Per un motivo che ignoro mi viene in mente una frase ascoltata chissà dove: “…e se smettesse di sognarti?” Sogni una cosa e questa esiste, cerchi di ignorarla e ti perseguiterà.
Ascolta, è il rumore di una piccola caduta, una scomposizione luminosa, simile a un decadimento particellare. Segue una pressione pulsante nella zona occipitale, dove avevo il cranio. Neanche il tempo di sentirmi a disagio che la visuale di colpo mi si espande, diventa assoluta. Una fuga musicale si raggruma in un impasto lessicale e mi arriva di nuovo quel richiamo (è il tuo?). Vedo qualcuno disperso nella nebbia, sopra un campo di cenere e pietre (sei tu, non è vero?). La figura, che ancora non posso riconoscere, mi chiede chi sia: sono Imayo, le rispondo, e vengo da una pianura chiamata Galaxias, fra distese di campi elettrici e rumori di disturbo. Da qui ho superato un enorme portale di materia respirante che si apriva su un estuario di bivi. Ogni strada portava a scenari diversi, che solo in un secondo momento ho capito essere i sogni dei vecchi compagni di viaggio. In tutto questo tempo, prima di arrivare a te, ho visitato ogni bivio, più volte (1026), come se non potessi uscirne, come se fossero tutti intrecciati tra di loro. Ho visto cose…, direbbe qualcuno, ebbene le ho viste davvero: distese di pianeti frantumati che un padre scrutava negli occhi di sua figlia; semiologi murati in grotte immaginarie, alla ricerca di graffiti rupestri da cui ricavare un codice per decifrare i sogni; lo stupore infantile di un novantenne che contemplava le sinuose passeggiate delle tigri traslucide tra le torri sanguinanti di Tlön; catene di blazar che esplodevano per il pianto disperato di un bambino; il lago senza uscita di Ăchĕrōn dove i pensieri s’incarnano in fauna e ogni essere narra un brano della tua storia, lo stesso lago che Afunes ha frequentato, sogno dopo sogno, per colmare la sua grave amnesia; danze rituali tra rovine abbandonate e canti di scuse di dèi morti e incendiati che nessuno potrà mai dimenticare. Sono entrato nei sogni di tutti i passeggeri dell’Astronave Madre, li ho riconosciuti e catalogati, ne posso descrivere gli odori, i colori, le vibrazioni cellulari che ti procurano, ma per qualche oscuro motivo non ho mai visitato un tuo sogno (mi sono chiesto più volte perché, deve avere a che fare con quell’antica percezione chiamata amore) e mi sono convinto che il nostro incontro è la chiave di approdo.
Ecco da dove vengo, da una serie incalcolabile di interpolazioni, convivenze, permutazioni, con la coscienza dei vecchi amici. Poi, dopo aver percepito una rottura luminosa, arriva quel suono, il richiamo, e un veloce spostamento verso il blu. Eri tu, lo so, che mi chiamavi al di là del Monte Qaf, dove tutto è possibile. Aspettavo questo momento da… da quando? (Mi è impossibile dirlo, di quale sistema di riferimento stiamo parlando?).
Eppure ricordo ancora il giorno in cui ci siamo radunati per decidere se dividerci – lasciarci andare, smettere di affannarci – o restare a vagare nel nulla – dopo Proxima Centauri, dopo Sirio – in cerca di un pianeta abitabile. Eravamo tutti d’accordo, non era mai successo. Ci siamo guardati con commozione, leggendo tra le rughe della fronte una stanchezza non più sostenibile. «È tutto pronto», diceva il prof. Rivera. «Dormiremo nelle nostre capsule criogeniche ribattezzate Okhema, munite di un dispositivo a onde radio sempre in funzione, finché qualcuno non ci troverà», i suoi occhi sul groviglio delle mani nervose. «È improbabile che succeda e a questo punto direi poco auspicabile. Preferisco pensare a un’evoluzione intima che ognuno subirebbe in sogno: l’immaginazione incarnata. La sinestesia dei sensi, capite? L’hiss moshtarik grazie al quale raggiungere il limite, il barzakh, dove abitare ogni possibilità. Se non possiamo raggiungere possiamo almeno divenire…» È stato scelto così, te lo ricordi? Nessuno ha mosso obiezioni, anche se alcuni erano spaventati da questa estrema possibilità. Quanto tempo è passato da quella decisione? Da quando i chimici hanno calcolato per ognuno la giusta dose di galantamina in modo da avere maggiore controllo sul sogno lucido, da quando ognuno si è reso un’isola nel proprio Okhema. Ricordo gli ultimi commossi abbracci, il dolore per la futura perdita del contatto fisico. La notte prima di partire ci si negava per paura di ripensamenti, ci si teneva lontani.
