Ecce & Homo erano una femmina e un maschio. Grandi quanto piattini da caffè, vivevano in una vasca putrida dove faticavano a girarsi, trangugiavano gamberetti marci e gli era precluso accoppiarsi.
A Renata, anni sedici, sfuggiva il senso della loro vita. Pertanto, si sentiva in dovere di ucciderle. Maciullare le proprie tartarughe d’acqua con il pesta bistecche. Spezzargli i carapaci dentro lo schiaccianoci. Bollirle in pentola, tipo Babette per il pranzo. Oppure, gettarle in lavatrice e ascoltare il valzer letale dei loro corpi, centrifugati a mille giri. Renata era sempre stata un’indecisa.
«Allora, sei incinta?» le domandò Benno un pomeriggio di agosto.
La loro prima volta si era compiuta una settimana prima sulla trapunta del Libro della giungla. L’aveva coronata una macchia in testa all’orso Baloo. Suggellata un goldone rotto. Dopo, Renata aveva fatto il test.
«No.»
Filamenti di nubi biancastre sporcavano il cielo basso, incombente.
«Ti amo.»
Fu l’unica volta in cui Benno lo disse. Aggiunse che, allora, sì, fico: potevano andare. Intendeva: a Fuerte.
A Renata, di fare la vacanza non fregava. Voleva accoppare in santa pace Ecce & Homo.
«È pronto» strillò Augusta, la mamma di Benno.
Renata posò il culo sudato sul Domopak con cui la donna aveva ricoperto la sedia, per proteggerla da bottoni, fibbie e cerniere dei pantaloni. Spazzolarono il risotto al burro e parmigiano vecchio, che sapeva di canfora. Benno additò il mento unto di Renata, che si pulì con il palmo. Al che, lui sollevò il naso e guardò il lampadario spento.
«È proprio vero che certe donne non hanno bisogno di curarsi. Sono belle al naturale.»
Si alzò e aprì un cassetto.
Intanto, Renata covava il piano tartarughicida. Se le avesse avvelenate?
«Vieni.»
Benno le mostrò la foto di una bionda su uno scoglio. Un bikini arancione le copriva appena i capezzoli e la fregna. Le sue gambe da cerbiatta marina si stendevano con leggiadria – e una certa autorevolezza – sulla roccia. Le mani, dalle dita come alghe, avvinghiavano una rotula, in una posa plastica. Sembrava fosse il corpo della cerbiatta, nell’appoggio, a modellare la superficie. La pelle a piegare la pietra. Non il contrario.
«Come mia madre. Guardala. Questa qui è lei, alla tua età.»
Benno estrasse un bong.
«Lei non ha mai dovuto andare dall’estetista.»
Renata si guardò gli stinchi. Peli lunghi e scuri fuoriuscivano dai bulbi, andavano alla conquista della pelle, furtivi come soldati.
Benno riempì il braciere di cime di erba.
«O dal dermatologo.»
Renata si toccò la fronte, dove una divinità incarognita aveva impresso punti da unire. Li celava con una frangia da cane pastore. Quando non rifletteva su come trucidare E&H, fantasticava sul costo di un trapianto facciale.
Benno riempì il bong di acqua. Renata glielo strappò dalle mani.
«Quindi?»
«Quindi niente. Tu sei di un’altra categoria.»
Aspirò. Spire di fumo la cinsero.
Bruciarle. Forse, E&H avrebbe potuto bruciarle.
Il giorno della partenza, di fronte alla borsa tascapane di Renata, Augusta scosse la faccia, come una cavalla arrabbiata il muso.
«E questo sarebbe il tuo bagaglio?»
Renata si giustificò: per una settimana al mare, le bastavano ciabatte, due magliette, due costumi e una copia de Il meglio di Asimov.
Augusta posò il tronchese, con cui si scavava le falangi fino a farle sanguinare. Ponderò il tono e le parole, come fanno certe persone che rifilano brutte notizie alle altre. Alcuni dottori, per dire. O i commercialisti. Dipende dal tipo di rogne che uno affronta.
«Sei una signora. Cioè. Una signorina. Cioè. Una donna. Devi portare più roba.»
Le annodò in vita un pareo, da cui penzolavano conchiglie microscopiche, tali e quali alle orecchie di elfi mai nati. Posò le mani sui suoi fianchi e la pilotò davanti allo specchio.
«Ti valorizza.»
Renata sembrava un tonno nella rete.
In aeroporto, vicino al volo per Fuerte comparve la scritta arancione “delayed”. Benno bestemmiò, poi si sedette sul pavimento a giocare con un accendino.
«Hai visto quella?»
Di tanto in tanto, domandava il parere di Renata sulle femminili chiappe e poppe in transito verso i gate.
«Mi ha guardato. È vero? Secondo te, aveva le mutande?»
Renata leggeva Notturno, errava sul pianeta dai sette soli.
Appena annunciarono che il charter sarebbe partito solo l’indomani, Benno prese a calci un cestino dell’immondizia.
«Non vengo» disse Renata, mentre fissava involucri di merendine con baffi di cioccolato, bicchieri di plastica stritolati e i resti di un tramezzino sparsi sul linoleum blu.
Uscì dall’aeroporto sotto un cielo malva. Prese un autobus sporco di terra secca e puzzolente di benzina. L’autista ascoltava Super Trouper degli ABBA. Cantava senza conoscere il testo, aggiungeva sospiri alle note. A bordo, nessuno.
Quando Renata arrivò a casa, tuffò una mano nella vasca di Ecce & Homo, che si agitarono e cozzarono tra loro come matte. Renata le afferrò per la pancia. Le mise in un secchio dei panni e le liberò in un fosso.
L’ultima cosa che vide furono i loro occhi: piccoli come spilli, lucidi come l’erba. Le cicale cucivano, scucivano e ricucivano l’arazzo dell’aria.
Oggi, Renata ha cinquant’anni. Non ama i bilanci. Però, tra i viaggi che non ha fatto, quello a Fuerte è stato il più bello.