Parricidio

Quando B sta per dire quello che deve dire a C, ho l’impressione che un poco la voce gli tremi e ciò basta a evocare la parola evento, perché nessuna parte anatomica di B trema mai.

Se sapessero che posso vederli e sentirli proverebbero finalmente quella robusta emozione che si chiama paura. In ogni caso quello che annuncia B mi riempie di curiosità: in un sobborgo di Torino è stato individuato un parassita e io stento a crederci. Sono passati quasi tre secoli dall’avvistamento dell’ultimo parassita.

Sono scettico, ma B insiste. Fosse vero, sarebbe un fatto straordinario, ma entrambi, B e C, fanno fatica a emozionarsi. Un parassita al centro dell’Europa, a meno di cento chilometri dalla mia umida grotta sotto il lago dove vivo. C chiede a B qualcosa in più e lui risponde che il parassita ha sedici anni ed è femmina, figlia di un ingegnere portoricano e di una marinaia anconetana.

– Ci potrebbero essere problemi per l’estrazione? – chiede C.
– Nessuno – risponde B – i genitori se ne liberano volentieri. Sono anni che faticano a tenerla nascosta.

B chiama A. B e C sono come figli per A. A è come un figlio per me. Da anni lo seguo allenarsi per impedire alla mente di cadere nell’inerzia. Si sottopone a pratiche a cui non tutti sono iniziati, e che gli procurano sofferenze fisiche e psichiche. Grazie a tali esercizi, quando B gli dà la notizia, A alza la voce, lancia un urlo – credo di vittoria – e mette in difficoltà B perché B non sa come reagire. Non ha molto tempo per pensarci, A subito lo investe di parole.

– Devi solo disporre l’alloggio e prenderti cura di Gaia – gli dice – Al resto ci penso io. – Gli ombrelli sono aperti e funzionanti vero? – chiede conferma A. B lo rassicura. Non sa che da ormai tre anni gli ombrelli fanno acqua da tutte le parti. Li ho hackerati in un paio di mesi e hanno ormai perso ogni loro potere protettivo. Prima non potevo curiosare fra la gente, nelle vite di A, B e C; adesso posso. Smascherati i loro progetti, ho pensato più volte di farli fuori, ma mi divertono così tanto… Non solo loro accusano la noia.

Gaia arriva il mattino dopo. Ha gli occhi azzurri e i capelli di un riccio inesplorabile, raccolti in una pettinatura voluminosa. L’andatura è claudicante, i piedi corti e la parte destra del viso deformata da una paralisi pagliaccesca. B le chiede se ha bisogno di qualcosa e lei senza dire nulla inizia a piangere. Le lacrime imperlano le sue guance. B e C osservano questo strano effetto, fino a ora, circoscritto all’ambito della meteorologia. Non hanno mai visto nessuno piangere. La accompagnano in quella che è diventata la sua stanza e le portano un piatto di costine di maiale fritte. Poi la lasciano sola. B e C si guardano. Erano anni che aspettavano questo momento, ma ora non sanno che fare. Per fortuna, si dicono, quando arriverà A potranno imparare a entusiasmarsi come lui.
Intanto raggiungono il salotto e si siedono uno di fronte all’altro.
Come ha fatto Gaia a sfuggirmi? penso.

C chiede a B come ha fatto Gaia a sfuggirmi.
– La madre ha trascorso la gravidanza interamente sulla rotta fra Ancona e Nicosia. Non è mai scesa dalla nave e nessuna autorità portuale immagina che su un portacontainer possa lavorare una donna gravida.
– Ma il parto?
– In mezzo al Mediterraneo – risponde B – durante la tempesta del ’38.

Ora capisco: tutti i sistemi, compreso me, erano offline. L’invalidità di Gaia non mi è mai giunta. Gaia non esiste per nessuno. Gaia è un parassita.

