Trasportate dalle onde, le alghe le accarezzavano le dita dei piedi e ritornavano indietro.
Claudia guardava la prateria di alghe rosse che si estendeva davanti a lei, punteggiata da rari e improvvisi baluginii metallici. Ogni centimetro della vasta superficie marina era occupato da alghe; in nessun modo i raggi solari, in quel mattino estivo particolarmente soleggiato, arrivavano in profondità. A centinaia, carcasse di pesci, tartarughe e piccoli uccelli salivano a galla, tutte con gli occhi fissi al cielo e cullate dal lento, letargico movimento delle onde. Un gruppetto di persone sulla spiaggia Macé di Cannes osservava l’atroce spettacolo in silenzio. Di guardia al Palazzo dei Congressi della Croisette, il cartonato di Alfred Hitchcock assisteva alla scena dall’alto con britannica curiosità.
Sarah si avvicinò da dietro e le cinse le spalle in un abbraccio.
«Non avrei mai creduto di sopravvivere a un incidente mortale e assistere alla fine di tutto».
«Siamo finiti?».
«Sì. E trasciniamo con noi migliaia di creature innocenti».
Le neurotossine della Karenia brevis avevano effetti devastanti sulle popolazioni marine, come dimostravano le ricerche condotte in Florida e nel Golfo del Messico. La NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) ne aveva studiato le proprietà tossiche dopo il ritrovamento di migliaia di carcasse di pesci – di differenti specie – sulla spiaggia di Sarasota, in Florida. Riusciva però difficile, per Claudia, immaginare cosa avesse portato le alghe nel Mediterraneo. Era forse l’inversione di qualche corrente oceanica di cui ignorava il nome e il possibile conseguente innalzamento della temperatura delle acque? O un agente patogeno trasportato dai flussi turistici intercontinentali?
Da quando avevano passeggiato in spiaggia, quella mattina, Claudia avvertiva un forte bruciore agli occhi.
«Anche a te bruciano?».
«Sì, un po’ sì. Le cicatrici?».
«Ho una voglia terribile di grattarmi. Sento un forte prurito dove sono più scure».
«Dev’essere quest’aria secca. O forse è l’acqua della doccia. Posso spalmarti la crema?».
«Sì».
Sarah la spogliò con delicatezza. Il sole era tramontato da poco e la stanza d’albergo era sprofondata in una luce blu tifoide, che rendeva incerti i confini delle cose. Le cicatrici si incrociavano sullo sterno e si aprivano in due mezzelune sfiorando le ossa del bacino. Ovunque i segni dei punti chirurgici disegnavano strambi sorrisi. Un’altra cicatrice, invece, dallo sterno si allungava al collo, fino a raggiungere la base del mento.
Sarah baciò Claudia iniziando dalle dita dei piedi, seguì le cicatrici indugiando con la lingua nei punti più profondi; la donna trasaliva di un sottile, doloroso piacere. Con le mani ripercorse i confini segmentati come lische di pesce e i colori che si alternavano sulla pelle: il rosa dell’epidermide, la bianca cicatrice e le zone più scure, brune. Claudia le afferrò le spalle, contrasse gli arti secondo il palpitare degli spasmi che le squassavano il corpo. Quando Sarah alzò la testa dalle gambe di Claudia, era già notte e, dopo qualche carezza, si addormentarono dolcemente. Nell’hotel entrarono due clienti inglesi ubriachi che ebbero un alterco alla reception perché rivendicavano un servizio in camera di maggiore qualità; un uomo e una donna discutevano di geopolitica in una camera al primo piano mentre lui, in stivali di pelle e calze fino ai ginocchi, le accarezzava la schiena nuda e inarcata; al terzo e ultimo piano un bambino di un anno osservava il padre ballare a piedi nudi nella stanza, mentre mangiava i resti di un gelato che gli si scioglieva tra le mani. E, lontano, le alghe si mescolavano alla sabbia, trascinando sulla battigia centinaia di corpi morti.
***
Claudia fumava, fuori, seduta a gambe incrociate sul balcone rettangolare della camera d’albergo. Con la mano pendente oltre la balaustra di vetro, si voltò a guardare Sarah, profondamente addormentata, la metà sinistra del volto illuminato dalla luce lunare. Quando la sigaretta si consumò del tutto, osservò le proprie cicatrici. Le vecchie ferite sembravano pronte a sanguinare un’altra volta.
