La prima volta che lo vide si trovava nella zona nord ovest del parco, in un punto della brughiera non troppo distante dagli alberi su cui i pappagallini verdi andavano a cercare rifugio per la notte. Se si arrivava a un’ora specifica, più o meno all’imbrunire, si vedevano stormi di pappagalli volare confusi sui rami. Erano quelli i giorni delle colpe, chi aveva fatto cosa all’altro, in uno smistamento di responsabilità organizzato e inesorabile.
Elettra si era sentita sollevata quando Sirio se n’era andato di casa, all’inizio almeno. Nelle settimane successive aveva però preso ad arrovellarsi sui torti, sulle mancanze, su chi dovesse di più all’altro. Il loro appartamento raccontava quella separazione nel modo in cui gli oggetti inanimati comunicano: con l’assenza. Mancavano le stampe alle pareti che aveva scelto e appeso lui anni prima, la libreria sorrideva sdentata senza i volumi che erano stati portati via, nella cucina il profilo degli elettrodomestici spartiti rimaneva disegnato sui mobili, la metà destra del letto restava inesorabilmente fredda notte dopo notte. Elettra aveva deciso di risistemare tutto con calma, di riappropriarsi di ogni spazio, di ogni bolla di nulla lasciata da lui. Tutti i giorni cercava di dedicarsi a un pezzettino della casa, colmando il vuoto con un brandello di sé, riscoprendosi. Ad esempio aveva capito che le serviva una cassetta degli attrezzi e, approfittando di un momento di empowerment, era andata al negozio all’angolo della strada a comprarne una. La cassetta però era rimasta chiusa, appoggiata all’ingresso di casa a prendere polvere. Capire i propri limiti era parte del processo. A fine giornata, quando non ne poteva più di lavorare alla scrivania o di tentare di riempire le lacune d’arredamento, indossava delle logore scarpe da ginnastica e andava a camminare al parco. Percorreva dieci chilometri e tornava indietro.
Il parco di Wormwood copriva l’immensa superficie di settantotto acri dividendosi tra brughiera, prato all’inglese, area boschiva, maneggio e campi da cricket. Elettra entrava da sud ovest e si dirigeva a est, passando dall’unica via abitata, ammirandone la serie di deliziose villette georgiane poste l’una vicino all’altra. Iniziava la risalita verso nord quando vedeva il maneggio, poi svoltava verso ovest costeggiando la zona boschiva. L’ultimo tratto era la brughiera, finita quella si ritrovava al punto di partenza del percorso ad anello che seguiva religiosamente. Attenendosi a precise abitudini, quasi meditative, aveva scoperto il rifugio notturno dei pappagalli e, al crepuscolo, si fermava in un punto strategico nel brugo alto a osservare quello che considerava il suo spettacolo personale. Fu così che lo vide.
Un giovane uomo, vestito con una sorta di uniforme, camminava vicino agli alberi col naso all’aria, incantato dal volo degli uccelli. Non ha paura di scontrarsi con qualche pappagallo maldestro? si era chiesta Elettra. Ma, a parte la vicinanza allo stormo, c’era qualcosa di strano: la sua figura le sembrava fosca, quasi sfocata, dai contorni poco chiari. Poi lui aveva girato lo sguardo verso di lei. Uno sguardo serissimo, gli occhi due pozzi profondi. Elettra si era irrigidita, l’aveva fissato di rimando per un secondo. Un rumore improvviso vicino ai suoi piedi l’aveva distratta. Spostando lo sguardo a terra, aveva visto uno scoiattolo che sgattaiolava via spaventato. Quando era tornata a guardare verso gli alberi, il giovane non c’era più, scomparso in un frullo d’ali verdi.
“Un uomo del mistero” aveva commentato Alma quella sera, dopo che Elettra aveva raccontato dell’incontro del tardo pomeriggio “mi sembra un bel modo per distrarsi un po’”.
“Infatti, tesoro, come va?” aveva aggiunto Amanda, poggiandole una mano sulla sua.
Alma e Amanda, le sue AA – Alcoliste Anonime le chiamava Sirio, scherzando non tanto sulla loro passione per il vino ma sui loro incontri, molto più simili a sedute di gruppo di supporto che a serate tra amiche. Si erano conosciute anni prima a un evento dell’Italian Cultural Institute – le sue alleate italiane in terra inglese – e si era creata immediatamente una certa alchimia. Insieme avevano attraversato traslochi in alloggi fatiscenti, appuntamenti aberranti, ricerche di lavori spesso deludenti; ma anche momenti felici, il superamento di alcuni traguardi, giornate a chiacchierare spensierate nei loro backyard. Gioie e dolori che raccontavano una costante maturazione. Quella sera, in un ristorante francese nella zona di Carnaby, l’argomento era – come da un paio di mesi a quella parte – la separazione di Elettra.
