Vista dall’alto, l’isola di Schiermonnikoog ha la forma di un pesce morente, uno scheletro marino che allunga la frontiera del paese verso nord.
Ci andai un giorno di luglio, da solo, per pagare un pegno con una mia amica, una performance artist che aveva l’ossessione di manipolare in senso creativo le vite degli altri tramite piccoli compiti, parte di un disegno artistico che spesso faticavamo a comprendere.
A me venne chiesto di recarmi sull’isola in piena solitudine e con il solo ausilio di una guida turistica in giapponese che mi procurò lei stessa.
Raggiunsi quel lembo di terra viaggiando in treno fino a Groningen, poi presi un autobus per il porto di Lauwersoog da dove parte l’unico traghetto diretto all’isola. Il livello dell’acqua marina era appena sufficiente per permettere la navigazione. Giunto sulla terraferma mi sistemai in un campeggio: presi un letto all’interno di una camerata, una struttura di legno priva dei servizi igienici ma con tutte quelle comodità che gli olandesi sono in grado di ricavarsi in condizioni di necessità. Non era un posto molto ospitale, però mi piaceva l’odore che veniva dalla campagna e allora mi stesi sul mio letto e con le mani dietro la nuca guardai la luce bianca naturale che filtrava dalle intelaiature di legno del tetto, mentre da lontano si sentiva un coro ipnotico di bambini e bambine che gioivano per il contatto con la terra e gli animali, il mare e le strade libere dalle automobili.
Uscendo dalla struttura e imboccando la via del mare si raggiungeva un ristorante con dehors, lì ordinai un sandwich con aringa, cetrioli e cipolle, e poi una birra che bevvi guardando il mare grigio a cento metri dalla spiaggia. Tenevo la mia guida in giapponese sulle gambe sotto il tavolo; ma cosa stavo facendo? La mia amica, prima di partire, mi disse che quell’esperienza mi avrebbe aiutato a sviluppare la parte più estroversa di me e credo che ci fosse pure un significato archetipico dietro al fatto di viaggiare su un’isola.
Intorno c’erano perlopiù famiglie, gruppi di boy-scout e anziani che sembravano tedeschi anche se a volte davano la sensazione di parlare il vecchio frisone. Quando arrivò il piatto e incominciai a mangiare, non volendo richiamai l’attenzione di due bambine e un marmocchio che presero a girare intorno al mio tavolo. Il loro mulinare molesto mi infastidii un po’ e dopo che diedi il primo morso al sandwich la bambina mi disse qualcosa, poggiando timidamente le manine sulla tavola, e quando le dissi che non avevo capito quelli iniziarono a ridere per poi nascondersi dietro gli schienali delle sedie che avevo libere di fronte a me. Pensai che si fossero accorti della mia guida in giapponese che prontamente nascosi tra le gambe, ma poi capii che non era quello che destava in loro curiosità e allora domandai con dolcezza di ripetermi cosa aveva detto un minuto prima. «Perché sei qui?» chiese trattandomi come uno stupido e non come uno straniero. Era una domanda molto complessa. Non ebbi la prontezza di inventare una storiella e mi guardai intorno ponendomi la stessa domanda: che cosa ci faccio qui? Perché sono da solo in un posto per famiglie?
Quando la cameriera venne a portarmi il conto le chiesi a che ora facesse buio, mi disse che c’erano almeno altri cinquanta minuti di luce e poi mi pose una domanda che mi fece trasalire:
«Perché non controlli sulla tua guida?»
Ma come l’aveva vista?
Pagai e andai via, mi incamminai su un sentiero che lambiva la spiaggia e prima di inoltrarmi nella natura mi girai per dare un ultimo sguardo alla cameriera, si chiamava Flavia e la osservai mentre con passo un poco dinoccolato si muoveva tra i tavoli. Era una ragazza della mia età, forse più grande, corpulenta e irriverente, poco incline ai formalismi a cui mi avevano abituato i suoi connazionali. Il fatto che avesse un nome latino la rese ai miei occhi più simpatica di quello che doveva essere, poi quando arrivai nei pressi della torre rossa che ospita il faro – credo l’unica attrazione dell’isola – misi la mano all’interno del giubbotto e realizzai di aver dimenticato al ristorante la mia guida turistica in giapponese. Me ne rammaricai come se avessi avuto la possibilità di consultarla o forse mi mise a disagio l’idea di ritornare da Flavia e chiederle se avesse trovato un libro dove ero seduto io. Per quella sera lasciai perdere e feci il giro lungo che attraverso il centro abitato mi riportava nel campeggio: all’indomani avrei pranzato nello stesso ristorante, si chiamava Noorderlicht che credo si possa tradurre con “Aurora Boreale”, e avrei chiesto della mia guida.
Al mattino fui svegliato dalla stessa rapsodia del giorno prima, un coro di bambine e bambini che cantavano lalalala mooi op de camping, mooi op de camping.
Provai a dissimulare il disagio dando il buongiorno a tutti, poi mi andai a lavare i denti nei bagni all’esterno ma una domanda ancora mi assillava, la stessa che mi aveva fatto la bambina la sera prima: che cosa ci faccio qui?
