In una sera di settembre rincasai dal lavoro in anticipo. A quei tempi ero sposato, vivevo con mia moglie in una zona residenziale alla periferia della nostra piccola città.
Lucia generalmente rientrava a casa prima di me, intorno alle sei e mezzo, io arrivavo almeno un’ora dopo; a quei tempi ero un avvocato e al mio studio non si finiva mai presto di sbrigare le pratiche. Quel pomeriggio, con grande stupore di tutti, per le cinque eravamo tutti liberi. Avevo deciso di non avvisare Lucia, avrei preparato io la cena con tutto ciò che fossi riuscito a trovare in frigorifero. Appena rientrato, senza neanche sfilarmi la giacca, andai in cucina per vedere di arrangiare la cena e lo vidi. Era un vassoio rotondo, sistemato sul tavolo, con accanto una busta bianca. Sopra il vassoio, impilate una sull’altra, polpette, tante polpette, come a formare una piramide. Rimasi a guardarle. Polpette. Una piramide di polpette. Da dove arrivavano? Mi ricordai del biglietto. Era stato scritto a mano con una grafia tondeggiante: “Sperando che vi piacciano, i vostri nuovi vicini Carlo e Angela”.
Non li avevo mai incontrati. Non mi era chiaro in che modo le polpette fossero giunte fino al tavolo della nostra cucina. Mia moglie, al mattino, era uscita prima di me, l’ospedale dove lavorava come infermiera si trovava a mezz’ora dalla città, non le era possibile tornare a casa per pranzo, e nessun altro eccetto noi due aveva le chiavi di casa. Poi sentii un filo di vento tra i capelli e solo allora mi resi conto che la grande finestra della cucina era spalancata. Dal giardino non doveva essere difficile entrare, ma non ci era mai capitato che qualcuno lo facesse. Mi ero guardato attorno mentre l’idea di non essere solo si affacciava alla mia mente per la prima volta. Dopo una breve ispezione, fui certo che non ci fosse nessuno. Ogni cosa era al suo posto, nulla era stato sottratto, solo qualcosa era stato aggiunto: una piramide di polpette. Le avevo esaminate da vicino: l’aspetto era invitante, il profumo anche, con ogni probabilità contenevano carne, prezzemolo e forse patate, le toccai, erano ancora tiepide. Presi in mano la polpetta che era in cima, la soppesai, la assaggiai con un morso furtivo. Ero stanco, affamato, e quel ripieno delizioso e caldo in bocca fu una manna. In cinque minuti avevo divorato sei polpette, ma ne restavano molte altre, almeno una ventina, valutai nel tentativo di attenuare il vago senso di vergogna che sentivo farsi strada dentro di me. Oltre a quella, avvertii il desiderio di ringraziare Carlo e Angela del regalo di buon vicinato, ero pronto a perdonare la maniera poco ortodossa in cui ci era stato consegnato. Intanto, però, si erano fatte le sei e non mancava molto al rientro di Lucia. Non volevo farmi trovare così, con le mani in mano, l’unica volta in cui avevo avuto il tempo di preparare la cena. Aprii il frigorifero e lo trovai quasi vuoto, salvo una busta d’insalata piena per metà, tenuta chiusa con una molletta e una scatoletta di latta il cui aspetto mi era nuovo. Esaminai speranzoso la scatoletta, scoprii che si trattava di cibo per gatti. Che strano! Io e Lucia non avevamo animali domestici. Doveva averlo comprato lei per errore, scambiandolo per paté. Anche se di marca prestigiosa, comunque, il cibo per gatti non risolveva il mio problema. Non avrei assolutamente fatto in tempo ad andare e tornare dal supermercato. Guardai la piramide. In fondo, tre anni prima, quando avevo appena conosciuto Lucia e ci tenevo a impressionarla, le avevo cucinato delle polpette; non erano rotonde come queste ma oblunghe, e la panatura non era così perfetta – qualcuna si era anche bruciacchiata, ma questo non avrebbe fatto nessuna differenza, ora. Avevo deciso. Estrassi la padella più grande che avevamo e ci ripassai dentro alcune polpette, per ungerla bene; feci per toglierle ma poi decisi che l’ultima mandata potevo anche averla lasciata là e la coprii con un coperchio, posizionai le altre in una zuppiera di ceramica. Rimaneva da far sparire il vassoio rotondo. Era troppo grande per essere infilato in uno dei cassettoni della cucina. Cercai di pensare velocemente, ma mentre lo facevo sentii il rumore della chiave nella toppa: pure lei stava rientrando in anticipo! Colto dal panico, afferrai il vassoio e lo scaraventai fuori dalla finestra, in giardino. Lo sentii atterrare sull’erba.
