canicola

Nove di agosto e un equilibrio di vento, pneumatici malconci e struscio di mezzeria – la canicola mordeva il freno.

E questo malgrado la fettuccia, una retta continua, solo a tratti interrotta, il manto affocato, fuligginoso, in alcuni punti crepato pure, aspro e sconnesso. Lamiera, a seguire, riparo di cantieri e strutture rugginose e Vietato l’ingresso: a vista, dalla strada, solo le fondamenta, un intrico di tubi e poco altro. Tufo, nella maggioranza dei casi. Sorprendono le viti, spesso basse, i pampini giallastri e gonfi che si strusciano sul terreno smosso dalle foglie verderame. Pergole di kiwi, allevamenti di struzzi, negli stessi anni in cui la domenica, al mercato di Porta Portese, vendevano pulcini colorati con una speranza di vita di una settimana.

Una volta in sella al vespino, Mario guardò l’orologio e contò l’ora sulle dita di una mano: l’appuntamento con Silvano e Paulista era per le cinque. Arbre Magique, mezzo francese e mezzo di Portici, gli aveva spifferato che Silvano si era messo in testa idee strane, che era meglio tenersene alla larga. Schivo, considerato da tutti uno smidollato, uno a cui manca almeno un venerdì, d’estate Mario consumava dita e cerini al chiosco di cocomeri in piazza.
Entrato in paese in piega, scialò gustandosi l’aria in curva, il ginocchio a sfiorare l’asfalto adombrato di ippocastani. Più in là, oltre i cancelli, superato il brecciolino, addentrandosi nel verde, s’incontrava un eczema di pioppi bianchi, radi e opachi, infestanti, rovi e neve di polline. L’appuntamento quel giorno era proprio lì, ingresso parco, davanti al Monumento ai caduti, uno dei pochi colpi di coda che salvava, con un accenno di curva, la regolarità di pieni e vuoti tipico dell’architettura di quel periodo.

Da lì si sarebbero diretti a Montichiarico, un aeroporto dismesso di velivoli privati, ingolfato di sterpi secchi, un fazzoletto stropicciato e incolto, anche se Idrolitina, che per anni ne era stato il custode, sempre lì tornava a tagliare l’erba. Se ne era fatto una malattia alla vista dell’ultima serrata di hangar, era stato il sogno di una vita, ma si era consumato veloce, effervescente come il nomignolo che si portava dietro. Tornava con indosso la divisa e si piazzava in guardiola, anche se non passava mai un cristiano e, con il tempo, il canneto, a cui nessuno badava, si era ingoiato buona parte della pista di atterraggio. Nell’acqua ferma, pochi pesci a boccheggiare e, da una certa ora, solo il frinire delle cicale.

Mario aveva assicurato la vespa al palo della luce un paio di metri più in là, sfilato la catena dalla sella, legato intorno, tra ruota e palo, e chiuso il lucchetto. Si era pulito le mani sui bermuda prima di aprire la portiera, piegare la testa, entrare e acclimatarsi sul sedile posteriore della Prinz di Silvano.
Senza tante parole, avevano ripreso la fettuccia segnando la strada con lo scarico nero, la marmitta da sostituire chissà quando. «Buttala» aveva detto Sirio, «che fai prima.»

«Tutti spostati qua dentro, il più sano ci ha la rogna» sbottò Silvano. Il primo ringhio Mario l’aveva sentito solo allora, seguito dall’uggiolare.
«Che mi rappresenta?»
«Il cane di Lovato, quello del Lavasecco.»
«Perché?»
«Sai chi è? Sai che ha fatto?»
«Niente, so.»
«Se stai con noi certe cose le devi sapere per forza.»

Non era solo chiedere il pizzo a negozianti e piccoli imprenditori: Silvano, che metteva pure la macchina, Sirio, Idrolitina e Mario erano corpo, branchie e coda di un pesce, un predatore dai denti acuminati. Annibale, che da pesce gatto aveva pure la faccia, oltre ai baffi lunghi e curati, era uno di quelli con più denti di tutti i pesci del circondario. Appropriarsi del territorio era stato un mozzico, azzannavano e strappavano senza tanti complimenti brandelli di Leviga e dintorni. Nella cricca giravano un paio di baiaffe, in saccoccia le lame. Con Regina facevano casa e bottega, una settimana in gattabuia, fino a che qualcuno da fuori trovava un avvocato compiacente, ben disposto alla difesa. Era una questione di famiglia e c’era chi chiudeva un occhio, si trovava sempre il pelo nell’uovo, l’ago nel pagliaio dell’imponderabile. Al momento della registrazione degli atti, tra i faldoni immancabile spuntava un sorcio, coda e lingua affilata, uno abituato alle pratiche d’ufficio, ai protocolli, uno che rosicchiava l’incartamento tutto, fino a che il faldone di riduceva in polvere e il reato, differito di anno in anno, finiva in prescrizione, a fare muffa in mezzo ai casi archiviati, e per un altro po’ di tempo si tirava a campare tranquilli.

Sirio era sempre in mezzo ai piedi. Erano stati imprudenti, e quello una sera li aveva seguiti oltre la rampa del garage e li aveva visti all’azione, nascosto dietro una colonna di cemento. Sarebbe stato sconsiderato anche solo pensare di sporcarsi le mani per toglierlo di mezzo. Il problema era che adesso che aveva capito come girava, quattrini e tutto il resto, Sirio non gli si scollava più di dosso. Il capoccione squadrato, i lineamenti ruvidi, ridotti a pochi tratti, parevano tirati via da una miretta, scolpito a togliere, la testa una terra emersa da un blocco grigio e informe di creta. Allampanato e di ossatura esile, sopportava a fatica un peso simile, a rischio di pendere da un momento all’altro in tutte le direzioni. Lo chiamavano Sirio a causa della forma della testa, una stella bianca avevano scoperto in seguito, tanto all’inizio erano convinti fosse un pianeta, come diceva Paulista. Pure lui era della partita, non era di primo pelo, si era lasciato alle spalle cinque anni di galera e l’incisivo destro, l’unico dente d’oro. Carosello, un maneggione di un altro reparto della famiglia Anghieri, era riuscito a organizzare, aveva tirato fuori due spicci e da allora Paulista rideva poco, ammainava il labbro superiore e navigava con un buco affacciato sulla lingua. Più spione di prima, l’occhio buono era un oblò; l’altro, offeso pure quello, a pareggiare i conti con la bocca sgangherata per un diverbio a mensa.

Da poco si erano raggrumate le nubi, una coltre fitta, bassa e minacciosa quasi a leccare la striscia di terra, in lontananza le ciminiere della zona industriale, i casermoni e l’autorivendita di usato, i primi centri abitati, in buona parte frazioni. Nati che erano lì, non si aspettavano di vedere niente di diverso. L’odore di salmastro aveva impregnato l’abitacolo, si era accomodato tra i sedili e i poggiatesta, l’umido dell’ovatta strizzata lasciava una sensazione d’acqua sulle mani.

«Potremmo andare a pesca.»

I sedili davanti erano occupati da Silvano e Paulista. Era stato lui a parlare. Dal tono si capiva che non era convinto di quello che diceva. Un modo per scacciare le mosche. «Fossi matto» lo aveva liquidato Silvano senza staccare gli occhi dalla strada. Aveva tirato giù il parasole avana, la pelle martellata appena. «Non è per quello che porti a casa, ma per come lo fai» aveva aggiunto per sigillare il discorso Paulista.

Sul sedile di dietro sedeva Mario e, vicino a lui, Idrolitina e Sirio, accartocciato sotto il finestrino. C’era una gerarchia anche di posti, valeva a seconda del sedile che occupavi. Se finivi dietro, toccava a te fare il lavoro sporco.
Si erano allontanati dalla fettuccia imboccando una via traversa, ma l’aeroporto non era ancora in vista. Avvicinandosi, ora, prendeva corpo, spezzato dal sole, il tetto ricurvo dell’hangar, una specie di cupola luminescente con all’interno i barbagli di una conchiglia. Per il resto del viaggio, aveva parlato solo Sirio. Idrolitina si era fermato al limitare del laghetto sportivo, non era arrivato manco a riva, non aveva tirato in ballo la cassetta delle esche, il sacchetto dei bigattini.
Nel vano portabagagli Silvano conservava un vecchio rastrello di quelli per far su le telline, anche se Mario restava dell’idea che era bene farle affiorare dalla sabbia, piede destro, il sinistro a seguire, accompagnati da una specie di torsione, tale e quale sua nonna, quasi una danza.

Era margine, landa di confine, una lingua di rabbia e terra di riporto, larga all’inizio, una spianata con l’hangar e la baracca del custode, poi si allungava come un impasto ben lavorato, fuggiva nel canneto, attraversava la laguna, spariva nel mare.

Battuto dal sole e dal vento, l’aeroporto era desolato. L’hangar era chiuso con una catena. Idrolitina si frugò nella tasca dei pantaloni e cacciò fuori un portachiavi con l’etichetta di plastica arancione. «Hangar, vedi? Sai leggere?» la voce era una raspa e grattava sulle spalle di Sirio, mentre con la sinistra si aggiustava il collo della divisa e spazzava via di taglio una spolverata di forfora sulle spalle. «Non era tuo, il contatto?» gli diede di bordone Paulista.

Silvano intanto armeggiava con il portabagagli. C’erano stati tempi in cui le parole non bastavano, due ceffoni e un calcio in culo, un pugno ben assestato in mezzo alle costole spesso non portavano a casa il risultato, e quelli, tempo una settimana, ricominciavano. Ecco che avevano preso a girare con le tenaglie. Paulista era un esperto, uno che s’era perso per strada, aveva metodo. Partiva dal medio, divideva la mano in due. «Così niente ci resta male», diceva, e quello di turno sulla sedia, lo straccio in bocca, legato come un salame, rilasciava lo sfintere. Bastava un dito, non c’era bisogno di spingersi oltre, così non si faceva torto a nessuno. Tutti pagavano il giorno dopo, parecchi in un’unica soluzione.

Lovato, quello del Lavasecco, era duro d’orecchi. Era rimasto vedovo cinque anni prima. Sua moglie Mirella era una susina, piccola e mora, il naso appuntito come una volpe, le forme generose, nonostante l’altezza. Se ne era andata una mattina di giugno non si era capito bene come. Era affezionato al cane, un meticcio del colore della polvere, non era vecchio, ma era epilettico e pure diabetico negli ultimi tempi; a forza di digrignare, di denti gliene erano rimasti pochi e storti. Dalle finestre aperte si intuiva un mozzicone di lingua rosa. Si chiamava Ettore, ma tutti alla fine, per colpa del diminutivo Ettorino, lo chiamavano Torino. Cane a parte, Lovato non aveva nessuno, niente figli, niente parenti. La lavanderia aveva tirato giù i battenti e il Coreano già ci aveva messo gli occhi con l’idea di aprire un solarium. In ogni caso, se si voleva colpire Lovato, più che dargli una ripassata, che tanto portava a poco e niente, era meglio fargli secco il cane. «È una carogna, morde, è asociale, Torino mio» diceva davanti all’edicola tirando il guinzaglio celeste. Si vedeva che ne andava orgoglioso, fiero della bestiola.

Torino era intontito. Una volta tirato fuori dal portabagagli, disarticolato che era, non aveva fatto né una mossa né un ringhio, pareva un cane finto, di peluche.

«Non c’è bisogno che l’ammazziamo» aveva detto Sirio, molleggiando sulle ginocchia. «Cosa ci vogliamo fare, sentiamo?» lo aveva freddato Silvano, un occhio al lucchetto, l’altro attratto peggio di una calamita dall’arancione della targhetta delle chiavi stretta tra le dita di Idrolitina.
«Come coi cinesi» aveva continuato Sirio.
«I cinesi!» gli aveva dato di gomito Paulista. «Che storia, quella.»

Avevano adagiato la bestiola a terra, su un asciugamano scuro, ingrommato di sabbia, guinzaglio e collare al collo. A vederlo, si sarebbe detto morto.
Il vento si era alzato, era caldo e sibilava, un’aria dispettosa a sfrangiare i vestiti. In cima al palo, la manica frusta sventolava nervosa. Si era staccata una lettera dalla scritta Uffici e la U penzolava di minaccia, a rischio caduta.

«Per fortuna non c’è corrente» disse Silvano e in quel momento un fulmine squarciò il cielo.
«Non è giorno» disse Paulista, si umettò l’indice sulla lingua e, insalivato, lo alzò verso il cielo per saggiare l’aria.
«Scirocco» commentò Idrolitina. «Puzza di scirocco.»

Mario si sgranchì le gambe, lo sguardo appuntato al tetto ricurvo dell’hangar limato dal sole. Lo scalpiccio si sentì solo a colpo d’occhio: il cane di polvere si era alzato di scatto e, mezzo storto, aveva preso a correre, a scarabocchiare di ombre lunghe e veloci la pista, anche se si vedeva che trascinava le gambe.

«Porca puttana» sfiatò Silvano e raggiunse il portabagagli.
«Che hai in mente?» chiese Mario.
«Tu che pensi?»

Silvano tirò fuori la carabina. «Pum!» disse prima di sparare, la canna puntata contro Mario. «Ah!» ragliò lui, portandosi una mano al cuore. Poi Silvano sparò sul serio.

«Coglione» sfiatò Paulista imitando un colpo di testa alla brasiliana.
«Mario, dici?»
«E chi se no?»
«Fischia al cane! Lovato ci aspetta per le otto.»
«Certi sgarbi non sono cosa. È diventata mezza sorda, la bestia, per colpa sua.»
«Era tipo di fare ’ste cose.»
«Caldo, eh?»
«Canicola» disse Paulista e sputò nella polvere.

La striscia di terra con quella luce era sterminata, sarà stata l’aria di colla, l’odore dello sparo, il retrogusto di polveri e asfalto surriscaldato dal sole. Era una seccatura inventarsene di storie. Non era semplice trovare quella giusta, pure con tipi come Mario, che era uno da abbocco facile. Idrolitina e Paulista, anni prima, erano nella compagnia teatrale del dopolavoro dei ferrovieri, ma non che questo aiutasse più di tanto.

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