Le visioni venivano. […] Ma quello che voleva afferrare era proprio la scossa dei nervi, la cosa stessa prima che diventi un’altra.
Virginia Woolf, Al faro.
Camminavamo lungo il sentiero in discesa – lui davanti, io dietro. Parlavamo di: visione.
“Riesci a vedere?”, mi chiese.
“Sì”.
“E cosa vedi?”
Intanto con le braccia indicava i tronchi ai lati del sentiero, guardava la distesa del cielo sopra le nostre teste. Io fissavo la sua maglietta grigia, le pieghe in movimento continuo insieme ai muscoli della schiena. Sullo sterno, il sudore lasciava come delle striature di grigio più scuro. Era da lì che veniva. A tratti, veniva fuori. Un’esplosione luminosa abbacinante. La osservavo e ridevo di euforia. Poi scompariva, tornavo pensierosa.
“È una luce”, spiegai.
“Bene. E poi?”
“E poi cosa?”
“Se vedi soltanto una luce, non vedi niente”.
Meditai per qualche secondo sulle sue parole.
“Credo sia qualcosa di meglio”, dissi.
“Spiegati”.
“Non vedo la visione. Vedo che cosa è una visione”.
Lui aspettava.
“È la visione della visione”, aggiunsi ancora.
“Non credo sia meglio di una visione e basta”, commentò perplesso.
Tornai a scrutare le pieghe della sua maglietta, nella zona centrale. La sgranai fino a espandere il tessuto grigio in tutte le direzioni. Così non vedevo altro. Così anche la luce, quando usciva, appariva più grande. La aspettavo contando i secondi, e poi eccola, un’altra volta. “Visione della visione”, pensavo. E ridevo.
Camminavamo soli, in mezzo a una strada. In fondo alla strada si apriva un tunnel a una corsia. Lo varcammo, guardinghi, temendo il passaggio delle macchine. Lo attraversammo, lentamente – lui dietro, io davanti.
“Ora la vedi?”, domandò.
“Sì”.
E con la mano indicai la fine del tunnel – il cerchio di luce oltre il buio. Lui non commentò.
“Guarda, è là in fondo”, lo incalzai, continuando a puntare il dito.
“Che cosa c’è là in fondo?”
“La visione della visione, non vedi?”
Non rispose. Dall’incostanza del suo passo dietro il mio intuii che a tratti rallentava, forse si fermava a osservare. Non capivo che cosa. Tornai a fissare il cerchio di luce fino a dissolvere l’indistinto grigio delle pareti del tunnel in quel bagliore finale.
Aprii gli occhi, nel letto, a pancia in su. Restai a lungo distesa, a guardare il soffitto. C’era una macchia scura – una curva sottile a quattro zampe – che avanzava esitante da un angolo del muro. Si fermò proprio sopra alla mia testa. Aspettai di recuperare pienamente la vista, dopo il torpore del sonno. E poi eccolo: un geco minuto e grigiastro, tra il bianco-grigiastro del soffitto. Lo guardai e lui guardò me.
“Tu cosa vedi?”, gli chiesi sconsolata.
Il geco guardò verso la finestra, con aria incerta. Poi partì, a passo sempre più spedito. Scesi in fretta dal letto, gli andai dietro, ancora intontita dal sonno. Saltammo giù dal davanzale della finestra, superammo il giardino, poi il cancello. In strada fu più difficile non perderlo di vista. Per non alzare gli occhi dal marciapiede, camminai maldestramente tra le spalle della gente. “Scusa, scusa”, pensavo, il fiato troppo congestionato per parlare. Il geco di colpo si arrestò. Guardò davanti, dietro, a destra e a sinistra. Poi si calò dentro un tombino. Studiai le fessure arrugginite del buco. Mi intrufolai anch’io nel tombino, e caddi sul fondo.