“Mah”, aveva risposto alla domanda di Amanda, “a volte adoro essere da sola, altre mi sento una barca incagliata tra gli scogli. Sicuramente camminare mi aiuta a focalizzarmi sui miei obiettivi e sul presente. Quei pappagallini verdi, ad esempio, non li avevo mai notati. Eppure vivo in zona da una vita”.
“Sono parrocchetti dal collare” puntualizzò Alma, “si dice che uno stormo sia fuggito da un set nel ‘51, durante le riprese di un film con Humphrey Bogart e Katharine Hepburn, e che abbiano invaso i parchi della città. Si riproducono molto in fretta”.
“Davvero? Pensa, non lo sapevo”.
Elettra si era trasferita a Londra giovanissima, quando ancora lavorava nella redazione di un piccolo giornale. Serviva qualcuno che potesse andare in trasferta per qualche tempo e che parlasse un discreto inglese, e lei si era offerta volontaria. Sei mesi si era detta – ma alla fine in Inghilterra ci era rimasta ventisei anni. Complice anche il fatto che aveva conosciuto lui, Sirio, un altro giovane esule italiano finito lì per concludere la sua tesi in letteratura inglese. Si erano innamorati, avevano preso casa insieme, avevano fatto progetti. Poi tutto si era arenato, il loro rapporto era divenuto liso, si erano disinnamorati piano piano, senza nemmeno accorgersene. E infine si erano lasciati.
“Ma tu non sei più innamorata di lui, vero?” Amanda la fece tornare al tavolo lì con loro.
“No, però…”
Elettra non sapeva spiegare quella sensazione. Ricordava distintamente che da bambina non amava andare a scuola di per sé. Anzi, il grigiore che si intravedeva dalla finestra della sua aula le metteva una sorta di malinconia. Quello che attendeva era tornare a casa nel pomeriggio dove, sapeva, sua nonna l’aspettava con fette di pane in cassetta imburrate e spalmate di marmellata. Avrebbe prima finito i compiti, poi avrebbe fatto merenda davanti ai cartoni animati. Ecco, questo le piaceva e per questo ogni mattina si alzava felice di andare a scuola.
“No” riprese con più sicurezza, “non lo amavo più. Amavo però la certezza di trovarlo a casa, di tornare tutti i giorni da qualcuno che aveva deciso di prendersi cura di me”. Per un attimo l’eco di quella frase scandì il silenzio che aleggiava attorno alla tavola.
“Bene, adesso lo devi fare da sola”, Alma interruppe l’impaccio, “ma ci siamo noi. E ti abbiamo portato un regalo”. A quel punto estrasse da sotto il tavolo una scatola voluminosa e gliela porse.
“Ragazze, non dovevate dai” protestò Elettra, mentre estraeva dalla confezione un paio di sneaker nuove fiammanti.
“Ci siamo promesse di celebrare tutti i nostri passi importanti” Alma riprese a sgridarla bonariamente, “e una rottura è uno di questi. E poi le tue scarpe da ginnastica sono veramente indecenti”.
“Sì, tesoro, terribili”, Amanda le dava corda. “Pensa a noi mentre insegui l’uomo del mistero durante la tua prossima passeggiata”. Alma e Amanda ci sarebbero sempre state.
Appena rientrò in casa, la prima cosa che Elettra notò fu il rumore che faceva il filtro dell’acquario. Probabilmente vi si era incastrato qualcosa e andava sistemato. Ogni volta che le cadeva lo sguardo sull’acquario veniva punta da una sensazione d’ansia mista a senso di colpa. L’aveva lasciato lì Sirio, era lui quello che lo aveva voluto, a lei non era mai piaciuto particolarmente. Quando era andato via, portandosi dietro praticamente tutto quello che era suo, aveva promesso che sarebbe tornato a prenderlo in un secondo momento. Era passato un mese, lei aveva nutrito i pesci rossi al suo interno, ma non si era curata di cambiare l’acqua, sistemare il filtro e fare tutte le altre cose che sarebbero spettate al legittimo proprietario. Quindi erano comparse le alghe, filamentose lunghe alghe verdi che avevano trasformato l’acquarietto di vetro in una cubica pozza d’acqua paludosa. A quel punto Elettra si era decisa a dargli una ripulita: aveva guardato un tutorial su YouTube e, imitando i gesti che aveva visto fare a Sirio negli anni, lo aveva scrostato. Il risultato era mediocre, ma meglio di niente. Passato il secondo mese senza che lui desse alcun segno di volerselo venire a riprendere, Elettra aveva deciso di sbarazzarsene. Era andata in un negozio specializzato e aveva chiesto se fossero interessati a ritirarlo.