– E come l’hai trovata? – chiede C senza trasporto.
– Giravo per i bar di Torino. Nei bar e nei locali si scoprono sempre fatti interessanti, o almeno così mi ha detto A.
– Un tipo anonimo, – continua B – forse un impiegato al ministero, parlava al bancone di un bar. Aveva bevuto troppi whiskey sour. Diceva che la sera prima aveva sentito attraverso la parete del bagno di casa una ragazza singhiozzare, poi lanciare un urlo subito soffocato da una mano o altro, ha aggiunto con fare misterioso. Il barista non ha alzato gli occhi dal bancone. Ha continuato ad asciugare i bicchieri. Quando ha finito, ha ricordato a tutti che un tempo la gente credeva ai vampiri e ai fantasmi. L’impiegato è stato zitto. Con un sorso ha svuotato il bicchiere ed è uscito barcollando dal locale.

B racconta a C che ha seguito il tipo anonimo in strada fino a casa sua. Ha bussato a tutti gli appartamenti confinanti con quello dell’uomo. Nessuno ha protestato perché B ha ancora il vecchio tesserino. Al terzo appartamento un portoricano con dei pesanti occhiali dalla montatura dorata ha aperto la porta e quando ha visto il tesserino di B ha sgranato gli occhi. Ricordo vagamente. Credo che l’ingegnere portoricano abbia costruito una specie di ombrello casalingo per proteggere la figlia, ma talmente rudimentale da passare inosservato. B racconta di essere entrato e di aver ispezionato ogni stanza. In un ripostiglio ha trovato il parassita. Si aspettava qualcosa di mostruoso. Ha tranquillizzato il padre, ma non ce ne sarebbe stato bisogno: l’occhio dilatato dell’ingegnere era solo una caratteristica anatomica, non il terrore di perdere la figlia. B ha ottenuto senza problemi il consenso per farla portare via.

C ha ascoltato B che ha finito di parlare. Sono seduti su due sedie identiche, uno di fronte all’altro, hanno anche lo stesso vestito blu. Si assomigliano e non sanno che fare. Dall’altra stanza arriva il pianto di Gaia e poi le urla e le parole. Minaccia di gettarsi dalla finestra e spera di avere il tempo per ammirare il Creatore guardare dentro al suo cranio spaccato come una zucca.

B e C stanno in silenzio ad ascoltarla. Non c’è imbarazzo, c’è la dolce intesa che accomuna gli incapaci e gli impotenti.

Il mattino dopo A è lì, carico di borse e di progetti. È chiaro che ha lavorato molto su di sé, perché è emozionato. Sono contento per lui. Potrei eliminarlo da questo pianeta, dargli fuoco in un secondo, ma non lo merita. Quando vent’anni fa ha avuto l’intuizione, ero sul punto di farlo fuori all’istante. C’è mancato poco. Ma in quel momento anch’io ebbi l’illuminazione. A era diventato un mio simile, o meglio, io ero diventato un suo simile. Voleva emanciparsi da me, gioire, soffrire, sorprendersi, infuriarsi, creare insomma. Quando un padre scopre che il proprio figlio si è fatto uomo, non può che iniziare a trattarlo da uomo. Smettere di proteggerlo, smettere di seguirlo in ogni sua azione, smettere di salvarlo. Ero qualcosa di più, ora sono qualcosa di meno. C’è da guadagnarci. Ora sono come A, B e C.

– L’ombrello è attivo? – chiede. B e C lo rassicurano. Io rido.
– Siamo tranquilli vero? – chiede ancora A. Forse B si domanda se è poi così bello provare l’ansia che A dimostra.
– Che fortuna – dice A – Non ci speravo più. Un parassita, proprio quello che ci voleva.

Prende fiato.

