa ti domando: me lo porti ‘cchiù spesso?” la voce di nonna Muresta è un altro rantolo nuovo, che non ha mai avuto. Un rantolo di caverna e di montagna.
Quella notte sono io a chiedere ad Alfredo di venire nel mio letto: sono io a domandarglielo e a farcelo venire di forza.
Gli chiedo di beccarmi sulla fronte e di disegnarmi le labbra con tanti piccoli colpi di becco. Gli stringo le piume e gli spingo la testa giù, sempre più giù, dove può beccarmi meglio. Gli chiedo di continuare a beccarmi, finché non sento quel calore freddo e crudele che mi parte dall’ombelico e poi mi pulsa tra le cosce, quel groviglio di nervi che mi fa tremare, dimenare e contorcere come le seppie vive che stanno ai banchetti del porto di Acciaroli. Poi Alfredo smette di beccarmi, e torna ad aggiustarsi le penne, e il suo becco si apre timidamente, una corolla di un fiore carnoso che mi mostra il suo sorriso da animale e bambino, e quel sorriso mi fa male perché quel sorriso è l’unica cosa che può sanare nonna Muresta. Lui esce dal balcone, come sempre, e torna nel suo letto.
Il giorno dopo gli dico che lo lascio e che deve fare la valigia.
Non ci dobbiamo vedere più, voglio tornare nella città in cui studio e starci fino a Natale.
Lo sguardo di Alfredo, quando glielo dico, è lo stesso del tordo colpito dal cacciatore: in quello sguardo morbido e triste io ci nuoto per tutti i mesi che passo dopo averlo lasciato.
I mesi che trascorro là sopra sono granelli di sabbia, mi si ficcano nei vestiti e nelle mutande, sono mesi fastidiosi e piatti: mentre studio diritto romano, le fonti, la Costituzione, io continuo a nuotare in quello sguardo volatile, che mi fa pensare alle cortecce degli alberi, alle piume, ai nidi e alla testolina dei pulcini, e di notte mi giro tra le coperte e penso al becco di Alfredo mio e mi viene una confusione di sentimenti disordinati in testa, che alla fine si allineano e si sciolgono sempre in un pianto ridicolo. Però poi penso a nonna Muresta che sta sul divano, che adesso non vede più Alfredo suo e non può sanare, e sento un chiodo di piacere che mi pulsa in petto, metallico e affilato. Cullata dal ticchettio di quel chiodo, mi addormento ogni notte, pensando a nonna che non è sana e non può più sanare.
Da casa mamma mi chiama sempre dicendo che nonna Muresta non sta bene, che non vuole manco andare all’ospedale, perché dice che là i medici la fanno morire per fottersi i soldi che ha stipato sotto il materasso, dice che vuole morire in casa e farsi dire la messa con la banda musicale, per comandare la processione pure chiusa nel cappotto di legno.
Mamma mi chiede sempre “Ma quando ti ritiri a casa?” e io le dico sempre che devo studiare.
“Ma nonna Muresta non sta bene, è la volta buona che si fa il viaggio”.
Io non rispondo mai, e riesco solo a pensare a come sarà il tavùto di nonna Muresta, mi chiedo se gli schiattamuorti riusciranno a farcela entrare tutta, perché è chiatta e ingombrante, e se i vermi la mangeranno oppure se anche scapperanno.
Una mattina di inizio dicembre, intorno all’Immacolata, prendo il treno dalla città in cui studio, perché forse nonna Muresta sta finendo. “Ha fatto le unghie viola”, mi aveva detto mamma, “quelle le fanno solo quelli che stanno per morire”.
Allora mi metto sul treno almeno per salutare nonna Muresta per l’ultima volta e dirle: arrivederci e statti bòna.
Arrivo a casa mia e non c’è nessuno: sul tavolo ci sono ancora i piatti e i bicchieri.
Salgo sulla piazza di nonna Muresta e non c’è manco il cane Raffaele. Il vicolo di nonna è pieno di vecchie tutte uguali con le facce arcigne, e io penso che sono tutte lì per la morta, anche se di fronte casa non vedo nessun manifesto.
Mi faccio spazio tra le figurine nere di vecchie ammassate: nessuna di loro mi vede.
Entro in casa, mi aspetto di trovare nonna Muresta morta o ormai sul punto di schiattare: invece è sul letto, fresca e tosta come una palomma.
Mi avvicino per salutarla: non puzza nemmeno, ha i capelli che odorano di borotalco e le rughe sembrano più armoniche e ordinate sulla faccia, una geometria nuova.
“Niente di meno sei venuta qua” mi dice con una crudeltà allegra negli occhi.
Esco dalla casa e vado ad accendermi una sigaretta, nascosta dietro le scale del vicolo. Faccio tiri lunghi, di sei secondi ognuno.
Il gruppo di vecchie tutte uguali è ancora piazzato davanti alla porta della morta che non è morta più, e mentre parlano fanno un ronzio che arriva fino alle scale.
“Eh ma quella la davano per finita già da giovedì scorso” dice una vecchia con gli occhi azzurri.
“Sì ma vedi che stavano facendo già il manifesto, io l’ho visto nel negozio di fiori, MODESTA MAIURI, proprio così, perché veramente dicevano che era questione di momenti” risponde un’altra vecchia uguale alla prima, solo con gli occhi nascosti dagli occhiali di tartaruga.
Un’altra vecchia si infila nel discorso: “Ma vedete che quella moriva veramente, se non si metteva vicino quel giovane, notte e giorno”.
“Ma meglio lui che quelle badanti straniere che se ne scappavano sempre” gli occhi azzurri della prima vecchia si accendono “Ma chi è questo giovane? Non vorrei dire ma io già l’avevo visto”.
“Faceva l’amore con la nipote di Muresta, ma quella è sprucida e lo ha lasciato, il ragazzo è bravo ed è forestiero, viene da una parte lontana” risponde dal nulla una vecchia con un neo sul mento.
“Però ha fatto bene Muresta a metterselo ad abitare con lei: da che sembrava che stava morendo, adesso sta come un tuono”. La prima vecchia si aggiusta i capelli grigi.
“Ma questo è: i nipoti non sono quelli di sangue, sono quelli che ti aiutano e ti stanno vicino”. Chiude il discorso la vecchia con gli occhiali di tartaruga.
Rientro in casa di nonna e devo mantenermi alla porta per non cadere, quando vedo le piume da pulcino di Alfredo mio che sbucano dal bagno.
Si china su nonna Muresta che è distesa sul letto: lei gli accarezza il viso con tutto l’amore che non le ho mai visto, e lui le becca le mani.
Esco fuori e mi accendo un’altra sigaretta.
Le vecchie stavolta mi vedono, si fanno da parte e mi fanno passare.