“Nah” le aveva risposto il ragazzo al bancone, “la struttura e gli accessori sono ancora buoni, ma i pesci” diceva, facendo di no con la testa, “i pesci rossi sono i ratti dell’acqua, fanno più danni che altro”. Ed Elettra se l’era tenuto, con molto poco entusiasmo.
Quando quella sera si avvicinò per vedere cosa fosse successo al filtro, i pesci si fiondarono contro il vetro, picchiettandolo con i loro occhi enormi. Erano quattro, tre dalla coda lunga, uno più piccolo. Sirio li aveva chiamati con i nomi di alcuni personaggi letterari: c’era Banquo, il più grosso, dedicato a Shakespeare; Darcy, a cui mancava una delle code, omaggiava Jane Austen; il piccoletto, il solo a coda singola, era Pip come il protagonista di Grandi speranze di Dickens; infine, l’unica femmina (anche se Elettra dubitava che Sirio sapesse veramente distinguerne il sesso e se lo fosse inventato) aveva la pancia coperta da puntini neri e si chiamava Mara, come La ragazza di Bube, non tanto per Cassola quanto per lei, Elettra.
“Questa la chiamiamo come la tua protagonista femminile preferita” le aveva detto. Lui era così, un letterato, un poeta, avrebbero detto alcuni. Uno stronzo, avrebbe detto lei. Poi si redarguì da sola, imitando il tono di Alma, non ci eravamo dette di non scadere in banali rappresaglie?, e aveva frenato gli insulti mentali. Diede il mangime ai pesci e staccò la corrente al filtro ronzante, giurando a se stessa che l’indomani avrebbe provato ad aggiustarlo.
Nelle settimane successive Elettra riprese la sua routine: durante il giorno lavorava sui suoi articoli e tentava la ristrutturazione dell’appartamento. Come promesso, si era dedicata all’acquario; aveva cercato di pulirlo ulteriormente, piantumandolo con alcune piantine, e aveva riparato il filtro (provvidenziale un altro tutorial su YouTube). Non aveva ancora deciso di che farsene, ma non voleva che i pesci pagassero per la sua indecisione. Poi, nel tardo pomeriggio, indossava le sneaker nuove e si applicava nella sua passeggiata taumaturgica, sperando in fondo in fondo di rivedere il giovane misterioso. Non sapeva spiegarsi il perché, ma nella figura tremolante che aveva scorto c’era qualcosa che l’attraeva.
E infine lo rivide. Lo rivide di martedì, mentre i parrocchetti si posavano sui rami degli alberi che componevano la zona boschiva. Lo rivide di giovedì, mentre era ancora a metà della brughiera, in un punto dove non era solita fermarsi. Lo rivide di sabato, anche se aveva dovuto anticipare l’orario della camminata ed era arrivata nell’area dei pappagalli un po’ prima del solito. Lo rivide di domenica e per tutti i giorni successivi. Tutte le volte accadeva la stessa cosa: prima lui osservava il volo dei pappagalli, poi fissava lei. E quando lei cercava di raggiungerlo, di fargli un cenno, di chiamarlo, lui spariva quasi dissolto nell’aria.
Poi un pomeriggio, mentre si trovava nella zona sud del parco, fece una scoperta curiosa. Stava cercando di spiare l’interno di una delle eleganti casette georgiane per prendere spunto per il suo salotto. Mentre cercava di capire meglio la disposizione dei mobili senza sembrare una scassinatrice, il suo sguardo cadde dall’altra parte della strada, su una piccola lapide in marmo che rifletteva la sua luce nella finestra della villetta. Elettra era passata da lì quasi tutti i giorni negli ultimi mesi ma non l’aveva mai notata, nascosta com’era dall’erba. Si avvicinò e lesse l’iscrizione: Here fell Christopher Head – 12th August 1966. Quello che la colpì fu la data, il giorno del suo compleanno. Prese il cellulare e fece un rapido controllo su Google, senza sapere di non essere pronta all’imminente rivelazione. Tra i risultati di ricerca la foto in bianco e nero di un giovane le fece gelare il sangue: l’uomo del mistero la fissava dalla pagina Google. Era Christopher Head, morto cinquantotto anni prima in quell’esatto punto. Smaniosa di capire cosa fosse successo, cliccò sul primo link, un blog che riprendeva notizie di cronaca nera d’epoca.