Quando la notte fu profonda e avvolgente e il silenzio calò su ogni strada tra la Croisette e la stazione dei treni; quando in giro rimasero soltanto gli allibratori, i clienti dei sexy shop con le tendine di velluto all’ingresso, turisti claudicanti in ciabatte e pretenziose clienti di bar alla moda che snocciolavano le poche parole in francese apprese dalle pubblicità televisive, Claudia sentì le cicatrici palpitare come carne viva. Si alzò e recuperò dal bagno la crema lenitiva che Sarah le aveva spalmato. Fu distratta, per un momento, dalla tenda celeste plastificata su cui erano stampati alcuni monumenti e paesaggi di Cannes. «Che pacchianata», disse a bassa voce. Si spalmò la crema con cura e attese che il sollievo arrivasse con le sue ali incantate.
«Sei ancora sveglia?», le chiese Sarah. Lo domandò senza aprire gli occhi.
«Sì».
«E che fai?».
«Queste cicatrici non mi danno pace. Mi sto mettendo la crema».
Sarah alzò appena la testa e ripiombò nel sonno.
***
Montava in Claudia – o forse dall’estrema periferia del suo corpo – un malessere vago e una strisciante, privatissima sensazione di estraneità. Il secolare lavoro di domesticazione e l’esercizio della continua, quotidiana frequentazione dei propri lombi, condotto fino alla totale identificazione di sé con il proprio corpo, stava lentamente crollando. Il suo corpo si ribellava.
Claudia si alzò, lasciò la camera e l’albergo scalza e con indosso una vestaglia leggera. Le cicatrici pulsavano di vita propria, bramavano qualcosa che lei ignorava e che si staccava lentamente dal profondo della sua coscienza e andava alla deriva, lontano, verso il mare notturno che irradiava una luce sconosciuta come un gioiello nascosto tra le rocce. Camminò per pochi metri, le immondizie fermentavano ai margini della strada. Un uomo fumava una sigaretta, in attesa di chiudere il negozio in cui lavorava, una squallida polleria. Un neon lampeggiava, blu, a singhiozzi. Ritrovò la fotografia di Alfred Hitchcock in completo bianco e sigaro, alle cui spalle giganteggiava la struttura primonovecentesca dell’hotel Miramar. Ne vide decine, di simulacri hitchcockiani, incapace di distinguere l’una dall’altra le figure della jet society stampate sui cartelloni pubblicitari che mascheravano i lavori stradali.
Inciampò sul marciapiede e si ritrovò a terra.
«Cazzo, cazzo, cazzo».
Si tamponò l’alluce con la mano, si rialzò, zoppicò qualche metro e i piedi toccarono finalmente la sabbia tiepida. Il rumore della risacca era basso, un ossessivo ritmo di fondo.
L’acqua aveva un suono chiaro.
Si alzò il vento, le palme garrirono. Il mare si increspò in mille pieghe di seta argentee su cui le barchette, legate con cime usurate a un piccolo imbarcadero, oscillavano furiosamente. Le cicatrici le facevano male, più che mai. Sentiva la pelle dilatarsi, stirarsi nel tentativo ultimo di vivere di vita propria e infine palpitare, organica. Ci fu uno strappo, si guardò lo sterno: tutto era al suo posto.
Dopo settimane di ricovero ospedaliero, mai avrebbe immaginato che le ferite potessero dolerle ancora. «Stia tranquilla» le aveva detto un gruppo di dottori, «non le daranno alcun problema». Mascherine. Le luci bianche prima dell’operazione. Le rassicurazioni dei medici dopo. Aveva ucciso un bambino di tre anni. L’aveva ucciso? Era stato un incidente, no? Gli animali morti e ammassati in gruppi come cose inutili la fissavano con un’espressione di accusa. Volti perplessi o sorpresi. Per ironia della sorte, soltanto di fronte alla morte altrui si sentì parte, forse per la prima volta, di una più ampia comunità di viventi.
Camminò verso le acque, lasciandosi la vestaglia alle spalle. Le alghe le rivolsero un timido messaggio di benvenuta, intensificando il loro colore. L’intera superficie del mare si animò di un’incandescenza sotterranea. Le alghe brillavano. Le fu allora chiaro cosa le restasse da fare.
«Non agitatevi» disse, «sto venendo da voi».
Sarah si girò sull’altro lato e riprese il sogno che aveva interrotto.
è semplicemente sublime. la dissociazione dalla realtà è descritta in maniera poetica ma ad ogni buon conto in modo crudo e realistico. complimenti.