Fu in Italia, nel XVI secolo, che una principessa disse,
assaporando un gelato, la sera di un giorno molto caldo:
“Peccato non sia un peccato”!
Stendhal, Cronache italiane
Ho deciso di raccontare questa storia dopo che ho visto una partita di football americano. Rams Milano contro Crusaders Cagliari. Rams in inglese vuol dire montoni.
È ambientata nel 1997, in una periferia milanese scudisciata dai treni che transitano. Si rimpicciolisce a ogni passaggio, le raffiche smosse dai convogli ne sradicano un pezzetto alla volta, la città li inghiotte. I personaggi siamo io sedicenne, mia madre parrucchiera e Hope Sanghera.
Hope era un indiano con le orecchie a forma di saponetta, i capelli neri unti pettinati di lato, la voce morbida come un frullato del Burghy. Portava completi in filati pregiati, fatti su misura dal suo sarto. Studiava all’Università Vaticana. Scriveva una tesi sull’unzione degli infermi. La sua preparazione spirituale prevedeva un’esperienza di vita in parrocchia. La nostra.
Odorava di benzoino e canfora, padre Hope. Indossava una croce d’oro giallo, piccola come un’ape, scurita dal sudore del suo collo. Dalla bocca gli usciva puzza di chiuso, che si mischiava all’acre della pelle e all’appretto con cui gli stiravano le camicie.
Nel tempo, ho cominciato a pensare alla sua bocca come a una botola emotiva. Un passaggio dentato verso le sue segrete.
«Somministrazione di viatico è solo un element of the ritual» diceva, facendo vibrare la “v”.
Ero d’accordo. Il rituale del commiato è fatto di tanti passaggi, non basta imbrattare una fronte di olio e far scivolare un’ostia lungo agonizzanti gengive. Un morente è, fino a prova contraria, un vivente, benché descritto al participio presente del verbo morire.
«Nei tribunali esiste la presunzione di innocenza. Negli ospedali dovrebbe esistere la presunzione di vita» dicevo a Hope.
Lui aggiungeva che ogni infermo partecipa alla passione di Gesù e nutre, con suffering, la consapevolezza dei Christians, il valore dei teachings. S’infervorava. La lingua gli si annodava. La scioglieva spremendosi il mento, come un limone di pelle.
«Dovremmo invitarlo» fece mia madre, mentre sfogliava il libro delle ricette.
Intendeva a pranzo. Nella sua immaginazione, Hope era malnutrito. Come la maggior parte delle persone. La gente mangiava male. O non abbastanza. O sbilanciato. Usava questa parola, mia madre. Sbilanciato.
“Guarda com’è gialla”, sosteneva della vicina nubile. “Per me, ha l’ittero”. Del giardiniere diceva: “Con quella pancia lì, chissà che colesterolo”. Alla postina dai capelli sfibrati mancava lo zinco.
A mia madre mancava il marito. Leggeva la brama di nutrimento negli altri, ma era lei che aveva fame. Di qualcuno. O qualcosa. O entrambi.
Non so definire il matrimonio, perché non sono sposato. Posso esprimerlo per come lo immagino e cioè un convivio perpetuo tra esseri e viveri, un’alleanza, buona o cattiva, che impedisce lo spegnersi come candele sotto un bicchiere.
Sono scarso in matematica. Però, ho calcolato quante volte lei e mio padre hanno mangiato insieme negli anni della loro unione. Sono giunto a quota 21.900 pasti, arrotondati per difetto.
Da quando era andato via, mia madre parlava di me e di lei al noi.
Il pronome mi faceva l’effetto del coltello dentro la mela. Noi significava abbandonati. Stava per le notti in cui la udivo accendersi una Camel dopo l’altra sul divano, davanti alla televisione sintonizzata sulle repliche di Medicina 33.
«Padre Hope mangia gli ossibuchi?» mi domandò una sera di giugno.
Avevano falciato il prato dietro casa nostra. L’odore zuccherino e marcio dell’erba spezzata penetrava dalle finestre dagli infissi in legno color miele, percorso da venature, coperto di occhi.
La costola del libro di ricette penzolava. La rilegatura disfatta, in bella vista, teneva insieme le pagine per spasmo. Ogni tanto una volava via: bisognava rimetterla al posto giusto.
«Perché non dovrebbero mangiarli?» domandai.
Sbadigliò. Schiacciò con il palmo una zanzara che le succhiava il braccio. Posò il libro a pancia in giù. Accese il ventilatore.
«Le mucche sono sacre, in India. O forse erano sacre mille anni fa, ma adesso sono animali normali.»
Mia madre aveva imparato il mondo da Piero Angela.
Guardai il soffitto. Il ventilatore vorticava, traballava, minacciava di prendere il volo e decapitarci. Lei premette l’indice sul telecomando. Aumentò la velocità delle pale, soddisfatta che ubbidissero. Le dissi che Hope era un indiano occidentalizzato e cristiano. Le vacche erano sacre per gli induisti, non per i cattolici.
Convinta, prese una Bic rossa e fece la lista della spesa sul retro di una bolletta del gas scaduta.