In una tiepida giornata d’estate, il sergente Christopher Head insieme a due colleghi stava pattugliando l’area adiacente al parco di Wormwood. Insospettito da un furgoncino fermo lungo la strada, si era avvicinato per un controllo. Nell’abitacolo tre malviventi che, presi dal panico, freddarono il sergente con un colpo di pistola alla testa. Spararono poi anche agli altri due agenti, uccidendoli, e fuggirono. Furono arrestati soltanto alcuni mesi più tardi, al termine di una caccia all’uomo che aveva tenuto Londra col fiato sospeso per settimane.
Elettra cliccava su vari articoli col cuore in gola. Il giorno della sua morte, Christopher aveva trent’anni compiuti da poco. Lei, il dodici agosto, avrebbe celebrato il suo quarantacinquesimo compleanno. Due vite diametralmente opposte si muovevano sullo stesso perno: un giovane uomo stroncato nel fiore degli anni e una donna matura, nel pieno delle sue forze, che si rifiutava di andare avanti. E poi c’era quel dettaglio: ‘head’ come testa, dove l’aveva colpito il proiettile. Christopher Head aveva la morte nel nome. Lei invece nel suo aveva l’energia, la corrente, la forza più vivace di tutte. Eppure eccola lì, ferma sul ciglio della strada, letteralmente ad aspettare un fantasma. Tornò a casa piuttosto scossa, sentendo il bisogno di distendere i nervi.
Dopo aver fatto una doccia bollente si sentì meglio e riprese a ragionare. Afferrò il cellulare e mandò un messaggio alle AA sul loro gruppo whatsapp. Ragazze, è lui l’uomo del mistero – scrisse, aggiungendo il link – solo che è morto nel ‘66. Vide che Alma aveva iniziato subito a digitare qualcosa, poi si era fermata ed erano passati alcuni minuti senza che nessuna delle due rispondesse. Si staranno scrivendo tra loro, si disse Elettra, penseranno che sono diventata pazza. Poi, quando stava per perdere le speranze, Amanda scrisse: ok, domani veniamo con te.
Il giorno dopo il trio si trovò all’ingresso del parco e insieme percorsero il consueto tragitto di Elettra. Passarono davanti alla lapide, si mossero verso il maneggio e infine verso la brughiera. L’orario era perfetto: appena più tardi dell’ora d’oro. Videro gli stormi di pappagallini verdi volare sugli alberi incrociando gli ultimi raggi di sole, sullo sfondo il cielo rosa. Amanda, stupefatta dalla scena, commentò: “Le ginocchia non reggono gli occhi” e le tre si strinsero in un abbraccio. Fu tutto perfetto. Tranne che Christopher non si presentò.
Elettra si sentì una sciocca, non sapeva cosa dire alle amiche. Loro invece si dimostrarono comprensive e risolute come sempre:
“Se dici di averlo visto ti crediamo” le disse Alma “ma sicuramente questo periodo di stress non ti sta facendo bene” e si voltò verso Amanda cercando manforte. Amanda però aveva scavalcato il brugo e si era spostata verso gli alberi, sempre più vicina al giaciglio dei parrocchetti.
“Venite qui” urlò alle due rimaste indietro “venite a vedere”.
Elettra e Alma si mossero verso di lei, scavalcando a loro volta le sterpaglie, per arrivare al punto indicato dall’amica. Lì, con stupore, videro cosa aveva trovato Amanda: davanti a loro si celava timidamente un piccolo stagno artificiale. Al suo interno un branco di pesci rossi, molto più grossi di quelli di Elettra, si muoveva in un vortice di sfumature liquide.
“Non l’avevi mai notato?” chiese Amanda a Elettra.
“Non ho mai attraversato il brugo, qui l’erba è troppo alta e non me ne sono mai accorta”.
“Forse è questo che voleva indicarti il tuo fantasma” suggerì Alma.
Più tardi, sedute a tavola davanti a un piatto di pasta nella casa di Elettra, le amiche avevano tentato di dare un senso a tutta la storia; avevano ripercorso i vari avvistamenti, come li avevano soprannominati, e avevano controllato in rete se Christopher fosse mai comparso ad altri. Ma non avevano trovato nulla. Infine, stanche, mentre si concedevano l’ultimo calice, si erano lasciate andare alle solite chiacchiere.