L’odore delle fogne era pervasivo. Continuai a incespicare nel buio, tappandomi le narici con due dita, dietro alle zampe frenetiche del geco. Ben presto smisi di percepire la sua corsa leggera. Mi fermai. Valutai di tornare indietro, come avrei fatto a risalire in superficie? Proseguii, sconsolata. “Arriverà una luce”, pensai. Passo dopo passo tornai calma. L’odore era ancora pervasivo, ma naturale. Il buio era ancora totale, ma non più inquietante. Cominciai ad avere l’impressione di una riduzione. Sì, come se mi stessi avvicinando al suolo. Toccai la nuca e le spalle, in cerca dei miei lunghi capelli lisci: non trovai niente. Poco a poco, rimpicciolivo: non faceva paura. Alla fine, mi accorsi che avanzavo nell’ombra in orizzontale. Sì, con tutto il corpo aderivo alle pozzanghere scure sul fondo. E poi eccola, una luce. Non molto lontano, in alto, filtrava tra le griglie di un tombino. Mi arrampicai svelta lungo un tubo ricoperto di incrostazioni, attraversai le fessure arrugginite, mi ritrovai in strada. Oh, realtà.
Fui subito minacciata dalle scarpe – centinaia di suole logore sempre in procinto di frantumarmi il dorso. Eppure era bello sentirne i rumori e gli odori. Appena presi confidenza con le zampe, accelerai la mia corsa. Tagliai in un vicolo, e poi in un altro, fino a quando raggiunsi un marciapiede poco affollato. Rallentai e presi fiato, su di giri. In fondo alla strada si apriva un tunnel a una corsia. Lo varcai. Il grigio delle pareti era appena visibile, nascosto sotto infinite scritte meravigliose. Oh, colori. Cemento di visioni. Dovetti coprire la vista con una zampa anteriore, di tanto in tanto, per attutire l’impatto delle vernici più accese. Osservai tutto, su un lato e sull’altro, voltando freneticamente il collo. Non mi accorsi neppure di essere giunta alla fine del tunnel. Superai la soglia a malincuore. Che cosa ci sarebbe stato, adesso? Intravidi alcune fronde, in lontananza, oltre una staccionata. Prima di attraversare l’incrocio aspettai il mio turno sulle strisce bianche, sotto l’ombra di un cestino, per evitare il pericolo delle suole. Raggiunsi l’ingresso del parco. L’erba del prato era fresca e morbida sotto le zampe. C’era un laghetto, e bevvi un po’ d’acqua – densa e stagnante, ma ugualmente buona. Poi presi un sentiero in salita, tra gli alberi silenziosi. La ruvidezza dei tronchi fu un piacere anche solo per gli occhi – immaginavo di toccarla, aderirvi con tutto il corpo in un punto raggiunto dal sole, e al pensiero ridevo di gioia.
In fondo al sentiero, il parco terminava. Sgusciai sotto la staccionata, mi ritrovai in strada. C’era una casa gialla, alla fine della via. Proseguii in quella direzione guardando continuamente ai lati.
La stanza era in leggera penombra. Il pavimento era liscio e freddo, mi arrampicai sulle pareti. Salii fino al soffitto e proseguii cercando di non fare rumore. C’era un letto disfatto, e sopra al letto un corpo a pancia in su. Oh, emozioni. Non l’avevo mai visto in viso, ma lo riconobbi subito dalla maglietta grigia e dalla capigliatura brizzolata. Lo guardai e lui guardò me. “Oggi ho visto le scritte nel tunnel, il parco, i tronchi degli alberi, e ora vedo te”, pensai. E arrossirono un po’ le mie guance di squame. Forse se ne accorse, o mi trovò simpatica. Fece un lieve sorriso con il labbro superiore sporto in avanti. Mi feci coraggio e scesi lentamente dal soffitto. Lui non si mosse. Mi rannicchiai sul suo corpo, la testa nell’incavo del collo. Restammo a lungo, in silenzio, a guardare insieme le splendide imperfezioni del soffitto bianco-grigiastro. Ci addormentammo. Da un angolo del muro, un ragno vigilava.