Mia nonna si chiama Ilic, scritto così: Ilic.
È figlia di Lina e Goliardo, e aveva un fratello, Edi, morto giovane di tumore. Un libraio a Treviso lo conosceva e una volta mi disse che Edi era ironico e di cultura e che sapeva mandare a memoria diverse poesie, anche in altre lingue, come il greco e il latino. Una sua foto è incorniciata in salotto dai miei nonni: lui, nel suo studio avvolto dal fumo, sta parlando al telefono e nel mentre allunga il braccio per spegnere una sigaretta su un piattino di metallo. Porta quegli occhiali spessi e quadrati ma con gli spigoli tondeggianti molto comuni negli anni ’60, che coprono metà del viso e danno un’aria pacata e intellettuale.
Gli zii di Ilic e Edi avevano nomi altrettanto desueti: Nedda, partigiana di Nervesa della Battaglia, di cui si trova un ritratto in un vecchio archivio online, Spartaco, tornato a piedi dalla prigionia in Germania, attraversando mezza Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Morì per un neo degenerato in tumore, scorticato su un trampolino dal quale si stava tuffando. Era un’atleta. Lo immagino mentre si tuffa con un gesto perfetto, urtando per qualche millimetro l’asta del trampolino senza scomporsi nell’entrata in acqua, nel silenzio assolato di una piscina fuori città.
Goliardo, sommergibilista, è stato il più giovane ammiraglio della marina italiana, anche se io non ho mai verificato questa informazione. Doveva essere un uomo illuminato: suonava il violino, dipingeva, aveva nozioni di materie tecniche come la medicina, la chimica, l’ingegneria dei materiali. Mia nonna ricorda la sua integrità morale. “Bisogna vergognarsi solo di fare del male”, le diceva. Ora siamo io e mio fratello che lo ripetiamo a lei quando non vuole uscire perché si vergogna che i nostri amici possano vederci a spasso per la città accompagnati da una “vecchia rincoglionita”. “Lasciatemi almeno pettinare”, risponde lei, “che ho i capelli da matta”. Ma subito se ne dimentica.
Durante gli anni di lontananza per ragioni militari, Goliardo scriveva regolarmente a sua moglie, chiedendo dei bambini e di casa. Ho scoperto pochi anni fa che Lina ha raccolto e fatto rilegare tutta la corrispondenza in un volume che mia nonna nascondeva tra i tomi di una vecchia enciclopedia, ricoperti da una copertina a fiori. È stata mia nonna a mostrarmi il libro, altrimenti irriconoscibile, pochi giorni dopo aver festeggiato insieme alla famiglia i 60 anni di matrimonio con Cino, suo marito. Non ricordo se le chiesi di dirmi dove fosse o se lei stessa mi accompagnò di proposito in camera da letto per mostrarmelo. Ricordo però la sua espressione di dolore mentre lo estraeva dalla libreria per appoggiarlo sul tavolo, senza aprirlo. Con il mento inclinato, seguiva il movimento tremando leggermente con la testa, un tremore che – da quando ho memoria – non l’ha mai abbandonata. Era un peso per lei, una fatica che si era trasformata nel rifiuto ormai automatico di alterare la figura di suo padre, costruita sui pochi ricordi d’infanzia che ancora conservava. Non l’aveva mai letto e non voleva farlo. Senza dirglielo, lo presi io e lessi alcune di queste lettere, che rivelavano uno scrittore prodigioso, ma soprattutto un uomo inquieto, preoccupato per la sua lontananza e per il futuro senza un padre dei due bambini. Presagiva forse che non li avrebbe visti crescere.
Non mi è mai stata chiara la posizione politica di Goliardo. Ho imparato a ritenerlo socialista, antifascita e laico, ma servì nella marina durante tutto il conflitto. Fu accusato di spionaggio, rinchiuso a Regina Coeli e torturato, ma venne assolto difendendosi da solo, senza avvocato. Morì poco dopo aver preso congedo, appena prima che finisse la guerra. Mia nonna mi racconta che in carcere veniva fatto camminare nudo per ore e ore in piscine riempite di acqua ghiacciata. Non resse alle complicazioni ai polmoni che si aggravarono quando fu assolto. Ho cercato, qualche tempo fa, di chiederle più nel dettaglio come fossero andate le cose, da che parte stesse ufficialmente, ma Ilic era già in quella fase della vita in cui i ricordi seguono tracciati dai quali non è possibile deviare, e ogni sortita in questi territori riconduce inevitabilmente a storie già sentite, ripetute. Le chiesi anche se a Regina Coeli avesse incontrato Gramsci, cosa impossibile, e lei mi rispose di sì, che forse poteva averlo incontrato.