“Hai deciso quale macchinetta del caffè comprare?” aveva chiesto Amanda, visto che quella che avevano usato fino a qualche mese prima ora si trovava nel nuovo appartamento di Sirio.
“Non ancora, mi mancano anche il bollitore e lo spremiagrumi” disse Elettra “e poi qualche altra diavoleria. Farò un ordine unico”.
Alma e Amanda si erano guardate con un filo di apprensione. L’amica sembrava voler estendere all’infinito quella ristrutturazione obbligata e non capivano come spronarla. Avevano notato che tanti dei buchi lasciati da Sirio nell’appartamento non erano ancora stati colmati. C’erano stati dei piccoli passi avanti, ma minimi. I libri erano stati ridistribuiti nella libreria, per esempio; e c’erano delle nuove foto nelle cornici. Ma per il resto la casa sembrava ibernata dal giorno in cui Sirio se n’era andato. Persino l’armadio era ancora diviso a metà: i vestiti di Elettra a destra, mentre a sinistra il vuoto. Si chiedevano cosa stesse aspettando.
“Invece per l’acquario” Alma azzardò un suggerimento “se hai deciso di tenerlo, ti consiglio di prendere almeno un pesce pulitore, così dovresti avere la situazione sporcizia un po’ più sotto controllo”.
“Non sapevo te ne intendessi” disse Elettra con gli occhi sgranati.
“Mio fratello ne aveva uno quando eravamo piccoli” spiegò, “qualcosina me la ricordo ancora”.
“Ma dai. Comunque non so ancora se Sirio lo rivuole. Non si è fatto più sentire”.
“Be’, scrivigli tu” risposero in coro le amiche.
“Questo lo escludo” concluse Elettra. Il suo tono non ammetteva repliche.
Nelle settimane a seguire, la routine di Elettra subì un brusco cambiamento: se i lavori di risistemazione fino ad allora erano andati a rilento, dopo qualche tempo si fermarono completamente. L’indecisione ebbe la meglio sulla padrona di casa che rinunciò ai vari acquisti. Nell’acquario poi le alghe tornarono prepotenti, causando in Elettra un’ulteriore voragine di senso di colpa ogni volta che si avvicinava all’oggetto. Non sapeva cosa fare e sospirava nel vedere i quattro pesci nuotare inermi nelle acque verdi. Non da ultimo, il mutamento più grosso venne segnato dall’abbandono delle passeggiate. Fu un distacco graduale: un giorno non poté andare al parco perché una call di lavoro si era protratta fino a tarda ora, un altro preferì andare dal parrucchiere, altre volte dovette andare in redazione per alcune riunioni straordinarie, altre era semplicemente stanca e alla fine non ci andò più. Per questo motivo una sera, all’imbrunire, si trovò al supermercato piuttosto che nel brugo a osservare il volo dei pappagallini. E proprio mentre camminava tra gli scaffali vide Sirio. In fondo al corridoio che lei stava imboccando, ecco lui che cercava qualcosa sui ripiani. Appesa al suo braccio una donna più o meno della loro età. Mentre ridevano di qualcosa, lui le diede un bacio sulla fronte. Osservare quel gesto intimo le diede una immediata fitta al petto, anche se ciò che sconvolse di più Elettra era che lui sembrava felice. Fulminea, scelse di fare quello che qualsiasi donna adulta avrebbe fatto: si nascose. Sono una cretina si diceva mentalmente, mentre controllava che loro non l’avessero vista. Poi, appena poté, si fiondò verso l’uscita, lasciando lì il suo carrello quasi pieno.
Tutte le emozioni che fino ad allora era riuscita ad arginare si scatenarono in un colpo solo, stringendole la bocca dello stomaco. Rabbia, gelosia, pena per se stessa. Un tempo non troppo lontano aveva creduto che sarebbe invecchiata accanto a quell’uomo; invece lui aveva scelto di farlo con un’altra. Quando avevano deciso di lasciarsi non si amavano più già da molto tempo, è vero. Ma c’erano comunque dell’affetto, della stima. Non contavano nulla? Venticinque anni cancellati da una stupida decisione che lei aveva contribuito a prendere. E ora doveva pagarne il conto, salatissimo. Rimanere da sola a rimuginare sul passato, mentre lui riusciva ad andare avanti. Si fiondò in casa come una furia. Aprì, facendolo sbattere, il secondo cassetto della cucina, prese tre sacchettini trasparenti per la conservazione del cibo e li riempì d’acqua. Poi estrasse col retino i quattro pesci rossi e li infilò nei vari sacchetti. Loro si dimenarono per non farsi prendere ma lei, inviperita, ebbe la meglio. Indossò le scarpe nuove e, con i sacchetti in mano, marciò verso il parco. Tagliò direttamente verso la brughiera, senza compiere il suo solito percorso. Scavalcò il brugo e si trovò nell’erba alta vicino agli alberi. Infine raggiunse lo stagno. L’ora del tramonto era passata da un pezzo e il buio tenue l’avvolgeva. Posò a terra i sacchetti, i pesci al loro interno nuotavano in tondo senza capire cosa stesse accadendo. Decisa a scaricarli nell’acqua, iniziò ad armeggiare con la chiusura del primo sacchetto. In quel momento un rumore le fece alzare la testa e si trovò faccia a faccia con Christopher.
