Molte vacanze della mia infanzia erano iniziate sull’autostrada del Sole, nella terribile Volvo Polar di mio padre.
Quando ci propose ancora di attraversare mezza Italia su quel mostro, mio fratello e io non protestammo unicamente perché sapevamo che la destinazione sarebbe stata la casa di villeggiatura del Lonni, in una anonima località marittima. Se molte estati fino ad allora avevano avuto lo stesso inizio, quella sarebbe stata la prima senza mia madre.
Il Lonni era il più vecchio amico di mio padre: si vantavano spesso di una foto in bianco e nero che ritraeva le loro madri accaldate coi pancioni nel pieno degli anni ’50; erano nati a un mese di distanza. Avevano poi tentato di replicare il miracolo con le date di nascita dei loro figli, ovvero noi, ma non avevano avuto la stessa fortunata precisione dei loro genitori. Eravamo nati uno dopo l’altro, in fila indiana. Alla terza gravidanza della Patti, la moglie del Lonni, mia madre aveva guardato storto mio padre e aveva decretato la fine del diabolico piano. Noi eravamo rimasti in due, loro in tre.
Quell’estate, con una delusione che non mi sapevo spiegare, avevo iniziato a percepire che il mio corpo stava cambiando e nasconderlo in magliette extra large prese in prestito a mio padre mi faceva sentire più a mio agio. Susanna, la minore del Lonni, mi aveva detto che sarei stata bene anche con qualcosa della mia misura. Io però non ero convinta. Susanna era una ragazza molto quieta e riflessiva, passava tutto il giorno in spiaggia a leggere Il Postino di Neruda. Invece Marina, sua sorella maggiore, preferiva flirtare: se non fosse stato per lei, quell’estate non avrei parlato con nessun ragazzo. Noi tre dormivamo nella stessa stanza, io in una brandina ai piedi del letto matrimoniale che loro dividevano. Ci raccontavamo storie fino allo sfinimento e soffocavamo le risate nei cuscini, tentando di non svegliare i nostri fratelli minori alloggiati nella stanza a fianco, o peggio il Lonni. Se avessimo svegliato il Lonni non ci sarebbero stati santi.
Mio fratello e io ci eravamo subito abituati ai ritmi spensierati che la famiglia Lonni ci aveva riservato. Io soprattutto, che nell’ultimo anno ero stata in affanno sia a scuola che a casa, ci avevo messo poco a sentirmi coccolata da tutte quelle braccia e da quei sorrisi, tanto che solo dopo tre o quattro giorni il ricordo di mia madre si era fatto più sbiadito. Appena arrivati la Patti ci aveva abbracciati e poi aveva chiesto a mio padre: “Quindi la Carla non è potuta venire?”
“No, doveva lavorare” aveva risposto lui, guardandola con la coda dell’occhio.
Conoscevo quello sguardo, significava ci sono i bambini; lo avevo visto decine di volte nell’ultimo anno, non ci facevo neanche più caso.
Due ville più in giù della nostra alloggiava la famiglia Rossi, composta da mamma, papà, una coppia di dolci cavalier e Lucrezia e Ginevra, due sorelle bellissime che non facevano altro che accapigliarsi tutto il giorno. Loro due, le Rossi, erano ragazze così intelligenti che a volte avevano bisogno di drammi irrilevanti per pareggiare i conti con l’adolescenza. Senza batter ciglio mi avevano accolta nel loro gruppo, complici indissolubili di Marina e Susanna. Ogni estate infatti le famiglie Lonni e Rossi si ritrovavano nello stesso paese e trascorrevano le vacanze insieme, in un tacito sodalizio che mi sembrò meraviglioso. Anche noi novelli vacanzieri assimilammo in fretta i tempi ben consolidati di quella tribù. In spiaggia ad esempio, dopo una certa ora era tradizione sedersi in cerchio sotto gli ombrelloni e parlare di qualsiasi cosa, dalla politica agli ultimi pettegolezzi sui vip, con i due cavalier in cerca di carezze. Non si abbandonava la postazione fino a quando la mamma Rossi non finiva le sigarette o fino a quando il Lonni non faceva lo scherzo della palla che, come suggerisce il nome, consisteva nel mettersi a gambe incrociate finché una palla non gli usciva dal costume da bagno. Ciò faceva imbestialire la Patti che se lo portava via mugugnando tra i denti sei il solito imbecille; ma visto che scatenava l’ilarità del gruppo (e che il Lonni era davvero un imbecille) lui continuava a farlo, con buona pace della moglie.
