Mio figlio è un verme

La bambina succhiava il brodo di gallotta come suo padre morto. Il petto gorgogliava allo stesso modo.

Da tempo immemorabile, ogni sabato sua madre preparava il brodo. Si sedeva di fronte alla piccola, poggiava i gomiti sul tavolo e chiudeva gli occhi, un po’ per prendere riposo, ma soprattutto per ascoltare quel virile rumore di suzione. Le sembrava di avere ancora a tavola suo marito. La bimba pareva intuire la magia, così gonfiava il petto e lappava ancora più forte. Ma tutte le cose hanno una fine e in breve tempo il silenzio ripiombava. La madre non poteva sopportarlo, allungava con acqua quel poco di brodo rimasto e riempiva di nuovo i piatti. Con le mani ruvide di chi lavora la terra, la donna prendeva il coltellino da tasca del marito, chiudeva gli occhi di nuovo, e sbucciava la mela a memoria. La spirale della buccia, sottile come un’ostia, si snocciolava con la leggerezza di un fenomeno immutabile, come l’arcobaleno o l’odore di terra dopo una pioggia forte.

Il ruttino della bambina rintoccava, segnando la fine del pranzo. Quel giorno, la piccola aveva esagerato col brodo. Il pancino stava per scoppiare e così uscì per liberarsi. Aveva sentito dire da alcuni paesani che erano tornati dall’America, che da quelle parti tutti la facevano in casa. Che cosa terribile. La bimba non poteva capire come fosse possibile. Forse era perché le case erano troppo vicine e non c’era abbastanza campagna per tutti, pensava. Oppure, da quelle parti erano tutti vecchi, o malati, e non potevano uscire. Qui in paese, chi aveva difficoltà a camminare, a una certa ora, quando non passava nessuno, riversava il càntaro sulla strada.

Nel breve tratto che separava la casa dalla sua radura preferita, la bimba pensava a com’era fortunata a poter uscire per farla in mezzo alla natura. “Sei andata a concimare gli alberelli?”, le diceva sempre sua madre al ritorno. Era una cosa decisamente più civile — avrebbe detto un giorno, una volta imparata la parola civile —. Mentre era seduta contava sempre i rami del suo albero preferito, ma perdeva il conto e doveva ripartire daccapo. Quel giorno, si alza e per qualche ragione le capita di dare un’occhiata proprio lì. E nota un vermetto, vivo, che si muove sicuro come a casa sua. La bambina non capisce come ci sia finito, proprio lì, quel povero verme, soprattutto considerando che lei non ricorda di averne mangiato uno. Lo avrebbe notato, pensa. Forse, il piccolo si era ammucciato nel brodino di gallotta per stare al caldo e lei lo aveva ingoiato senza accorgersene. No, non poteva essere andata così, perché il verme è tutto intero e in salute. Non riesce proprio a capire. Sarebbe stato spiacevole trovare tra le sue feci un verme fatto a pezzi, tutto insanguinato — per caso i vermi hanno pure loro il sangue? —. È pur sempre una creatura di Dio. E invece quello lì se ne sta arzillo, fino fino come un ferro filato, e sembra guardarsi intorno.
Allora, c’è una sola spiegazione possibile. Deve averlo partorito. Così torna tutto. Le donne fanno i bambini e i bambini fanno i vermi, che probabilmente non sono né maschi né femmine. Si chiede se sua madre lo sapeva che una cosa del genere poteva succederle. Forse non glielo aveva detto per vergogna, o si era dimenticata; era passato tanto tempo da quando era bambina anche lei.

Una volta tornata a casa, la piccola aveva continuato a pensare e a pensare, e non riusciva a liberarsi di questo tormento. Decide, così, di tornare sul luogo del parto, anche se è passato del tempo, per vedere se il figlio c’è ancora. I figli non si abbandonano. Con suo stupore, il figlioletto non c’è più. Ci sono solo delle mosche che vanno e vengono. Forse lo stanno cercando. Il verme deve aver preso la sua strada: se n’è già andato per conto suo. Per i vermi il tempo passa più in fretta e diventano subito grandi e autonomi, pensa.

Tutte le volte successive, non poteva fare a meno di controllare se per caso avesse partorito di nuovo. E infatti, una volta successe ancora. Il verme era soltanto un poco più corto e grasso. Riuscì a tirarlo fuori con un bastoncino che si portava sempre dietro. Portò suo figlio con sé, lo mise in una scatoletta di cartone e lo nutrì con briciole di pane, ogni tanto qualche goccia di brodo, e altri residui della tavola. Lo aveva chiamato Abele. Ogni sera gli cantava la ninna nanna per farlo addormentare, e certe volte pensava alla creatura che aveva abbandonato, a cui aveva dato il nome di Adamo, tutto carino, fino fino. Ma poi si consolava al pensiero che qualche anno prima le erano morti due fratellini appena nati. «Iddio ha voluto accussì», come diceva sua mamma, e così ripeteva lei.

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