Sull’onda dell’entusiasmo per le polpette, avevamo apparecchiato insieme e dopo aver stappato una bottiglia di vino rosso ci eravamo riempiti due calici. Avevamo brindato ai ritorni in anticipo e per un paio d’ore eravamo finiti a bere e a parlare, e, tra una polpetta e l’altra, avevamo stappato anche una seconda bottiglia. Non cenavamo assieme così spensierati da un pezzo. Lucia non lo sapeva, ma era merito dei nostri vicini. Ciò nonostante, il mattino dopo uscii di fretta e non andai a cercarli per ringraziarli del regalo, in seguito me ne dimenticai del tutto.
Qualche tempo dopo, Lucia si svegliò in preda a una nausea mai provata prima. Eravamo felici e spaesati, dopo tanti tentativi andati a vuoto negli anni passati avevamo smesso di credere che fosse possibile ma quella mattina, non saprei dire perché, capimmo subito che la nostra vita stava per cambiare, che aspettavamo un figlio. Una volta confermato, cominciammo a prepararci all’idea. La casa andava sistemata, su questo non c’erano dubbi. La guardavamo, ora, con occhi diversi. Ecco che là dove, un tempo, c’era un semplice tavolino di vetro adesso vedevamo una minaccia di morte per la nostra discendenza, per la prima volta ci rimproveravamo a vicenda cose come l’eccessiva altezza dei gradini delle scale. Ma per la maggior parte del tempo non facevamo che festeggiare l’imminente nuovo arrivo con acquisti sconsiderati. Comprammo un’amaca e l’appendemmo in giardino, tra i nostri due faggi. Lucia vi si appollaiò dentro, vi si dondolò felice, e da quel momento in poi, rientrando in casa, sapevo che l’avrei trovata lì ad aspettarmi.
Un giorno, era ormai incinta di quasi quattro mesi, mentre si dondolava immersa nella lettura di Grandi speranze aveva udito un fievole miagolio. Si era guardata intorno in cerca di un gattino ma non ne aveva visto nessuno. Che fosse più lontano? Un secondo miagolio, più forte, le aveva fatto escludere questa possibilità. Ma allora dov’era? Scesa dall’amaca, si stava chinando per guardarci sotto quando lo aveva udito di nuovo, ancora più nitido. Era vicino alla sua testa! Eppure c’erano soltanto l’amaca, i due faggi, il suo libro. Per un attimo le era venuto in mente che il miagolio provenisse dalla sua pancia. Aveva avuto un brivido, poi aveva deciso di entrare in casa e farsi un tè.
Fu solo quando al parto mancavano ormai pochi giorni che vennero a trovarci. Carlo e Angela erano una coppia sulla sessantina, lui magrolino, lei rotondetta. Suonarono il campanello una domenica pomeriggio, senza addurre un motivo specifico per la visita, e nessuno di noi due riuscì a inventare una scusa per non farli entrare. Amavano scherzare, fare una battuta e poi riderne, riderne molto. Fu solo dopo un paio d’ore e un’abbondante merenda che lei tirò fuori un pacchetto dalla borsa. Era un regalo per noi. Lucia lo scartò subito. Dentro c’era un collarino per gatti, con una medaglietta che poteva essere personalizzata con un’incisione. Per qualche istante nessuno parlò, poi Lucia fece presente che noi non avevamo gatti. Carlo e Angela sorrisero entrambi, con dolcezza, e si congedarono da noi con una certa fretta. Una volta che se ne furono andati, ridemmo a lungo di quel pomeriggio, del collare, dei due strani personaggi che avevamo appena acquisito come vicini. La complicità tra noi fu enorme, in quei momenti. Non feci menzione del fatto che avevo già letto i loro nomi mesi addietro, su quel biglietto che accompagnava le polpette.
Le doglie arrivarono in una fresca notte di giugno. Ci trovarono sereni: tutta la gravidanza era andata avanti senza intoppi. La valigia era già pronta e mi preparavo a portare Lucia in ospedale, il tempo di fare pipì, disse lei, e saremmo partiti. Andò in bagno lasciando la porta accostata. Dopo qualche minuto, non vedendola tornare, mi avvicinai e con cautela l’aprii. Lucia era sdraiata sul tappetino del bagno e sorrideva osservando i quattro gattini grigi che si azzuffavano, attaccandosi a turno al suo seno.