In pomeriggi come questo talvolta mi veniva passato un cellulare da cui usciva la voce forzatamente allegra di mia madre. Non che non apprezzassi i suoi sforzi, ma mentre lei snocciolava le domande di repertorio (e io rispondevo di conseguenza), la mia testa era già tornata nel cerchio o in acqua, dove mi aspettavano le altre. Mia madre, lo sapevo, ci rimaneva malissimo.
Fanny Portofino mise piede in spiaggia alle sedici in punto di sabato quattro agosto. Avevo sentito parlare di lei qualche giorno prima mentre, sdraiate sugli scogli, tentavamo di decidere con quale castello di sabbia avremmo gareggiato al concorso. In un paesino come quello il concorso estivo dei castelli di sabbia era un evento importante, e noi cercavamo di farcelo bastare in mancanza di alternative. Le altre mi avevano descritto Fanny (l’accento andava sulla y finale) con grande entusiasmo: non vedevano l’ora che arrivasse; e io per un attimo avevo sperato che avrei smesso di essere la ragazza spaiata. Invece, dal suo incedere sicuro sulla sabbia come se non fosse bollente capii subito che non sarebbe stata un’amicizia immediata. Rossa e lentigginosa, si muoveva con le spalle curve e le gambe larghe. I don’t speak English, rispondeva insistentemente a tutti quelli che le chiedevano del viaggio negli States da cui era appena tornata (anche se dopo la seconda volta la battuta non faceva più ridere), troncando sul nascere qualsiasi altra domanda. Figlia unica, con i suoi genitori completava il gruppo che ogni anno si incontrava su quella spiaggia e ora, mi pareva, tornava riluttante al suo posto nel cerchio sodale.
Già da quel primo pomeriggio insieme avevo notato un certo distacco nei suoi atteggiamenti, come se, pur divertendosi con noi, altrove l’aspettasse qualcos’altro di più importante da fare. Sedute sul bagnasciuga, eravamo concentrate nelle nostre attività quotidiane, ovvero Susanna leggeva mentre noi chiacchieravamo di qualche indefinito argomento. In realtà io ero imbronciata: quella mattina avevo parlato con mia madre e la sua insofferenza alle mie risposte sbrigative era sfociata nel classico commento sei come tuo padre (commento di cui si era pentita subito, a onor del vero). Avevamo bisticciato brevemente, poi le avevo passato mio fratello non avendo intenzione di ripiombare nel mio cupo stato d’animo cittadino. Eppure anche in spiaggia non riuscivo a non pensare al nostro litigio. Mentre osservavo l’orizzonte corrucciata, il Lonni aveva cominciato a prendermi in giro per il mio bizzarro look da mare. Sopra al costume da bagno la maglietta di mio padre mi arrivava fino a metà cosce – quindi secondo i miei parametri ero nuda. Alla presa in giro, risposi sbuffando con un dai, chiaramente infastidita. Fanny, che a sua volta sembrava assorta in altri pensieri, si destò sentendo la mia risposta: “Guarda che i problemi sono altri”.
Per un secondo la freddezza di quella frase mi piombò addosso come un secchio d’acqua; le altre smisero di parlare e ci guardarono, Susanna con gli occhi sollevati dal libro. Ginevra interruppe l’imbarazzo proponendosi di farmi una treccia e, prendendomi sottobraccio, mi portò un po’ più lontano. Le altre tornarono subito a parlare tra loro, ma capii che stavano rimbrottando Fanny. Non mi aveva ferito ciò che aveva detto, piuttosto mi ero sentita improvvisamente vulnerabile, scalfita proprio nel cuore di ciò che ritenevo invisibile agli altri. Mentre Ginevra mi pettinava i capelli incrostati di salsedine, mi stringevo silenziosa nella mia maglietta.
