Un pomeriggio del millenovecentonovantatré avevo dodici anni e ho bevuto mezzo bicchiere di martini dry. Sono caduta sul divano e non ricordo più nulla della mezz’ora successiva, forse dormivo o un fascio di luce mi ha sbattuto in una dimensione nuova.
Ero sola in casa. Volevo provare.
Però una cosa la ricordo, avevo le tasche piene di mentine, quelle morbide verdi ricoperte di zucchero a forma di montagnetta, che al tatto sono dure ma in bocca si sciolgono e sanno di freddo glaciale. Lo ricordo perché mentre buttavo giù quel coso alcolico che aveva il colore del piscio di gatto e un sapore secco, formale, tenevo la mano in tasca e le toccavo, le mentine. Le giravo e le rigiravo tra le dita. Me le aveva lasciate mia nonna tempo prima in una scatolina di latta e io l’avevo svuotata tutta, per paura che le finisse qualcun altro. Mi piaceva mangiarne anche tre o quattro alla volta e poi sentire quel bruciore ghiacciato lungo tutto il tratto dell’intestino.
Quel pomeriggio mia madre era uscita per delle commissioni e mi lasciò in casa da sola perché ormai ero grande abbastanza per restarci giusto qualche ora, così diceva.
Che ne sanno le mamme cosa combinano i propri figli quando restano a casa da soli.
Non lo sapeva mia madre che a quell’età iniziavo a farmi domande, a cambiare i posti delle cose nella mia cameretta, tra i libri, negli armadi, per non rischiare di essere capita. E non lo sapeva che proprio a dodici anni ho fatto il mio primo tiro a una marlboro rossa per provare, sempre per provare. Credo non abbia mai saputo neppure che sempre a dodici anni ho strappato la pagina del libro di mio fratello di dieci anni più grande di me, in cui si parlava di pene e di vagina e di sesso. Tante cose non le ho detto, e lei tante cose ha finto di non saperle.
Quello fu l’anno in cui morì mio nonno, il primo vero impatto con la morte.
Non mi aveva detto nessuno che accadeva anche a quelli che amavo io.
Gli adulti tengono nascosto ai ragazzini la morte, perché se no quelli si impressionano. Ma non lo sanno che i ragazzini si impressionano ancora di più quando le cose gli cadono addosso?
Mio nonno morì d’infarto a ottant’anni esatti. Si stava radendo e si accasciò sul bordo della vasca da bagno.
Se qualcuno mi avesse detto prima che i nonni muoiono – anzi: che tutti muoiono – sarebbe stato più facile.
Se mi avessero detto, ad esempio, che l’amore non esiste, che non si tocca, non è un oggetto, una cosa, una piramide, una penna, un ombrello, non mi sarei mica messa a cercarlo. Anzi: sarei stata scialla su tutto.
Quelli invece, gli adulti, ti fanno le pippe sull’amore e che bisogna saperlo curare e coltivare.
Che sono un agricoltore, io? Che coltivo le piante?
Sono una donna e certe cose da ragazzina me le dovevano dire.
Mi dovevano dire che gli uomini hanno la testa nel pene certe volte, non sempre, non tutti, e che le donne non si dovrebbero vergognare della propria vagina. Mi dovevano dire che se senti dolore da qualche parte, non esiste sempre una medicina, un anestetico o che ne so io. Se mi avessero detto tante cose, non avrei sniffato coccoina. Invece era dalle elementari che aprivo il barattolo bianco in alluminio con la scritta blu e tiravo su con il naso per sentire quell’odore di olio di mandorla che mi metteva pace. Lo facevo sempre lontana da occhi indiscreti, ero già consapevole a quell’età che nessuno doveva sapere che inalavo una sostanza per dimenticare le urla di chi non sapeva svuotare la propria frustrazione in altro modo.