Lui la fissava senza dire nulla, i suoi occhi sembravano avere una profondità infinita. Non si erano mai trovati così vicini. La sua figura, notò Elettra, continuava a mantenere i contorni sfocati, come fosse avvolta da una leggera foschia. Si osservarono per un secondo, forse due, ma a lei sembrarono ore. Poi lui scosse la testa: la testa di Christopher faceva di no. Quel gesto interruppe l’incanto in cui si era fermata Elettra, un brivido le percorse la schiena e d’improvviso la paura ebbe la meglio. Raccattando i sacchetti, scattò in piedi e corse via, senza voltarsi a vedere la reazione di Christopher.
Entrata in casa, si appoggiò ansimante alla porta. Per la seconda volta nella stessa giornata era fuggita come una codarda: non uno dei suoi momenti migliori, decisamente. Mentre riprendeva fiato cercando di dare un senso a quanto era appena accaduto, guardò i sacchetti che teneva in mano e si accorse con orrore che erano due e non tre. Pip e Darcy la fissavano dal sacchetto di sinistra, mentre Banquo da quello di destra. Ma Mara non c’era, se l’era dimenticata davanti allo stagno. Il senso di colpa le riempì il petto: se non fosse tornata a prenderla sarebbe morta di sicuro, ma ormai era buio pesto. Prese fiato e fece un respiro profondo, realizzando che doveva assumersi le sue responsabilità. Quando espirò, con l’aria cercò di buttar fuori anche tutta l’angoscia che aveva dentro. Poi si fece coraggio, piegò la maniglia e aprì la porta. Fece appena un passo ma dovette fermare la gamba a mezz’aria: sul muretto del vialetto qualcuno aveva appoggiato con cura il sacchetto mancante e la pesciolina vi nuotava come se nulla fosse successo. Elettra pensò subito a Christopher e gli occhi le si inumidirono.
Recuperata Mara, ripose tutti i pesci nel loro acquario, scusandosi con una generosa porzione di mangime. Sotto la doccia, finalmente, si lasciò andare e pianse. Pianse per quella storia che non aveva funzionato, per gli errori che aveva fatto e per tutte le volte che non aveva chiesto scusa. Pianse per aver tentato di abbandonare i pesci nel laghetto, non tanto perché pensava che lì avrebbero trovato una vita migliore, ma perché con quel gesto sperava di ferire Sirio. Pianse per Christopher che era morto in un giorno qualsiasi di mezza estate senza nessuna ragione in particolare: chissà se aveva dei rimpianti, se aveva salutato sua moglie con un bacio prima di uscire di casa per l’ultima volta. Si infilò nel letto con i capelli ancora umidi e scivolò in un sonno profondo.
Quella notte sognò Sirio. Il loro primo incontro, nella British Library: lei indossava un vestito scuro e degli stivali che scricchiolavano ogni volta che cambiava posizione, attirando su di sé sguardi poco amichevoli. C’era anche lui, che in effetti le aveva lanciato occhiatacce tutto il giorno. Nel tardo pomeriggio, si era avvicinato al suo tavolo e si era presentato. Elettra aveva così scoperto che era italiano come lei e che le occhiate non erano affatto di rimprovero, stava solo cercando il momento giusto per attaccare bottone senza sembrare un maniaco. Avevano preso un caffè, si erano piaciuti e avevano iniziato a frequentarsi in modo naturale, senza giochetti o strategie. L’amore con lui era una cosa semplice. Avevano cercato casa insieme poco tempo dopo, proclamando per entrambi la fine di difficili convivenze in appartamenti sovraffollati. Si erano fatti forza quando le cose non erano andate bene e avevano celebrato ogni successo insieme. Erano stati l’uno per l’altra la sola famiglia che conoscessero in terra straniera, qualcuno su cui fare affidamento. La presenza di Sirio nella vita di Elettra era scontata. Anche quando per mesi lui era stato di cattivo umore perché non gli avevano assegnato la cattedra in università; anche quando lei si era scoperta invaghita di un collega; anche quando lui aveva dormito sul divano per una settimana dopo una brutta lite. Ricordava però la prima volta che si era resa conto di non sussultare più alla vista di lui. Per anni lo aveva considerato l’uomo più attraente della terra e ogni volta che lo guardava provava una stretta maliziosa allo stomaco. A un certo punto però questa magia non avveniva più e aveva paura di chiedergli se fosse così anche per lui. Gingie l’aveva sempre chiamata, per via dei suoi capelli rossi; e se questo colore lo stesse annoiando? si chiedeva. Il sesso era diventato molto di routine, un’abitudine – sempre piacevole per carità – ma senza scintille. Accade a tutte le coppie, si era rassicurata. Le piccole abitudini di lui che un tempo la facevano vagamente irritare d’improvviso erano diventate dei difetti giganteschi su cui non riusciva proprio a passare sopra. Il modo in cui digrignava i denti mentre dormiva la teneva spesso sveglia la notte. Una volta gli aveva addirittura chiesto se Sarah, una delle sue studentesse che gli aveva fatto gli occhi dolci (o almeno questo riteneva Elettra), sapeva che al mattino gli puzzava il fiato. Lui aveva incassato il colpo ma aveva smesso di darle il consueto bacio prima di uscire per andare al lavoro. Tanti gesti di cura, piccole attenzioni che avevano l’uno per l’altra, erano andati diradandosi. Difficilmente uscivano a cena da soli o facevano qualche attività insieme. Si erano circondati di amici, facevano viaggi strepitosi e riempivano i weekend di mostre o gite fuori porta, ma mai in coppia, avevano sempre qualcuno con loro. Stare insieme era diventato pesante, un’attività da completare in settimana come un impiego fisso. Infine Sirio aveva affrontato il discorso: dove stiamo andando? le aveva chiesto e lei non aveva saputo rispondere. Così, alcuni mesi e svariate discussioni dopo, avevano preso la fatidica decisione di separarsi. Lui era andato via di casa e lei era rimasta.
Quando si svegliò la mattina dopo, il viso gonfio per il tanto piangere della sera prima, Elettra si sentiva fragile e svuotata. Aveva una consapevolezza nuova: lei e Sirio si erano lasciati ed era giusto così. I pezzi di quello che si era rotto si sarebbero aggiustati, ci sarebbe voluto del tempo ma tutto sarebbe andato a posto. Guardò fuori dalla finestra dove, sui tetti delle casette a schiera della sua via, l’alba disegnava riflessi rosa e lilla, le nuvole vaporose e bianche si muovevano sopra la città. Elettra iniziava a vedere i colori.
Passarono tre mesi durante i quali Elettra intraprese la vera ricostruzione di se stessa e del suo appartamento. Comprò gli elettrodomestici mancanti, tra cui una macchinetta da caffè espresso manuale di cui andava molto fiera. Una domenica mattina Alma la scorrazzò con la sua auto tra diversi mercatini delle pulci, dove raccolsero dei quadri vintage e dei piattini decorativi. Gli stessi, con l’ausilio degli strumenti della cassetta degli attrezzi, furono usati per ridecorare la parete del salotto dove una volta c’erano le stampe di Sirio. Amanda aveva contribuito con un tappeto persiano di seconda mano che era finito nella camera da letto e che ogni mattina solleticava i piedi della padrona di casa quando si alzava. L’armadio era stato riorganizzato, con i vestiti invernali da una parte e quelli più leggeri dall’altra. Inoltre Elettra aveva preso a dormire al centro del letto, trovando quella posizione comodissima. Si leggeva ora nell’abitazione molta più personalità della donna come non era mai successo prima. La sorpresa più grande fu l’acquario, la ristrutturazione in realtà era partita proprio da quello. Dopo l’incontro fatidico con Christopher si era decisa a focalizzarsi su ciò che le faceva paura, che fossero quattro pesci rossi la cui sopravvivenza dipendeva da lei o quel dolore mostruoso che le albergava nel petto. Lasciandosi aveva capito cosa volesse dire amare. Era tornata al negozio specializzato e si era fatta consigliare dallo stesso ragazzo che in precedenza non aveva potuto aiutarla. Un filtro potenziato e delle compresse apposite avevano sconfitto le alghe; poi era stato il momento di introdurre un pesce pulitore (che lei aveva chiamato Gino, deliziandosi della semplicità di quel nome) e un gruppo di gamberetti blu. Aveva aggiunto piantine di ogni dimensione sia dentro che fuori l’acquario, facendo poggiare le radici nelle acque e ottenendo un effetto scenico. Tra quelle radici i gamberetti erano riusciti a riprodursi e ora tutto sembrava vibrante e colorato, compresi i pesci rossi. E mentre l’acquario rifioriva, il suo dolore perdeva spazio, sostituito da una nuova idea di sé. Non sentiva più il senso di colpa, anzi ora aveva la sensazione di essersi appropriata di quell’oggetto, tanto che scrisse a Sirio di non tornare a riprenderselo, a scanso di equivoci. Le aveva risposto con un semplice laconico grazie e lei aveva capito che in fondo anche per lui il processo di separazione non doveva essere stato facile.