A parte quell’episodio, i giorni trascorrevano serenamente. Avevo l’impressione di essermi presa una felice pausa da Milano, dal caldo, dalla mia casa. Se in città mi aspettava un futuro tutto da costruire, con una scuola nuova e chissà cos’altro, lì con quelle ragazze mi sentivo sempre più al sicuro. Fanny e io avevamo trovato il nostro equilibrio in poche chiacchiere ma in tanti silenti sorrisi. Se in spiaggia indossavo ancora le magliettone di mio padre, la sera avevo rincominciato a portare i miei vecchi vestiti, quelli della mia misura, che mia madre era riuscita a infilarmi in valigia nonostante le proteste. Uscivamo per l’ora di cena e non tornavamo fino alle prime ore del mattino. Andavamo ai falò in spiaggia coi ragazzi che Marina aveva rimorchiato; e quando a notte fonda mamma Rossi strillava al telefono alle sue figlie di tornare immediatamente, rientravamo verso casa ridendo e pedalando sulle nostre biciclette coi capelli sciolti nel vento. Se avessi potuto, avrei fermato il tempo in modo da rimanere lì per sempre.
La notte di San Lorenzo salimmo sul tetto a vedere le stelle. Mia madre aveva chiamato qualche ora prima con il resoconto della sua giornata e mio padre mi aveva allungato il telefono non appena il suo nome era comparso sul display. Sdraiata sul cemento caldo guardavo le stelle senza pensare a niente, con un vuoto che mi inchiodava le spalle al pavimento. Le altre intanto discutevano ridacchiando di un argomento imprecisato. Con la scusa di usare il bagno scesi di sotto, in realtà avevo bisogno di stare un momento da sola. Sul balconcino del pianerottolo notai però Fanny che fumava. Non mi ero accorta che fosse sgattaiolata via e non sapevo se avvicinarmi. Fu Fanny a rendersi conto di essere osservata e mi fece cenno di raggiungerla fuori.
“Genitori, eh?” mi disse. Senza darmi il tempo di rispondere, mi mise una mano sulla spalla e aggiunse: “Scusa per l’altro giorno. Sono una stronza”. Non mi diede il tempo di replicare: “E sono incinta” concluse. Le mie sopracciglia si mossero per la frazione di un secondo, poi ne ripresi il controllo e feci per chiedere: “Cosa? E tu vuoi…” ma lei fece subito no con la testa. Poi mi allungò la sigaretta che stava fumando. La presi tra le dita e osservai la linea rossa che bruciava. Me la misi tra le labbra, feci un tiro – il famoso primo tiro, nello specifico – e buttai fuori il fumo. Chiaramente non avevo idea di quello che stavo facendo, ma era l’ultimo dei nostri problemi. Quel segreto, il segreto più grosso del mondo, sanciva la nostra amicizia; qualunque cosa fosse successa tra noi era stata annientata da quelle parole. Mentre guardavo il fumo disperdersi dissi, senza pensare: “Come le volute di un drago”.
Fanny mi guardò e mi sorrise: con solo un paio d’anni di differenza eravamo due bambine che cercavano di risolvere un casino da adulti.
Il giorno del concorso il mare era un placido telo azzurro tirato fin sulla spiaggia. Le gobbe dei due draghi che avevamo plasmato entravano e uscivano dalla sabbia, in un particolare gioco a effetto che aveva studiato Marina, quando Fanny le aveva proposto di gareggiare con un drago.
“Ne faremo due” aveva detto lei, prendendo subito in mano la situazione, “ma li facciamo uscire e rientrare nella sabbia, sembreranno enormi”.
E così si era deciso. Era stato necessario scavare e accumulare sabbia la notte prima, ma alle cinque del giorno successivo la nostra opera aveva preso vita. In attesa della decisione dei giudici guardavo in silenzio l’acqua. Esattamente trenta giorni prima mia madre mi aveva detto che lei e mio padre si stavano lasciando, così, mentre mangiavo un gelato al limone e piantavo gli occhi nel Naviglio. Mi era venuto da ridere, nervosamente. Tornando a quel momento, pensai che avrei avuto tutto il tempo per trovare una reazione più adeguata il giorno dopo, una volta rientrata in città. Nel frattempo il Lonni aveva rincominciato a prendere in giro il mio outfit da spiaggia, ovvero la mia magliettona d’ordinanza. Incrociai lo sguardo divertito di Fanny, che aveva plasmato la sabbia assorta nei suoi pensieri tutto il giorno. In quel momento le risate mi sgorgarono sul viso.