Uno di quei pomeriggi, mentre ero concentrata sul mio sussidiario a ripetere la tabellina del sei, mio padre tirò un pugno verso la porta della camera da letto fino a spaccarla, invece di spaccare la faccia di qualcuno in casa. Tirò così forte che aprì un buco in quel truciolato da quattro soldi e lo fece anche dentro di me, un buco che ancora oggi non so colmare. La coccoina, anche quel giorno, mi anestetizzò. Sarà per questo che da allora ho preso un taccuino nuovo e ci ho scritto sopra un elenco di tutti gli odori che mi hanno fatto diventare grande.
Lo zolfo dei fiammiferi appena arsi per accendere una camel, sa di ansia e angoscia durante lo studio degli esami universitari.
La benzina al distributore che ti sporca le mani mentre riponi la pompa e che annusi prima di andare via, sa di nevrosi, di agitazione, anzi di fretta tra il lavoro e la cena che devi ancora preparare ai bambini.
L’odore acre di candeggina sullo straccio appena usato per pulire il water su cui hai fatto la tua ultima pipì, sa di senso di colpa, perché sai di aver fatto una cosa sporca e vuoi rimediare, ma devi farlo, devi pisciare, è fisiologico. È la candeggina che puoi evitare, ma pulire è un atto altrettanto fisiologico quando senti di aver sporcato.
La puzza di muffa sulle arance andate a male e lasciate per settimane in un angolo del frigorifero prima di deciderti a gettarle, sa di trauma vissuto da ragazzina.
A proposito di arance e traumi vissuti da ragazzina, a quindici anni risposi a mio padre, gli dissi che il suo modo di fare era cattivo e che non lo sopportavo più. Avevo osato dirgli la mia verità, lui non accettava tanta irriverenza. Quella volta mi disse che avevo proprio esagerato, così prese l’arancia che aveva sotto mano e me la tirò appresso. La mia testa si fece leggermente indietro, come il rinculo quando spari con una nove millimetri, ma l’arancia si aprì in due, si sfracellò a terra e lui mi chiese pure di pulire. Avevamo litigato perché avevo acquistato l’ultimo numero del Cioè e non avrei dovuto farlo se volevo evolvere.
L’evoluzione nella mia casa era fondamentale. Avrei dovuto evolvere anch’io se volevo una vita giusta.
I genitori sono animali feroci che sono stati figli ma che hanno dimenticato come si stava da figli.
Non esiste il manuale del genitore perfetto, lo so, ma dovrebbero almeno dare le istruzioni per non essere necessariamente il genitore più stronzo del pianeta.
I miei, ad esempio, sono diventati genitori del loro primogenito troppo in fretta, sedici anni lei e vent’anni lui, unendosi una sera di agosto in un matrimonio riparatorio, che all’epoca andava di moda, in una chiesetta di periferia del mio paese. Il parroco che li sposava ci teneva a precisare che li aveva battezzati entrambi lui anni addietro e li aveva visti crescere “così in fretta” quei due figlioli che quasi non ci credeva che erano a un passo dal diventare genitori. Non gli stava facendo la morale, ma una paternale, perché lui sì che sapeva come ci si doveva comportare, mentre loro non lo avevano capito ancora.
Mia madre ha sempre raccontato il giorno del suo matrimonio come un momento straziante, l’odore pungente di incenso l’aveva quasi stonata. Stava imparando, in quel momento, la presunzione di non essere mai pronti a nulla e di dover fingere di esserlo per necessità.
I genitori sono sempre un verbo al gerundio: imparando, facendo.
Ho spiegato ai miei figli che potrebbe, un giorno forse, capitare anche a me di restarmene comoda nel gerundio “imparando”. Forse perché mi sento migliore dei miei genitori, ma in fondo non lo sono.
Un tuffo nelle verità del passato stimolate e accompagnate dai profumi che il racconto ti fa rivivere. Una lettura tridimensionale che riaccende la coscienza e la realtà del presente e del passato.
L’ Amore di un genitore, di un figlio e del proprio partner, si coltiva per poi raccogliere ciò che di buono si è seminato, la terra e la natura ci insegna da millenni, se manca quell’ Amore e quella sensibilità nel trasmetterla, crea traumi, vuoti e ferite, che solo il tempo darà il suo vero valore.