Del loro rapporto le erano rimaste tante cose: i ricordi, prima di tutto, ma anche il suo modo di essere – passare insieme venticinque anni voleva dire fondersi con l’altra persona, mischiare i propri confini – la donna che era oggi era frutto di quella fusione. E di questo Elettra era grata. Sirio le sarebbe mancato sempre, ma ciò non significava voler stare con lui. Significava piuttosto avere un rispetto profondo per quello che erano stati, ma anche che era pronta ad andare avanti. Riscoprendo piccoli gesti che non faceva da anni aveva smesso di aver paura della solitudine. Aveva ripreso a cucinare le torte salate, non ricorda nemmeno più da quanto non le mangiava; a lui non piacevano, quindi semplicemente aveva cessato di prepararle. Invece ora aveva imparato a farne di ogni tipo. Quel pezzetto che aveva lasciato andare con Sirio era stato riempito da nuove cose, altri bisogni e altre certezze. Aveva ripreso le passeggiate al parco, ma non sentiva più l’esigenza di seguire una routine specifica. Inoltre, pur non sapendo come facesse a esserlo, era certa che non avrebbe più rivisto Christopher. Gli avvistamenti e tutto quello che ne era conseguito avevano assunto un significato particolare nel suo cuore, quasi di rinascita. L’ultimo incontro aveva segnato un cambiamento decisivo: quel no mentre tentava di liberarsi dei suoi pesci rossi le era sembrato, col senno di poi, un invito a prendersene cura. Un modo velato per obbligarla ad affrontare il presente e a ritrovare così anche se stessa. Non sapeva se fosse l’interpretazione corretta di quello che era accaduto, sapeva però che quella era la sua interpretazione, ed era l’unica che avesse un valore.
Il 12 agosto Elettra si recò alla lapide di Christopher per deporre dei fiori. Quando arrivò scoprì che molti altri prima di lei, quello stesso giorno, avevano fatto la medesima cosa: la lapide di marmo era circondata da bouquet freschi. Si chiese se fossero di altre persone che il fantasma aveva consigliato, per così dire. Mentre appoggiava in un angolino i narcisi gialli, in una tasca le vibrò il cellulare; era un messaggio di Amanda:
Pronta per stasera?
Ci divertiremo, le faceva eco Alma.
Certo! Non vedo l’ora, rispose Elettra.
Entro qualche ora avrebbero preso la macchina di Alma per andare in direzione dei laghi, un lungo viaggio in auto per celebrare il suo compleanno. Dal sedile di dietro, dove la confinavano sempre come una bambina capricciosa anche se era la più vecchia delle tre, avrebbe chiesto che fosse messa su qualche canzone struggente che avrebbero cantato a squarciagola mentre la campagna inglese scorreva davanti al finestrino. La spensieratezza di quel pensiero la colpì, stava ancora prendendo le misure della nuova sé, ma non le dispiaceva chi stava diventando. Appoggiò una mano sulla lapide e salutò Christopher. Poi con calma prese la direzione di casa.
Nota al testo:
L’intero racconto è un’opera di fantasia con l’unica eccezione per il personaggio di Christopher Head. I fatti narrati riguardanti Christopher si riferiscono a un episodio di cronaca nera avvenuto a Londra nei pressi del Wormwood Scrubs nel 1966, conosciuto come Shepherd’s Bush murders. In quella circostanza persero la vita tre poliziotti: il Sergente Christopher Head e gli agenti David Wombwell e Geoffrey Fox. La lapide citata nel racconto riporta, in realtà, il nome di tutte e tre le vittime.
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