In famiglia cominciammo a intravedere i segni della demenza ormai dieci anni fa. Ricordo mia mamma, sua figlia, rattristata dopo una conversazione con Ilic, durante la quale mi disse di averla trovata disorientata, incapace di inanellare un ragionamento: “si perde in un bicchier d’acqua”, mi spiegò. Era vero: passò dal leggere tre, quattro romanzi a settimana al dimenticarsi dove fosse, come ci chiamassimo noi e le nostre compagne, se avesse mangiato oppure no. Era terrorizzata che qualcuno potesse ricoverarla in ospedale e, più avanti, in manicomio, era terrorizzata dall’idea di diventare matta, o di esserlo già. L’angoscia era tale che faticava a respirare e parlare, alternando attimi di estrema lucidità a lunghi, nebbiosi momenti di confusione. Una volta, a tavola, mentre mangiava interrotta dal respiro affannoso che le toglieva il fiato, guardandomi mi disse: “se davvero volete portarmi in manicomio, siete dei crudeli infami; se non è vero, allora io sono matta, ed è meglio che muoia”. Pianificava di uccidersi, ci chiedeva di accompagnarla a Parigi e spingerla giù dalla Torre Eiffel; era convinta che Dio la stesse punendo per essere stata una “mezza atea”, né atea né credente, ma agnostica, dubbiosa, e perciò ancora più malvagia perché vigliacca.
Abbiamo provato a lungo a non arrenderci al progressivo allentarsi dei tratti che l’avevano definita, nascondendolo, osservando consumarsi i lacci sempre più flebili della sua identità come se fossero episodi occasionali. Il suo profilo invece, da sempre così netto, iniziava a sfumare per davvero, come ceneri che si disperdono sospinte dal vento. Impuntarsi, provare a convincerla che nessuno di noi era intenzionato a farle del male o, peggio ancora, chiuderla in una casa di cura, non serviva a niente. Era vano, perché quando imboccava queste lunghe gallerie che correvano dentro la pancia della ragione, farla deviare o rassicurarla che ne sarebbe uscita non poteva funzionare. E poi, perché farlo? Certo, ci aiutava a sperare che le cose potessero tornare com’erano; ma in realtà era un atto di violenza o, peggio ancora, di pigrizia, da parte di chi come noi non voleva rassegnarsi a perdere l’idea di qualcuno che ama, l’idea di Ilic.
Mentre i miei zii persistevano nella strategia del convincimento, mio fratello provava a ignorarla, a non rispondere alle sue provocazioni deliranti. Io, invece, la assecondavo. Tentavo di entrare in questo suo mondo di specchi infranti e riflessi impazziti, e quando, raramente, mi allineavo alla sua logica, il rimbalzo ininterrotto dei suoi pensieri rallentava per lasciare spazio a dei tratti che – quelli sì – in mia nonna dovevano essere scolpiti, venature più profonde lungo le quali scorrono tuttora i tratti definitivi della sua identità. La sua ironia, ad esempio, di cui lei si vantava – “il mio unico pregio”, ripete ancora –, riemergeva quando per un attimo riusciva a dimenticarsi della paura di diventare matta. Presa dai suoi istinti suicidi, ci diceva che l’unico posto dove stanno bene i vecchi è cento chilometri sottoterra. Io allora la incalzavo, chiedendole se, in fondo, cento chilometri non fossero un po’ troppi: “nonna, ma hai idea di quanti siano cento chilometri?, più o meno da qui a Verona… come faccio a scavare una fossa così profonda?”; e lei, ridendo: “ti presto io i soldi per affittare una ruspa”; oppure: “vanno bene anche dieci chilometri, anche cento metri: l’importante è che non mi rompiate i coglioni”. Ridevamo insieme dei suoi capelli, lei faceva finta di pettinarli e metterli in piega; poi, guardando di lato con aria vanesia mi chiedeva: “allora, sono degna di accompagnarla in centro per un caffè?”. Altre volte, parlando dell’inferno, lei si preoccupava delle punizioni che la aspettavano dall’altra parte, ma si rinfrancava all’idea di non essere stata, tutto sommato, una donna così cattiva: “se Dio vuole mandarmi all’inferno, va bene, ma che almeno sia equo… chessò, per gente come me né buona né cattiva potrebbe fare un inferno un po’ più piccolo… un infernetto”.
Non ho mai trovato nulla di strano nel nome di mia nonna, non ho mai pensato fosse un’anomalia che richiedesse spiegazioni. Lo associo a qualcosa di piccolo e lucente, come quegli oggetti portati a casa da viaggi lontani che ci rimandano immediatamente là dove siamo stati, a qualche riflesso o profumo, alla voce di chi ce li ha venduti, o che li ha venduti a qualcun altro. Per me nel nome “Ilic” c’è la Russia, c’è la Rivoluzione, ci sono le bianche distese della Siberia, c’è qualcosa di straniante, come il sogno ricorrente che ci diceva di fare: dieci giovani donne in fila dentro una stanza, nella quale a un tratto irrompe Stalin. Camminando, Stalin le fissa a una a una. Si ferma davanti a mia nonna e dice: “tu no”. Poi le punta la pistola in fronte, e le spara. Dopo tanti anni passati a chiederle di ripetermelo, ormai è come se quel sogno lo avessi fatto io; eppure, non c’è dubbio che appartenga a lei soltanto, poiché, dal canto mio, non saprei raccontarlo come lo fa Ilic: ridendo.