Dedicato all’imperatore Adriano,
ad Antinoo
e soprattutto
a Marguerite Yourcenar.
Camminando per la riva del fiume lo si può vedere.
Bisogna andare da quelle parti preferibilmente la mattina presto, verso l’alba, oppure poco prima del tramonto. Ma queste sono solo indicazioni generali: il più delle volte bisogna essere giusto un po’ fortunati, perché lui ha perso tutte le abitudini e non conosce più il significato del giorno o della notte, o del trascorrere delle ore.
Visto da lontano è un corpo eretto che emerge, senza rumore, confuso nel verde di alberi e alghe. Chi osa avvicinarsi, già dopo pochi passi può intravedere la stanchezza sulla pelle dei suoi occhi, la curva rassegnata della schiena, il grigiore di capelli che un tempo furono vivaci e morbidi sotto le carezze dell’imperatore. La cosa più dolorosa è notare la pigrizia senile delle sue gambe, che una volta corsero per campi asiatici e limpide rive. Adesso quelle stesse gambe si trascinano. Ogni tanto scricchiolano; e ogni scricchiolio è un monito, o un fatale ricordo.
Il suo sguardo è amaro e vuoto. Come biasimarlo? Quegli occhi videro tigri, elefanti e altri animali esotici; generali e soldati così forti che potevano sollevare le loro spade con un solo veloce movimento, e marciare e correre nelle loro armature senza stancarsi; schiavi di ebano con gli occhi e i denti bianchissimi, ancelle così eteree che non si sapeva mai con certezza se le si fosse vedute davvero, o solo sognate; e filosofi dibattere, gladiatori lottare, meretrici commerciare, commercianti banchettare. Quei suoi occhi videro Roma quando era Roma, la meraviglia più grande che mai fu veduta. Poi trascorsero anni, secoli e calendari, guerre, monarchie e divinità: un progressivo sgretolarsi di idee e significati, culminato in una bruttezza perpetua.
Sebbene disprezzi e condanni gli artefici di tale degenerazione – gli uomini! – a chi ha la fortuna di vederlo, oggi, lui concede il racconto del suo secolare dolore.
«Sono Antinoo» si presenta, dimentico per un attimo del tremore di arti e mandibola. «Io sono colui che vide il grande impero, e vivo ancora».
Ad Antinoo piace parlare. Del resto, non gli era stata negata proprio la parola in gioventú? Era Adriano quello che parlava, nei comizi pubblici o nei momenti privati. Adriano parlava, imitando i grandi retori, di strategie militari e azioni politiche che il povero Antinoo non comprendeva. Nelle notti d’estate, quando passeggiavano per i giardini della villa, oppure uscivano a cavallo per consolarsi dall’afa, Adriano declamava i versi dei poeti e gli parlava di sentimenti e passioni erotiche, per impressionarlo. Quando tornava dalle marce con l’esercito, tutto sudato e impolverato, Adriano gli chiedeva di slacciargli i sandali e di lavarlo, e nel frattempo parlava, parlava, parlava. Oppure, se era troppo stanco, se ne stava muto e assorto ad accarezzargli i capelli e, prima di crollare addormentato, gli sussurrava: «Antinoo, mio amico, mio compagno, vieni qui, abbracciami. Ma taci, ti prego, taci!»
Quelle poche volte che, per noia o curiosità, Antinoo si era recato ai bagni per concedersi ad altri uomini, questi prima lo avevano stretto con focosa passione e poi lasciato frettolosamente, senza un ultimo bacio, senza neanche chiedergli il nome.
Nessuno gli aveva mai chiesto la sua opinione. Era stato così da sempre: era cresciuto bello come una statua e muto come una statua. In questa condizione di mutismo forzato, Antinoo non aveva mai potuto esprimere i suoi desideri, né scegliere per se stesso. Lo aveva scelto lui, di diventare un atleta? No! Fu sua madre che, quando lui ancora beveva il latte di asina caldo appena munto, gli ripeteva: «Hai proprio un bel faccino da idiota, però guarda che belle gambe che t’ho fatto. A che altro servi se non per correre, prendere parte ai giuochi e vincere? Un futuro da medico o avvocato, per te, proprio non lo vedo. Dovessi fare il bottegaio saresti capace di farti rubare pure le imposte del negozio. No, figliolo, no: a te conviene correre e nient’altro. Corri, Antinoo! Corri e taci! Fa’ un favore a te stesso e taci!»
Lo aveva scelto lui di diventare l’amico dell’imperatore Adriano? Ma no! Fu l’imperatore, ossessionato com’era dall’armonia delle proporzioni, che un giorno lo vide, lo volle e ovviamente lo ottenne.
E, per andare all’origine di tutto, aveva scelto lui quel corpo così agile, quelle gambe snelle e glabre, quella pelle così liscia? Ovvio che no! Se qualcuno gliel’avesse chiesto, lui avrebbe risposto che avrebbe preferito la barba, il petto villoso, la voce più scura, il volto più bruno. Ma tanto, nessuno gli aveva chiesto mai niente.