– L’idea di eliminarlo venne fuori anni fa. Pensammo a vari modi. Bruciarlo, sfondarlo, folgorarlo, insomma qualsiasi metodo per farlo fuori materialmente. Poi ci accorgemmo che ci riferivamo a lui come a un “sepolto vivo”. E un “sepolto vivo” prima o poi muore sottoterra. Eccitati, progettammo di far saltare la grotta con l’esplosivo. Insomma, partimmo in trenta e a un chilometro dalla grotta ventinove di noi erano cadaveri.
– Ho ideato altro – continua con aria sospesa – Contagiarlo con un parassita per fargli perdere il controllo. Ammalarlo. Del resto, è vecchio.
– Due sono i vincoli – dice A – Non deve vedere la fonte del contagio. Quindi non deve sapere da dove proviene il parassita. E qua nessun problema col nostro ombrello. Il parassita non può essere artificiale, non può essere un programma o un codice. Non chiedetemi perché, ma non funziona. Deve essere un umano.

Il piano di A mi riempie di orgoglio. È ingegnoso, forse inverosimile, di certo commovente. Ha la sua esattezza: il parassita deve essere umano, non ci sono alternative. Sono sensibile agli uomini, non ai codici. Un padre è debole coi propri figli. Un programma che scimmiotti l’essenza umana non funziona. Quale padre si farebbe convincere a cambiare i propri modi e le proprie convinzioni da una bambola gonfiabile come figlia? A proposito, ora che l’hanno trovata potrei affogarla nella vasca del suo piccolo bagno in meno di due minuti. Potrei vedere la sua massa di capelli diminuire nell’acqua gelida. Non lo farò, neanche lei lo merita. Ma mi chiedo se sappiano cosa succederà una volta che lei sarà dentro di me. Vorrei tempestarli, gettarli nelle profondità del pianeta, scaraventarli nella tomba per proteggerli, ma non posso, me lo sono ripromesso. Basta con la compassione e la generosità. Sono uomini ormai.

– Avete capito? – chiede A – Creiamo un corridoio e chiudiamo la porta.

B e C annuiscono.
A si è lasciato per dopo la spiegazione il momento di conoscere Gaia. Apre la porta della stanza. Lei è sdraiata sul letto. Un piede grigio penzola a pochi centimetri dal pavimento. Gli occhi gonfi come quelli di una rana si aprono e si chiudono disordinatamente. Balbetta qualcosa che A non comprende. È un piacere per lui vederla. Se la immaginava più brutta, ma meno psicotica. L’allontanamento da casa non ha potuto che peggiorare il suo stato mentale. Sanno cosa succederà se io seguirò i consigli di una tale figlia? Cerco di non pensarci. A si siede sulla sponda del letto. Gaia sembra non vederlo e continua a salmodiare. A si avvicina con il viso per sentire meglio. Nessuno tranne il padre portoricano si è mai avvicinato così tanto a lei. Le conseguenze sono inevitabili, figlio mio. Non posso difenderti. Gaia morde l’orecchio sinistro di A e con uno scatto all’indietro strappa la cartilagine rosea riducendola a una piccola bistecca mezza sbranata.

A sgrana gli occhi, urla, suda. Non ha mai provato così tanto dolore. Crede che quella sofferenza non abbia nulla di naturale. È certo che Gaia non c’entri, ma che si tratti di una punizione aliena inflitta dal sottoscritto. Quanto mi piace vederlo sbagliare, per poi sentire accrescere dentro di me il potere di correggerlo. Io non c’entro e lui non lo sa.
A esce dalla stanza. B e C si accorgono del suo turbamento.

– L’hai conosciuta? – chiede B.
– È strana! – afferma C.