Oltre la zanzariera rattoppata dallo scotch si agitavano i mosconi. Fuori, si rabbuiava come una fronte. Grilli ansimavano nei buchi dei giardini, dove né scappamenti né l’irrigazione automatica giungevano.
«I mosconi sono pensieri. I pensieri di Satana» disse la mamma.
Poi, mi domandò che giorno mettevano giù il mercato. Si era dimenticata.
«Per me ha l’esaurimento nervoso.»
Sedevamo sul dondolo in giardino. Il cigolio copriva le nostre voci avviluppate.
La cuoca batté il cucchiaio di legno sul bordo della pentola.
«È pronto.»
Aveva apparecchiato con una tovaglia in lino rosa, dai bordi ricamati in argento. Messo un vaso di calendule a mo’ di centrotavola. Mi fece l’occhiolino mentre indicava il cesto del pane, poggiato dove il ferro da stiro aveva lasciato una morsicatura. Non voleva Hope se ne accorgesse.
Capii, guardando meglio e con orrore, che aveva lavato, lucidato e messo giù il servizio di nozze. Mi venne un po’ da piangere. Calici in cristallo, formaggera, insalatiera, posate e piatti erano puliti, ma s’indovinava la loro vecchiezza. Parevano vestigia. Del sentimento. Della famiglia. E difatti, come molte o quasi tutte le cose che paiono ciò che poi davvero sono, lo erano.
«Very nice» si complimentò padre Hope. Riferii. Pensai, intanto, che la tavola pareva un altare. Mi domandai chi o cosa avremmo sacrificato e perché.
«Dio dell’Antico Testamento è cruel» spiegò Hope a bocca piena.
Con coltello e forchetta scoperchiò la fetta di torta salata agli spinaci. Separò il ripieno dalla base.
«Traducimi» intimò la padrona di casa.
«Un Dio crudele» dissi.
«Mette alla prova» continuò Hope, mentre mia madre pendeva dalle sue labbra umide di burro.
Sperava di udire un’omelia privata, un esorcismo della domenica. Posò una mano dalle dita lunghe, magre e secche come grissini, vicino alla sua.
«Il sacrificio di Isacco mi è sempre piaciuto tanto.»
Sembrava parlasse della sua telenovela preferita. Che poi era Topazio.
Padre Hope spinse la pasta sfoglia in un angolo del piatto. Si pulì gli angoli della bocca violacea, si lasciò cadere il tovagliolo sulle cosce. Chiuse gli occhi, viola anche quelli. Rise come un topo incazzato.
Mia madre, impaurita, guardò il pane.
«Perché? Cos’ho detto?»
«Isacco si salva, ma al suo posto ammazzano un caprone» intervenni.
Hope quasi si strozzò. Spiegò la differenza tra caprone, male goat, e montone, male sheep, sempre ghignando. Al che, anche mia madre rise come non accadeva da tempo. Poi si asciugò le mani già asciutte contro i jeans troppo grandi, si alzò e andò a prendere l’ossobuco.
Si ricava dal garretto, la parte alta della tibia di un bovino adulto. È un taglio ottenibile anche da altre bestie, per esempio i tacchini, ma non risulta altrettanto appetitoso. Come lo so? Mio padre faceva il macellaio.
Forse, lo fa ancora, là dov’è, con l’altra. Io la chiamo così. Mia madre la chiama la troia. Credo che, ormai, sia in pensione, perché tra una settimana esatta compie settantatré anni. Della sua vita, a parte l’età, non so più altro. Né voglio saperlo. Di me dicono che sono un tipo curioso e concreto. Quando si tratta di lui e dell’altra, però, preferisco l’ignoranza e l’astrazione. Restare all’oscuro di dov’è e chi è diventato. Se lo sapessi, mi toccherebbe gestire la cosa. Accettarla, oppure no. Digerirla o sputarla.
Ciò non toglie che l’assenza di mio padre mi bracca. Tutte le volte che vedo la carne, ci penso. In termini tecnici. Immagino lame, tagli e pesi. Frollatura, consistenze, disossamenti. Ripasso come si salmistra la lingua di un manzo, come dalle cartilagini si ricavano i nervetti. Mi ricordo di quando andavo a trovarlo in negozio, il sabato. Papà si slacciava il grembiule sporco di marrone e giallo, mi metteva seduto sul banco, vicino al tagliere. Arrivavano i suoi amici. Altri macellai. Un pescatore. Un elettricista. Prima di mezzogiorno tiravano giù la cler, stappavano il Bonarda, accendevano la radio con dentro una cassetta di Celentano o Venditti, affettavano salami su un pezzo di carta, strappavano tozzi di pane da un filone. Li osservavo e pensavo: voglio fare il macellaio anche io. Diventare come lui. Avere amici come loro.
Mia madre aveva infarinato la carne e praticato due taglietti laterali, o in cottura le fibre si sarebbero arricciate. Quando posò la pignatta a tavola, mi parve fiera.
Bevve un sorso di rosé caldo. Servì la carne. Confidò a Hope che era contenta dell’amicizia fra me e lui. Mi faceva bene parlare in inglese.
«Prendiamo due piccioni con una fava. O no?»
Hope non capì. Lei si scusò, triste.
Dopo la torta di mele, che nessuno mangiò, io e padre Hope tornammo sul dondolo.
Avevo un piede scalzo e l’altro dentro una ciabatta della piscina. Affondavo le dita nude nella ghiaia. Mi guardavo la pelle impolverata.
«Voglio essere your special friend» disse.
Non avevo capito se con your intendeva il tuo o il vostro amico speciale.
«Siamo già amici.»
Un sasso mi si appiccicò alla pianta sudata del piede destro.
La mano di padre Hope mi tastò il polso, con fare freddo, medico. Lo soppesò.
«Heavy bones» diagnosticò. Ossa pesanti.
Mi guardai le braccia fermandomi ai gomiti. Scesi fino alle mani, ai fianchi, alle ginocchia, alle caviglie e ai piedi. Aveva ragione. Le mie estremità grosse, ieri come oggi, rivelavano le radici campagnole. Pensai ai nonni stallieri. All’odore di cavalli, mucche e galline. Al colore rosso paglierino del liquore di prugnolo. All’aria frizzante quando l’orto è appena innaffiato e ogni gambo di verdura libera la propria essenza. Rividi il vecchio fico dove mi arrampicavo, da cui mio zio mi tirava giù, urlante. Erano tutti morti. Anche l’albero.
Hope mi rimise la ciabatta.
Quando ci salutò, mia madre diventò buia come il televisore spento. Stringeva tra le mani il libro che ci aveva portato per regalo. Si intitolava Miseria e misericordia. Perché e come confessarsi oggi. Penso che non l’abbia mai letto.
Passò il resto del pomeriggio e della serata a interrogarmi. Avevamo dato l’impressione di gente che non si confessava? La carne era secca? I piccioni in India non si nominavano invano?
«Sono una stupida» ripeteva.
Come sempre, aveva sbagliato la cottura. Hope aveva capito che non eravamo buoni cristiani. Bisognava aggiustare le zanzariere. Stanare le vespe dai tubi dell’acqua.
Sminuzzò un pacchetto di fazzoletti di carta e si mise un po’ a lacrimare.
Quasi vent’anni dopo, una volta che ero andato a portarle la mimosa per la Festa della Donna, mi domandò:
«Perché padre Hope non è più venuto?»
Sedevamo su una panchina appena verniciata di verde scuro, addossata a una magnolia. La manutenzione quasi ossessiva del parco intorno alla residenza sanitaria mi impressionava. Ogni tanto, precipitavano petali sulle nostre fronti. Mi fissavo le scarpe. Si rispose da sé:
«Me l’avete nascosto per non darmi un dispiacere. Ma io lo so. Siamo stati noi. Gli abbiamo fatto mangiare la mucca. Non dovevamo.»
Rise come una bambina. Le asciugai il mento. Trattenni il fiato. Aprii le vertebre per far passare il coltello. Quel noi tagliava ancora.
Padre Hope lo mandarono a fare il diacono in Calabria. Mi scrisse molte lettere. Risposi a quasi tutte. Alcune erano corredate da immaginette di Santi. Altre, dalle sue foto. L’ultima è qui, sulla mia scrivania. Lo ritrae contro una staccionata, dune e ciuffi di erba bruciata sullo sfondo, braccia aperte e sorriso a forma di spicchio di luna sdraiata. Credo abbia messo su almeno trenta chili. Sembra appagato. Lontano dal seminarista appassionato di ossa che ho incontrato da ragazzo. Chissà se è lui o mi ha mandato la foto di un altro.
I resti di mia madre riposano al cimitero del paese, lo stesso da cui passano i treni e dove abbiamo vissuto finché ho compiuto cinquant’anni e l’ho fatta ricoverare. Per una forma precoce di demenza. Però, non è morta di quello. Si è spenta nel sonno e nessuno l’ha unta.
La casa del dondolo l’ho venduta con tutto quello che c’era dentro. Lei era l’unica proprietaria. Con mio padre non erano sposati.
Ho conservato poche cose. Libri. Quello bisunto delle ricette, in particolare. L’ossobuco è a pagina 101. Le istruzioni partono dall’infarinatura della carne, continuano con il soffritto, finiscono in una spolverata di gremolada, cioè limone mischiato a prezzemolo e aglio. Io non lo metto mai, perché toglie il sapore ruvido al piatto, lo tradisce.
Al libro ho incollato la costola. Lo consulto, ma non per cucinare. Lo leggo come se, attraverso ingredienti e procedure, narrasse il mio passato, potesse svelarmi il momento in cui si è disfatto fino a sparire. Come il midollo nel sugo. Sono giunto alla conclusione che sparire è il destino delle cose più tenere, sensate e pregne. Come il midollo. Sa di bestia e burro bruciato. Ha un sapore così violento, eppure si scioglie con il caldo e nessuno sa più che esiste, né che è esistito.
Indubbiamente lo stile narrativo , contaminato di poesia , è tagliente e originale . Il racconto è ben strutturato, gradevole , suscita emozioni e sorprende per le immagini che offre.
Un applauso all’autrice .