Lo strucolo

Ingredienti: 1 Kg di patate vecchie o di montagna, 200 g di farina 00, 2 uova, 20 g di burro fuso, 100 g di burro, 200 g di pangrattato, sugo di carne, parmigiano grattugiato, sale.

Mio nonno fece la Campagna di Grecia e d’Albania. L’8 settembre dissero al suo battaglione di tornare indietro e loro si incamminarono. Se la fecero da dov’erano, a piedi, tra fango e zanzare e tanto altro, finché arrivarono in Istria. Si fermarono lì, e lì mio nonno incontrò mia nonna. A Montona d’Istria. Si conobbero, non ne so di più. Quando ripresero il cammino, anche lui se ne dovette andare e così proseguì fino in Piemonte, dove c’erano la sua famiglia e il suo lavoro. Lui era un Carabiniere. Ma rimase solo un mese, poi ripartì e tornò a Montona d’Istria per mia nonna. Quando arrivò lo misero in prigione, perché era italiano. C’erano tutti in prigione, per una ragione o per l’altra, tutti gli uomini: il cugino di mia nonna, suo zio, suo padre. Ci rimasero per un paio di mesi, poi li fecero uscire. Mio nonno e mia nonna si sposarono e subito dopo lui fece rientro, ma da solo, perché lei non aveva il permesso per spostarsi. Qualche tempo dopo, mia nonna e tutta la sua famiglia, tutto il suo paese e anche quelli dei paesi vicini, furono sfollati. Nel giro di una settimana dovettero tirar su le loro cose e arrangiarsi per andare da un’altra parte. Mia madre trovò una lettera di mia nonna, in fondo al suo cassetto, in cui raccontava a sua sorella il loro incontro. Quando mio nonno la rivide, non la riconobbe, da quanto era magra. E lei aveva pianto. Quella domenica, la prima dopo che si erano ritrovati, in Piemonte, nel paese dove mio nonno viveva, mia nonna per festeggiare preparò lo strucolo, uno strudel di patate tipico della sua terra.
Mia nonna ce lo preparava per Natale, per Pasqua e per il mio onomastico. Era normale mangiarlo e avere mia nonna che lo preparava. Finché mia nonna era in vita, mia madre provò a farlo diverse volte e non le venne mai. Così, quando mia nonna morì, nessuno sapeva più farlo. Mia madre non ci provò più.
Anche la mia nonna paterna aveva le sue tradizioni e, dopo che morì, mia zia ogni anno ci faceva la zuppa di Natale e ogni anno, dopo il primo assaggio, commentava: «È quasi come quella della mamma». Quasi.
Era il destino dei piatti di famiglia. Questo stavo dicendo a mia moglie, seduto in cucina a bere birra, con le mani che mi dolevano, quando suonò il citofono. Aspettavamo la sorella di mia moglie.

Non ne ero contento. Eravamo ancora in equilibrio, ma un equilibrio sempre più difficile da mantenere. Presto lo avremmo perso, quello e molto altro. Discutere ci serviva e ci piaceva, ma dovevamo stare soli, sennò diventava una cosa diversa. Sennò il nostro rito saltava.
E poi sua sorella era una scema. Era andata in Inghilterra per partecipare a un concorso di canto. Andò male, ma rimase là. Cos’altro facesse per vivere, non lo aveva fatto sapere. Ma questa cosa del concorso di canto mi aveva dato un’idea di lei che non mi piaceva.
Entrò in casa nostra con una bottiglia di London Dry Gin in mano. Indossava pantaloncini corti con la bandiera inglese stampata sul di dietro e una di quelle magliette che, se riesci a leggere cosa c’è scritto, dimostri di essere una persona intelligente. Sembrava parecchio più giovane di mia moglie. Pensai che ero stato io a farla invecchiare male.
Mi salutò appena. Io presi la bottiglia di gin, la aprii e la posai sul bancone con ghiaccio e bicchieri.
Era entrata che già raccontava di sé e ora continuava. Dava per scontato che, per il fatto che veniva da Londra, ci dovesse interessare. Versai da bere a tutti. Io scolai il primo ancora caldo e me lo riversai. Bevevo per il dolore alle mani e ancora non sapevo quello che sarebbe diventato. Mia moglie mi lasciava fare. Portò in tavola le olive verdi e nere al peperoncino.
Sua sorella ci descrisse le persone che aveva conosciuto in Inghilterra e ci raccontò dove andava e cosa faceva con loro. Ci teneva che sapessimo tutto dei suoi nuovi amici. Più lei parlava e più io mi rendevo conto di come fosse facile ascoltare cose del genere. E per un attimo provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto a che fare soltanto con cose del genere.
Le olive piccanti mi aiutavano a bere il gin e intanto ascoltavo. Andavo a caccia di tutte le parole straniere con cui farciva i suoi discorsi. Mia moglie succhiava i cubetti di ghiaccio e la ascoltava come se fossero tutte cose che già sapeva.
Mentre raccontava la storia del concorso di canto andato male, sua sorella incrociò le gambe e per la prima volta guardai dove finivano quei pantaloncini corti. Mi persi in un qualche punto delle sue cosce, finché sentii mia moglie che le diceva: «In meno di un anno ti sei già dimenticata l’italiano?» Ma sua sorella continuò e ci disse di aver fatto un corso di cucina con un famoso cuoco inglese, di quelli che si vedevano nei programmi televisivi.
A me non interessava, ma bevevo il suo gin e ancora non le avevo detto parola, per cui le chiesi: «Che tipo di cucina ti ha insegnato?»
«Una cucina internazionale, moderna ma legata alle tradizioni».
Allora dissi a mia moglie: «Potrebbe provare lei a fare il piatto di mia nonna» e così tornammo al punto in cui stavamo prima che sua sorella entrasse in casa. Mia moglie mi guardò come se quello che avevo detto fosse stato profondamente sbagliato. Continuò a fissarmi e disse: «Scoparsi lo chef non vuol dire imparare a cucinare».
Sua sorella la ignorò e mi chiese: «Quale piatto?»
«Lo strucolo istriano. Lo faceva mia nonna».
Sua sorella saltò giù dal bancone. «Carta e penna» disse, e andò a cercarsele.
Mia moglie arrivò con una coppetta piena di pistacchi salati. Stavo per ringraziarla, ma lei mi anticipò: «Basta un po’», mi disse, e io non capii se si riferisse al bere o alle gambe di sua sorella. Poi andò a preparare la cena.
Sua sorella mi appoggiò una mano sul ginocchio per salire sullo sgabello: «Raccontami di questo piatto».
Bevvi un altro bicchiere di gin. Mia moglie aveva portato via le olive piccanti. Quando iniziai a parlarle biascicavo.

Le raccontai la storia del piatto. Le dissi tutto quello che sapevo della preparazione. Poco. Io che da bambino aiutavo mia nonna a schiacciare le patate, il profumo di carne che saliva dalla pentola, il mattarello con cui la vedevo stendere l’impasto di colore giallo. Poi lei che faceva non so cosa, lo arrotolava e alla fine lo spennellava. Ah, no, quello lo faceva fare a me.
Ero ubriaco davanti a una scema che prendeva appunti, ma ero anche bambino, nella cucina di mia nonna, con il suo odore e la sua voce, ed ero anche mio nonno, in una casa di campagna d’altri tempi che sapeva d’umido. E lo strudel caldo, lasciato a riposare sul tavolo, al centro della casa, avvolto in uno strofinaccio a quadri rossi e bianchi.
«Sì, ma com’era?» me lo chiese e con la mano fece il gesto di chi si porta il cibo alla bocca, come se non capissi la sua lingua. Chiusi gli occhi e glielo dissi: lo tagliavo con la forchetta, fuori era liscio, dentro era morbido, granuloso, e mi si attaccava al palato quando masticavo. Allora il boccone successivo lo intingolavo nel sugo.
Aprii solo un occhio, presi il bicchiere e lo svuotai. Lei prendeva appunti e guardava quello che scriveva. Con l’altra mano si strusciava le gambe. Si passava la mano sulla tibia, dalla caviglia fino al ginocchio e viceversa. Non che avesse le gambe più belle di mia moglie, ma lei se le strusciava a quel modo. «C’era la carne nel sugo?» Richiusi l’occhio: «Era liquido, senza carne. Quella la mangiavamo dopo, di secondo, ma era la carne di quel sugo».
«Allora era una specie di gulash?»
«Non so, qua non mangiamo carne».
«Comunque era gulash. Da quelle parti si sente l’influenza della gastronomia austroungarica».
Pensai che forse non era poi così scema.
Intanto mia moglie ci camminava intorno a passi sempre più svelti. Non la vedevo, con gli occhi chiusi, ma le cose che faceva erano sempre più rumorose: i cassetti che chiudeva, le porte che apriva, le stoviglie che maneggiava e le seggiole che spostava.

Mia moglie finì di preparare la tavola e arrivò con gli antipasti. Sua sorella mollò carta e penna e si alzò: «Vado a cucinarlo».
«Ma è pronto» le dissi.
«Non importa. Questa è un’altra cosa».
Mia moglie si sedette davanti a me e mi servì l’antipasto. Poi stappò il vino bianco e lo versò a entrambi.
Sua sorella in cucina maneggiava pentole e teglie, accendeva il forno, tirava il cibo fuori dalla dispensa e dal frigo. Si affacciò per chiedere dove fossero le patate – quali patate avevano in Istria? – che carne fosse quella nel surgelatore – si trovava la carne nel dopoguerra? – se c’erano pane e formaggio già grattati – se avevano formaggio, a quei tempi, era di pecora.
Mia moglie le rispose come se avesse già immaginato quello che faceva, come quando raccontava le sue storie londinesi.
Avrei voluto farlo con mia moglie, quello che avevo fatto con sua sorella. Sapevo che non lo avrebbe fatto mai, perché non avrebbe cucinato la carne, ma non era solo per quello. Se lo avessimo fatto, forse il nostro equilibrio sarebbe durato più a lungo.
Mangiammo anche il resto, io e mia moglie, e bevemmo il vino.
Mi chiedevo se sarei riuscito ad arrivare sul divano e mi ero quasi deciso a tentare, quando sua sorella uscì dalla cucina e mise un sottopentola in mezzo alla tavola. «Strucolo is ready!». Tornò in cucina e ricomparve con una teglia fumante. La mise in tavola.
La guardai e scoppiai a ridere. La sorella di mia moglie fece cadere le presine sul tavolo.
«Tuo marito è uno stronzo!»
«Lascia perdere, ha bevuto».
Io continuai a ridere. Bevvi del vino, poi risi ancora.
Il fatto era che sua sorella non ne sapeva abbastanza di quel piatto, per farlo bene. Neanche mia madre ne sapeva abbastanza e neanche io. Forse era giusto così, che i piatti si perdessero assieme alle persone, come lettere troppo intime per poter essere lette da altri.
Mi guardavano tutte e due mentre ridevo. E aspettavano che dicessi qualcosa.
Quel piatto non c’entrava niente con quello di mia nonna. Meno di quello di mia madre. Solo questo potevo dire. Ma a quel punto, poco importava.

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