Te lo ricordi Hoseib come tremava? Alla fine della riunione è stato il primo a uscire dalla sala, la paura negli occhi, i pugni stretti. La notte stessa l’ho visto uscire dalla cabina del supervisore con la faccia in fiamme: chissà cosa gli avrà detto… I suoi sogni sono stati i più difficili da (ri)vedere, così cupi, così disperati, ma li ho visitati con ostinazione: li trovavo significativi, una sorta di lode funeraria alla carnalità perduta. Nel più leggibile di essi, Hoseib si metteva in viaggio prendendo come punto di riferimento una strana luna opalescente fino al cospetto di due soli gemelli: il loro tramonto gli indicava una spiaggia di polvere d’ossa che lambiva le sponde del lago Hali. Qui Hoseib, per riprendersi dall’affanno, rimaneva a contemplarne le rive, dove rettili senza capo né coda contorcevano le proprie spire. Veniva ridestato poco dopo dalla spallata di un viandante disperso che entrava nel lago e spariva tra le sue oscurità. Solo allora Hoseib proseguiva il cammino fino alle rovine dell’antica città di Carcosa. Qui lo attendeva suo padre, con il vestito buono: «Dovevi aspettare che morissi prima io, figliolo…», gli diceva, indicando una lapide ammuffita che poi era l’Okhema in versione fossile, dentro cui Hoseib si vedeva dormire un sonno agitato. E si sognava, e si rimetteva in cammino, e si ritrovava, e così via…
Ora anche i sogni di Hoseib sono diventati più leggeri, più rarefatti, come quelli di tutti noi. Ognuno ormai è in grado di visitare la progressione onirica dell’altro, ciò indica che l’evoluzione teorizzata da Rivera è avvenuta davvero, manca solo l’ultimo stadio. Quando tempo c’è voluto affinché ciò avvenisse? Da quanto tempo viaggiamo nello spazio siderale, in questo sonno in continua raffinazione? (vedi, parlo sempre del tempo, non riesco a ignorarlo). Mi rivedo prima della partenza a iniettarmi la dose di galantamina, poi alzare lo sguardo dalla vena rigonfia in cerca di uno sguardo amico, ma non c’è quasi più nessuno sull’astronave. Mi rivedo sul ponte di comando davanti allo spettacolo degli Okhema pressurizzati che vengono espulsi dall’Astronave Madre in direzioni casuali, scelte dall’algoritmo – fratelli crioconservati con gli occhi chiusi, incastonati in volti che non vedrò più, se non in sogno. Mi rivedo sconvolto davanti a quella lenta emorragia, la deriva stanca ma inesorabile di tante piccole nane bianche prossime al raffreddamento. Eccolo, dicevo, un pianeta che perde materiale, che si prosciuga, un lento stillicidio nel buio di cui tra un po’ farò parte anch’io – goccia tra le gocce, oceano tra gli oceani, rivoli di un fiume che al culmine evolutivo torneranno a unirsi, convergendo nello stesso punto.
Ora che ti vedo nella nebbia, dopo averti cercata per eoni, ora che ti riconosco senza possibilità di errore, posso dire finalmente dove siamo approdati. Siamo nell’Ottava Stagione, sulla superficie convessa della Nona Sfera, a lambire le città mistiche di Jâbalqâ e Jâbarsâ, al di là del Monte Qaf. Qualcuno si è spinto oltre – e noi lo raggiungeremo –, su una montagna ancora più alta, l’Erân-Vêj, dove le finestre non accolgono luce, ma la emanano. Sull’Erân-Vêj, ad ascoltare in estasi le liturgie di Ohrmazd, dove seguire il rilucente Yima dentro il var, il recinto purificato in cui rifiorire insieme. Eccoti, finalmente, riesco a sentire la tua mano senza neanche toccarti – non esiste mano e non esiste tocco, ma sento ogni singola congiunzione possibile. Chiedimi ciò che vuoi, domandami e ti saprò rispondere, parlami e saprò capire le tue ragioni. Eppure ti ho già risposto, eppure hai sempre saputo. Sono Imayo, ti dico, Imayo Ozbeg, in questa Na-koja-Abad dove i ricordi ormai sono i ricordi di ognuno, in questo nessun-dove in cui i nostri sogni sono fermentati in nutrimento; li possiamo raccogliere, ora, li possiamo distribuire. Anche Hoseib ha ritrovato la pace nell’Ultimo Approdo, se ne sta sul crinale di luce, insieme a suo padre.
Ascolta questo suono farsi carne, questo grumo liquefarsi in fiume, questo specchio ridursi in vento, e sali con me sull’Erân-Vêj, dove ognuno, eternamente, diverrà il pianeta abitabile dell’altro.