La porta è socchiusa: la primavera resta fuori. Lascio l’impermeabile all’ingresso, sul bracciolo del divano nero in pelle. La stanza avrebbe molta luce, se le tende non fossero tirate sulle finestre.
Tuo figlio passa sotto gli occhi del ritratto di donna appeso alla parete, tenendo in mano una copia de I paradisi artificiali. Tu appari poco dopo, scendendo le scale del piano superiore. Sul tavolo c’è un vaso pieno di fiori, che perfeziona la posa assunta dal soggiorno.
Sediamo nella cucina già avvolta dalla semioscurità. Accendi il bollitore, dalla credenza prendi la tazza decorata con i versi di Shelley: può la primavera essere lontana? Sul tavolo una confezione di pasticceria imita una forma di dolcezza. Se la vergogna avesse una forma, per me sarebbe quella dei miei seni. È per questo che tu, amore, hai seni piccolissimi, e la tua schiena è quella di un cavaliere in una miniatura medievale. Una volta al mese circa, come oggi, scendo dal treno quattro stazioni prima della mia per venire ad ascoltare un tuo monologo. Se mi dicessi che non ti va, non verrei più. Ma non lo fai, compri invece i miei pasticcini preferiti: quelli con le fragole.
Guardo il tuo caschetto accompagnare la teatralità delle parole. Anche oggi spieghi cosa sia la leggerezza. Nomini la favola di Amore e Psiche con un tono che ti dona. Dici cose che già so, parli come a una bambina: te stessa, bambina, alla mia età. Il rossetto sulle mie labbra cerca di dirti che non sono più quella di prima, ma tu non sembri farci caso. Hai un marito morto e un nuovo finto amore, io un ragazzo fragile e lunare. Di nuovo ti siedi, questa volta non di fronte, ma di lato a me. Incrocio le gambe per convincerti di essere a mio agio. Il pomeriggio scorre identico a tutti gli altri pomeriggi in cui vengo a farti visita: c’è il tè alla vaniglia, ci sono i consigli su come sarebbe meglio vivere, ecc.
Oggi, però, portando una fragola alla bocca, dici di esserti accorta del mio amore sin da subito. Potrei rispondere che quel subito ha più di sette anni, ma rimango in silenzio. L’amore per la prima volta detto a voce alta galleggia tra il tavolo e il lavello, più reale della tazza in cui stai versando il tè. La cucina rivela il suo aspetto di laguna. Piccoli esseri subacquei hanno iniziato a pizzicarci i piedi.
Tre piani sotto di noi c’è un parcheggio collegato con le scale alla tua villa. Un giorno eri venuta a prendermi in biblioteca con la macchina, e, scesa nel garage, per la prima volta avevo respirato l’aria in cui tuo marito si era ucciso. Avevo amato così tanto quel breve passaggio in macchina. Era la dimostrazione oggettiva del fatto che forse un po’ mi amavi. Mi avevi chiesto di preparare insieme una lezione di poesia. Nel tuo studio riconoscevo tanti oggetti che negli anni ti avevo regalato. Mentre cercavo cose intelligenti da dire, questi oggetti splendevano nel buio come rivelazioni in una lingua straniera.
Siamo in piedi e ci guardiamo: io ho esaurito le parole, tu ne hai troppe. “Anche a me è capitato”, dici, “anche io mi sono innamorata di una donna, una volta”. Il tuo sorriso, al tatto, darebbe l’impressione di un tessuto sintetico. La donna amata sono io e non sono io, come il gatto nella scatola è vivo e morto insieme. So che è il momento giusto per baciarti – l’unico che esiste – e anche tu sembri saperlo.
Lo studio, la cucina si confondono nell’aria toccata dal sale delle grotte. I fiori stanno a guardare, non disfano la posa. Ogni cosa è sul punto di succedere o non succedere mai più. Invece di baciarti, ti chiedo un bicchiere d’acqua.