Erano le otto e faceva quasi caldo, anziché dirigermi verso la spiaggia andai in direzione del centro abitato e mi fermai in un bar dove feci colazione con un pezzo di torta alle mele e un caffè lungo che mi bruciò il palato. Quando mi alzai decisi di camminare nella direzione da cui ero venuto il giorno prima, feci due chilometri lungo una strada dritta finché non vidi i frangiflutti del porticciolo. A quel punto ritornai indietro, non noleggiai una bicicletta perché il pomeriggio stesso avrei preso il traghetto per poi trascorrere la notte a Groningen, città che aveva da sempre esercitato un grande fascino su di me per ragioni che volevo scoprire. Era presto per pranzare ma la camminata mi aveva messo un gran appetito, pensai allora di andare all’Aurora Boreale dove magari oltre a mangiare avrei recuperato la mia guida in giapponese. Trovai posto senza problemi, anche se il dehors era già pieno di gente che mangiava Bitterballen e patatine e beveva birra da lunghi boccali ghiacciati. Flavia arrivò più tardi, quando avevo già il piatto a tavola. Ordinai una frittata con insalata e da bere una birra alla spina. Non ci fu nemmeno bisogno che le chiedessi, dopo essersi cambiata venne da me con la guida in mano. «Questa è tua?» Aveva un viso più tenero della sera prima e una bandana verde in testa come tutti i componenti dello staff. «Certo che è mia, è il regalo di un’amica!», risposi fingendo una certa sicurezza perché avevo il bisogno di nascondere il disagio che mi procurava quella solitudine, sebbene fosse “creativamente pilotata” come avrebbe detto la mia amica. Quando ebbi finito Flavia venne a domandarmi se gradissi qualche altra cosa, se parlassi il giapponese e che strana storia era quella della guida. «I miei amici sono ossessionati dal conformismo: non sanno più come combatterlo!», risposi, dandomi un tono da uomo misterioso, abitante della metropoli perso sull’isola dei monaci grigi. Flavia mi offrì allora una birra e quando le concessero la pausa venne a sedersi accanto a me. Mi raccontò che era originaria dell’isola e che stava pensando di tornarci a vivere tutto l’anno. Novanta dei novecento abitanti erano suoi parenti e la famiglia possedeva anche un maneggio.
«Vuoi che ti ci porti? È un posto bellissimo!»
«Prendo il traghetto delle 16 e 50 e non credo di avere tempo, ma forse c’è una cosa che puoi fare per me».
Alle quattro e venti Flavia si fece trovare puntuale all’ingresso del campeggio. Mi avrebbe accompagnato al porto con una bicicletta rossa, dal telaio forte e con le gomme nuove. Mi accomodai dietro, con le gambe unite all’esterno, mentre pedalava riprendemmo la conversazione interrotta due ore prima. «E quindi sei venuto qua senza sapere bene perché…», «Esatto, diciamo che è stata una scommessa, un gioco!» Cingevo il suo bacino per tenermi in equilibrio sulla bici. Da quella posizione potetti apprezzare ancora meglio la muscolatura di Flavia, le gambe possenti e le spalle larghe, forse un po’ sgraziate, che stridevano con il sorriso pulito e gli occhi castani. Aveva il viso leggermente quadrato, i capelli biondi e corti, e quando la bici tremava io per istinto allungavo la mano destra sul femore o quella sinistra sul fianco, poi arrivò una raffica di vento e Flavia per pedalare si alzò quel tanto che bastava dal sellino per sfiorarmi il naso con le natiche, e lo capii solo quando arrivammo a destinazione che tutto ciò che avevamo fatto dalla sera prima aveva l’obiettivo di creare situazioni accidentali dove ci saremmo potuti toccare, come all’Aurora Boreale dove con il gomito le toccai il seno con la scusa di aiutare a sparecchiare. Il traghetto si trovava già lì, bianco e con il culo grosso, con i passeggeri che salivano ordinati e contenti. Flavia mi disse che la prossima volta che sarei andato sull’isola avrei dovuto indossare una giacca a vento come la sua e non una “da professore” come quella che portavo quei giorni. Dopo che mi disse quella cosa le presi il mento con le mani e le diedi un bacio sulle labbra. Lei restò immobile, quasi si ritirò, poi prese a baciarmi con tutta la veemenza di cui era capace: mi mise addirittura una mano nei pantaloni con il rischio concreto che qualche parente – un decimo degli abitanti dell’isola – la vedesse. Al commiato avevamo tutti e due un’aria malinconica, come se fossimo già troppo grandi per illuderci e troppo giovani per non pensarci: numeri di telefono, cartoline, bici, moto, treni, letti e campagne: il mare.
A Groningen trascorsi la notte in un ostello della gioventù. Una coppia di canadesi mi invitò ad andare con loro nel jazz club più importante della città ma io respinsi l’invito dicendo che ero stanco e rimasi tutta la sera a guardare il soffitto e a pensare a Flavia.
Provai una nostalgia immensa per quell’isola che conoscevo appena. Ripensavo al momento in cui Flavia spuntò da dietro le dune sulla bici e fantasticavo su come saremmo sembrati visti dall’alto, ripresi da una telecamera o un drone, due sconosciuti che provano a sfiorarsi e una strana guida in lingua giapponese che fa da canovaccio.