La notizia arrivò alle cinque e trenta: le ragazze del drago si erano classificate prime assolute, aggiudicandosi l’orrida coppa con targhetta personalizzata. Avevamo vinto. Festeggiammo ed esultammo spingendoci sul bagnasciuga, tra grida e schizzi d’acqua. Mio padre mi buttò in mare senza darmi il tempo di togliere la maglietta; poi una a una si buttarono anche le altre. Che gruppo di sciattone sentimmo dire da una vecchia del paese, inacidita per la nostra vittoria. Un’ora più tardi il Lonni propose di rimandare tutte le celebrazioni a cena e visto che nessuno si muoveva, si esibì nello scherzo della palla. Come al solito funzionò.
Quella notte, per l’ultima volta, andammo in spiaggia. Marina mi diede una scatola; dentro c’erano Il postino di Neruda con tutte le sottolineature di Susanna, un pacchetto di Lucky Strike (Fanny mi fece l’occhiolino) e due fotografie di noi immortalate vicino ai nostri draghi di sabbia, scattate quella stessa giornata. Ginevra era riuscita a farle sviluppare in tempo record nel tardo pomeriggio dal figlio del fotografo, che aveva una evidente cotta per lei. Sul fondo della scatola scorsi anche la targhetta della coppa, scardinata appositamente per l’occasione; passai il dito sulla scritta “Le ragazze del drago – Primo Premio, 2001” e sorrisi. Poi Lucrezia ci fece un cenno e tutte insieme ci avvicinammo ai draghi. Non volendo lasciarli alla mercé dei ragazzini del paese, avevamo deciso di distruggerli noi stesse. Fanny sferrò il primo calcio, che venne seguito da molti altri. Avevo pensato che distruggere la nostra opera sarebbe stato triste, invece era quasi liberatorio. L’avevamo portata alla vita, era compito nostro stabilirne la fine. L’umidità aveva reso la sabbia solida e difficile da sfaldare: lavoravamo sulle gobbe con forza; notavo che anche nei gesti delle altre c’era la stessa ira dei miei. Infine, quando non era rimasto quasi più niente, con entrambi i piedi salii sulla testa del drago più piccolo, mentre Fanny faceva la stessa cosa col drago più grande, tendendomi una mano. In un attimo i musi delle nostre creature si sgretolarono sotto al nostro peso, noi con le mani giunte senza dire una parola. In pochi minuti le fatiche di una giornata intera si erano dissolte davanti ai nostri occhi. Contemplammo per un attimo ancora la disfatta dei nostri draghi e, senza parlare, pedalammo verso casa.
Quando mi svegliai la mattina dopo, mio padre aveva già caricato la mia bicicletta nel baule della Volvo. Gli altri ci aspettavano nel parcheggio. Ci scambiammo gli abbracci finali e ci ripromettemmo di non mancare all’appuntamento l’estate successiva. Nel giro di un mese avrei incominciato la scuola superiore, le Torri Gemelle sarebbero cadute e i miei avrebbero ufficializzato la loro separazione. Avremmo avuto due case, mio padre avrebbe venduto la Volvo in favore di uno scooter e io avrei riposto in soffitta le mie bambole, salutandole per l’ultima volta. Fanny avrebbe abortito alla fine di settembre, ce l’avrebbe accompagnata Marina. Dopo mi avrebbero scritto un laconico messaggio (‘fatto’ e un cuore) che avrei ricevuto durante l’ora di latino, mentre una leggera pioggia autunnale bagnava i vetri della mia aula, e io avrei capito. Guardavo l’orizzonte e non pensavo a niente. Mio padre imboccò l’autostrada, non saremmo mai più tornati in quel luogo incantato.
Beh cosa posso dire con una lacrima che mi scende sulla guancia.
Come ho amato quella Volvo Polar…
Che dire Claudia, non ho mai avuto dubbi sulle tue qualità di scrittrice e si l’adolescenza è una brutta bestia!
Non leggo quasi mai!! Ma se scrive la Claudia, mi tuffo subito! Complimenti!!
Viva L adolescenza con problemi annessi, poi si cresce e ci si guarda indietro con tanta nostalgia. Brava Claudia
Bellissimo! Non vedo l’ora di leggere il tuo primo libro… e tutti quelli che verranno!
Potrei scrivere di conoscerti poco,ma quando leggi l’anima di qualcuno…la conosci eccome.Il tuo scrivere appassiona ,emoziona ,coinvolge.Grazie