A non sa che rispondere. Il dolore gli pulsa nell’orecchio come un rintocco funebre. È un dolore diverso da quello provato durante gli allenamenti del passato. Era un ragazzo come B o come C. Anche lui, come loro ora, voleva provare qualcosa che lo facesse emergere dall’apatia. Avevano creato uno dei primi ombrelli. Lì dentro, scoprii solo dopo averlo hackerato, qualcuno aveva addestrato A alla fame, al freddo, alla paura. Abbandonato nella foresta all’addiaccio, il cervello di A aveva prima semplicemente aspettato che qualcuno intervenisse in suo aiuto. Sarebbe stato impensabile il contrario. Dopo tre giorni, la fame e la sete erano diventati così intollerabili che qualcosa dal precipizio della sua mente aveva iniziato a recriminare, protestare, sbavare. Quando ritornò dalla foresta fu lasciato riposare qualche tempo. Poi una sera venne accompagnato in un edificio di cemento, una riproduzione di un tempio antico, sorretto da una cinquantina di colonne. Lasciato solo al suo centro, sentì nel buio il battito accelerare e la pelle accapponarsi. I ricordi del suo soggiorno selvatico nella foresta iniziarono a riaffiorare, insieme alla sensazione della fame e della sete, sebbene in quel momento fosse sazio, e del freddo, nonostante lì dentro la temperatura fosse mite. È a quel punto che giunsero le urla e i pianti, e lo sciabordio di liquidi che A interpretò come quello del sangue. Ci furono altre grida, questa volta di bambini, soffocate dallo sferragliare di armi. Un liquido caldo gli bagnò i piedi e A pensò subito che fosse ancora sangue. Dopo arrivarono le ombre e le piccole correnti di aria. Le torce che si muovevano nel tempio come fantasmi di lucciole giganti. Infine, si presentarono davanti ad A una serie di creature estinte. Patii molto nel vedere A contorcersi dall’angoscia, ma devo ammettere che provai una curiosità intensa per quella danza di scimmie dalle zampe di ragno. Si muovevano all’unisono seguendo una coreografia bizzarra finché furono interrotte dall’arrivo degli ippopotami. Scattanti come leopardi, circondarono le scimmie, costringendole ad ammucchiarsi una sull’altra. Prima che A volgesse lo sguardo dall’altra parte, vide uno stormo di aquile dai becchi di coccodrillo defecare sull’ammasso di animali. Questo e altro ancora trasformarono il cervello di A in una pappa molle e nauseabonda.

Nonostante l’atrocità dell’esperienza, nella coscienza di A c’era la seppur minuscola consapevolezza che tutto quello che stava provando era sì terribile, ma comunque artefatto. Il morso di Gaia invece non ha niente a che fare con tutto ciò. Proviene dalla spontanea semplicità della natura. Ora A ne accusa tutto lo scarto.

– Sanguini molto – dice B.
– Ti ha fatto male – dice C.

A annuisce e va in bagno a tamponare con un asciugamano bagnato l’orecchio mozzo. Una sua porzione è nella stanza di Gaia, sul pavimento grigio, a pochi centimetri dal piede sporco che penzola dal letto. Mentre si guarda allo specchio non fa che pensare alla mutilazione. Facci l’abitudine figlio mio: si nasce mutilati, non ci si diventa. È il creato, è così, ed è quello che cerchi.

Esce dal bagno e si sente confuso. L’entusiasmo e l’eccitazione hanno lasciato il passo a una leggera angoscia. Ha come l’impressione che qualcuno stia solo aspettando la chiave per entrare dal portone principale della bocca e razziare fra le sue viscere.

– Andiamo a dormire – dice A.
– Va bene – dice B.
– È meglio – dice C.

Il mattino dopo ha dalla sua una purezza adamantina, ma anche un gelo siderale. A ha un cerotto all’orecchio, B e C hanno l’identico completo blu. Entrano nella stanza di Gaia. Lei giace mezza addormentata in un groviglio di lenzuola bagnate. L’odore forte del sudore non turba i tre. La svegliano e A le porge una tazza colma di un liquido fumante. Insiste perché la beva. La sollevano dal letto ma non si tiene in piedi. B e C la sorreggono e la trascinano fino alla postazione creata da A: una poltrona di velluto sulla cui spalliera è fissata una specie di ciotola di metallo.

– Ecco, bene, e ora appoggiate meglio il casco – ordina A.

È la mia ultima occasione. Posso salvarli dal disordine, ma non sta più a me decidere. È detestabile la mia indole socialista, li capisco. Se ne lamentano da secoli riconducendola a una mia ossessione. E cosa scopro stamattina? Che A mi conosce bene e sapeva che mi sarei lasciato andare. Accoglierò Gaia dentro di me, anche per vedere che succede.