Così ora, anche se il suo racconto gli riporta alla mente ricordi insostenibili, anche se chi lo ascolta vorrebbe gridargli perdono per la malvagità e l’ipocrisia degli uomini, anche se lui stesso non perdonerà più nessun uomo per l’eternità, Antinoo il vecchissimo parla a chiunque voglia ascoltarlo. Si dice che sentire la sua voce abbia un effetto così strabiliante che i suoi rari interlocutori non possono che inginocchiarsi commossi. Lui li sfiora sul capo, imitando le antiche carezze dell’imperatore, e racconta la sua storia.
«Mio fu l’impero e mio fu il suo padrone. A lui appartenevo e tutto mi era concesso. Fu in quel tempo che avrei dovuto porre fine alla mia esistenza, strapparne il giovane fiore per custodirne intatta l’immagine che ne ebbero i poeti e le nazioni. Ma ero ancora troppo affamato di vita, illuso dalla mia bellezza di atleta.
«Dapprima non mi accorsi della forza soprannaturale del mio desiderio. Poi, col trascorrere del tempo, cominciai ad avvertire strani presentimenti, presagi, segnali di un patto con il cosmo che nemmeno io sapevo di aver stretto. Vecchie zingare mi fermavano per strada, o ai mercati, pronunciando enigmatici auspici con lingue oscure e idiomi barbarici, per poi lasciarmi e sparire nel nulla. Sognavo le Parche, tutte le notti, ed erano come le descrivono i veggenti: solo che nei miei sogni le Tre dipanavano un filo che mai conosceva limite. Una sera vidi la carcassa di un cane, forse ucciso da un carro, riprendere vita e risuscitare sotto i miei occhi, rialzarsi con le interiora penzolanti dal ventre squarciato, abbaiare e poi correre via…
«Allora compresi che il mio desiderio di vita mi aveva concesso un insperato miracolo: cioè altra vita, per sempre e ancora vita. Ma a cosa servì il proliferare d’un numero incalcolabile di giornate, se proprio quel desiderio mi privò di tutto il resto? Ne parlai con l’imperatore e lui, dopo aver consultato maghi occulti e discusso con loro gli strani sintomi del mio dono miracoloso, giunse alla mia stessa conclusione: ovvero, che non sarei mai morto. Fu dopo lunghi ragionamenti solitari e notti insonni, dunque, che escogitò il suo piano. Non riuscendo a sostenere la visione del mio corpo, che mai avrebbe cessato il suo respiro, ma che comunque si sarebbe fatto sempre più vecchio, ingrato e dimentico di tutto l’amore che mi aveva rubato, Adriano mi abbandonò in questo luogo.
«Disse che sarebbe tornato a riprendermi. Disse che avrebbe convocato tutti i medici e i sapienti dell’impero. Disse che si sarebbe trovata una cura alla mia singolare condizione: ovvero, che sarebbe riuscito a farmi morire. Mentì! Preferì annegare con le sue stesse mani un giovane servo, poco più che un fanciullo, e riempire le strade di Roma e della sua villa con la mia immagine scolpita in marmi pregiati dagli scultori più abili del regno. Forse perché non poteva più amare un corpo destinato a degenerare all’infinito, o forse perché non poteva tollerare l’idea che il piccolo corridore potesse sopravvivergli per l’eternità, Adriano scelse di piangere un cadavere che non era il mio e trasformarmi in quello che ero sempre stato per lui: nient’altro che un ornamento, una bellissima statua.
«Così me ne sono rimasto quassù, solo, a guardare lo scorrere inarrestabile del fiume, a guardare quest’acqua, che esiste da sempre e che non invecchia mai. E anche io sono come l’acqua di questo fiume, io che esisterò per sempre e che in fondo sono sempre stato vecchio, vecchissimo, anche quando sentivo gli applausi dello stadio e la gente di Roma urlare il mio nome e cantare ‘Forza, Antinoo! Forza, corridore!’ e gli occhi dell’imperatore addosso alla mia bocca adolescente, occhi divini che mi promettevano splendide impossibilità. Ero vecchio anche allora, perché anche allora capivo, e il mio silenzio infinito era uno scrigno di granito, cristallo e madreperla dove custodivo e coltivavo il segreto della mia vecchiezza.
«Sono sopravvissuto alle guerre e ai grandi regni, protetto e imprigionato dal mio segreto, in attesa del mio imperatore. Ma Adriano non è mai più tornato a prendermi.
«Sono trascorsi i tempi delle gloriose battaglie e dei grandi condottieri, ma che ne rimase? Niente. Perciò tu, che sei nato secoli dopo di me e che morirai prima di me, specchiati sull’acqua del fiume se lo vuoi, ma sappi che la tua ingenua speranza va via con la corrente: i nostri imperatori ci hanno abbandonati per sempre».
Mentre lo leggo mi torna in mente il ricordo di quando, a Parigi, l’ho ascoltato con gli occhi chiusi mentre veniva letto dall’autore. Che belle emozioni! ❤️
Bella intuizione e bella esecuzione. L’idea che l’imperatore possa condannare il prediletto a eterno invecchiamento avrebbe certamente intrigato Mishima ancora più della Yourcenar.
Ho letto il tuo commento solo adesso. Grazie, mi fa piacere ti sia piaciuto il racconto. Interessante l’osservazione su Mishima!