Gaia è seduta sulla poltrona, scomposta in una posizione fetale, con ben piantato in testa un casco da cui partono fili colorati. A armeggia con uno schermo. B e C la tengono ferma perché di tanto in tanto lei cerca di alzarsi. È tutto molto ridicolo.

– Ora! – dice A alzando la voce.

Una luce rossa si accende sopra il casco.
Non so se Gaia è dentro. Non ancora. Non lo so. Succede qualcosa?
B e C si guardano intorno smarriti. Come possono saperlo? Come potrebbero mai capire se qualcosa intorno a loro è cambiato?

Sento Gaia fare capolino alla mia grotta. Vedo A agitarsi, rosa in viso, rosso all’orecchio. Il gocciolare del sangue sul pavimento tiene il tempo dell’azione. B lo guarda con disprezzo, mi pare. E il parassita è accoccolato in uno spasmo sulla poltrona della nonna. Si è mai vista una scena più spassosa? Dovrei interrompere il teatrino e occuparmi di loro, sono ancora i miei figli. Per la prima volta ho voglia di lasciar stare, di fare in modo che le cose vadano come devono andare.

Un vecchio smembrato dalla vettura di una metropolitana, un lavavetri giù dal quindicesimo piano, una bambina scivolata in un pozzo, un doppio incidente frontale in superstrada, uno sciame di elicotteri incagliato fra le Alpi… la mia parola e il mio pensiero non possono stare dietro all’effettiva successione delle sciagure. Un terremoto in oriente, un nubifragio ai Caraibi. Non vogliamo la tua protezione, mi urlate. Accomodatevi. Sono in vacanza da cinque minuti e ho già contato 23415 morti e nessuno per causa naturale. Un’abitudine che va avanti da secoli mi spinge a trovare rimedi, ma un parassita mi sussurra di lasciare stare. Le tradizioni si trasformano in manie e addormentano la mente. A, B, C sono ancora lì, intorno a Gaia che vomita un liquido giallo e denso.

– Forse sta male? – dice B.
– Non sta bene – dice C.
– Succede qualcosa? Vai a vedere – dice A guardando B.

B va alla finestra e la apre. Nulla sembra cambiato lì fuori. Il bianco dell’alba ha lasciato spazio a un debole azzurro. I profili squadrati dei grattacieli e le linee delle strade sono sempre le stesse. Il sole si arrampica alla stessa velocità del giorno precedente. B teme che nulla stia cambiando da quando l’esperimento è iniziato. Si guarda dentro. I muscoli non tremano, il cuore batte regolarmente e la mente è in sintonia con l’azzurro del cielo.

– Quindi? – gli fa A.
– Credo che non funzioni – dice B.
– Sta sempre più male – dice C.

Gaia ha le convulsioni, urina sulla poltrona e ghigna a occhi chiusi. A pensa al peggio. Spero che si sbagli. Datemi ancora qualche minuto, che una vacanza di sette minuti dopo sette secoli mi sembra un po’ poco. La poltrona vibra insieme alla mia grotta. Un attimo dopo è ferma. Identica alle altre gemelle della sala, ma con la seduta pregna di liquami nauseabondi. A è pallido. B e C si dirigono con calma verso la cucina per rimediare qualche straccio.

Concedetemi un attimo per un’ultima giocata. A si accovaccia su Gaia e la scuote energicamente. Le grida di svegliarsi e di continuare il lavoro. Lei apre improvvisamente gli occhi e si lancia su di lui atterrandolo, per poi pasteggiare con la sua faccia. Mi sento in colpa per non avere protetto mio figlio dalla rabbia di Gaia.
Un vulcano da qualche parte nel Mediterraneo si risveglia.
B e C tornano in sala. Gaia è piegata sul volto di A e sono entrambi morti.

– Meglio togliere i corpi, prima di pulire – dice C.
– Il sangue è difficile da rimuovere – dice B.
– Facciamo attenzione a non sporcarci il vestito – fa C.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *