Coniglio rosso sangue

Mia madre non era una donna di molte parole, le cose dovevi capirle da solo.

Quando morì mio padre, nessuno me lo comunicò. Ero piccolo, ma non troppo piccolo da non poter comprendere il concetto di “morte”. Mia madre non mi fece sapere che mio padre era morto, semplicemente un giorno lui non tornò più dalla macelleria che avevamo sotto casa.

Aprirono la macelleria che si erano appena sposati. Io sono arrivato di lì a qualche anno, ma di mio padre in macelleria ricordo poco. Presto l’immagine di lui dietro il bancone è stata sostituita da quella quotidiana di mia madre nello stesso esatto punto, con la solita espressione cinerea e i coltelli sempre in mano.
Mi hanno raccontato che nel quartiere mio padre era molto amato e che si fidavano solo di lui, per questo dopo la sua morte nessuno veniva in macelleria. Non potevano fidarsi di una donna che tagliava la carne. Ma mia madre non si era lasciata intimorire dagli sguardi dei passanti, dalle loro artificiose condoglianze. Ogni mattina, per diverse settimane, aveva aperto il negozio allo stesso orario e chiuso poco prima dell’orario di cena, finché la Signora Cortina non era entrata per la prima volta dopo mesi. Si stava facendo vecchia, diceva, e camminare tanto per raggiungere un’altra macelleria stava diventando faticoso.
Piano piano la nostra piccola attività di famiglia si ripopolò. La verità era una sola: mia madre con i coltelli ci sapeva fare. Era brava e la sua carne era di qualità, anche se era la carne di una donna.

Percorrendo a ritroso gli anni, non riuscivo a ricordare mia madre senza i suoi coltelli. Nemmeno quando ero piccolo, e piangevo tutto il pomeriggio mentre lei serviva i clienti e affettava la carne. Con il tempo mi ero abituato: quei coltelli erano diventati un’estensione del suo corpo. Lei era sempre indaffarata, sempre intenta a tagliare qualcosa. I miei occhi ricadevano spesso sul tavolo metallico dove li riponeva ordinatamente. Erano coltelli di ogni forma e dimensione, ognuno curato e lucidato e poi rimesso a posto. Avevo passato anni a studiarli e a imparare a identificarli, anni a chiedermi perché fossero tanto importanti da dover essere sempre così puliti, così affilati, così perfetti. Mi divertivo a osservarli, a immaginare per che cosa li avrebbe usati mia madre.
Lo “Spelucchino” ad esempio era un piccolo coltello dalla lama ricurva che serviva per tagliare con massima precisione la carne.
C’era poi il coltello per filettare, utile a ricavare i filetti dal pesce intero scartandone il meno possibile, ma mia madre non lo usava spesso perché il pesce non le piaceva.
Il coltello trinciante era lungo e stretto, e serviva a triturare, affettare, sminuzzare tutto ciò che non era troppo duro.
Fondamentale era la “Mannaia”: la sua lama era sempre perfettamente affilata, mia madre la impugnava salda come una spada. Serviva per la rottura delle ossa, e certe volte quando sbattevo un piede da qualche parte o mi stiracchiavo appena sveglio, il “crack” delle mie ossa mi ricordava tutti quei pomeriggi che avevo passato in macelleria con mia madre perché non aveva a chi lasciarmi, e rabbrividivo ogni volta immaginandomi quell’enorme coltello sospeso sopra di me.
Ma il mio preferito era il coltello per disossare. Mia madre ci passava delle ore, muovendolo delicatamente come un pennello sulla sua tela rosso sangue. Questo coltello serviva a liberare il tessuto muscolare dalle ossa, a eliminare il grasso e i nervi. Ogni volta che la vedevo scuoiare un animale rimanevo sempre colpito dalla sua mano ferma e decisa, dalla meticolosità con cui procedeva in modo da scarnire completamente l’animale senza danneggiare la carne. Guardarla era quasi ipnotizzante: con la concentrazione di un’artista e la precisione di un chirurgo, muoveva il polso a volte impercettibilmente fino a ripulire il pezzo di carne di ogni imperfezione o impurità.

Pochi anni dopo la morte di mio padre, un vicino di casa mi regalò un coniglio.
Era un grosso coniglio biancastro, morbido e dagli occhi rossi come il sangue. Di animali simili ne avevo visti tanti in macelleria, ma mai uno vivo. Mia madre inizialmente non aveva accettato di buongusto la nuova presenza, ma mi aveva permesso di tenerlo nella speranza che mi avrebbe tenuto impegnato mentre lei era giù in macelleria a lavorare. Al coniglio mi ero affezionato velocemente, tanto che avevo paura di lasciarlo. Quando dovevo andare a scuola passavo tutto il giorno in ansia, terrorizzato che intanto mia madre lo avesse preso e ucciso e spellato per venderlo. Non avevo motivo di temere: mia madre non aveva mai manifestato interesse alcuno nei confronti dell’animale.
Un giorno, tornato da scuola, ero entrato nella mia stanza e il coniglio non era più lì. Non c’era traccia né di lui né della sua gabbia, così mentre il panico mi saliva fino in gola mi inginocchiai e mi misi a gattonare guardando sotto il letto e sotto l’armadio, sperando si fosse infilato da qualche parte. Poi corsi in cucina da mia madre a denunciarne la scomparsa con le lacrime agli occhi. Lei mi guardò impassibile, quasi confusa, e indicò la gabbia messa a testa in giù dentro la pila.
«Ho pensato che fosse il caso di lavarla, cominciava a puzzare. Il tuo coniglio è chiuso in salotto.»
La sensazione di sollievo che provai in quel momento non mi capitò di provarla mai più per tutta la vita. Ringraziai mia mamma con la voce ancora tremante, e corsi ad aprire la porta del salotto per verificare le sue parole.

Il mio coniglio visse ancora un altro paio di anni dopo quella giornata, finché di nuovo, tornando da scuola, non lo trovai più. Sperai che si fosse ripetuto l’episodio della prima volta, sperai che il coniglio fosse vivo a scorrazzare tra le sedie del salotto, ma mia madre mi informò che era morto quella mattina. Non vidi mai il suo cadavere, e per anni desiderai di averlo fatto. Non riuscivo a scrollarmi di dosso il dubbio che fosse stata mia madre a prenderlo e a portarlo giù in macelleria, a liberarsi finalmente di quella piccola bestia dagli occhi sanguigni. Non riuscivo a levarmi dalla mente l’immagine del suo corpicino raggruppato su sé stesso, il suo pelo bianco macchiato di tempera rossa.

Non ero spaventato da mia madre, ma non riuscivo mai a immaginarmela senza i suoi coltelli, e anche quando capitava che lei mi abbracciasse non riuscivo a non stare rigido rigido e a sperare che finisse presto. Quando la vedevo in cucina o in macelleria rimanevo a fissare le sue tante lame. Sapevo che la punta di quel coltello conosceva i cuori, ne aveva toccati tanti. Mi ripetevo che era il coltello di mia madre a intimorirmi, avevo visto come poteva tagliare in due un animale e certe volte mi trovavo a chiedermi cosa sarebbe successo se lo avesse avvicinato alla gola di un uomo. Ma ero piccolo e avevo bisogno di lei e quello vinceva sulla paura.

Più volte avevo sentito mia madre asserire che la gente mangiasse la carne solo perché non sapeva da dove proveniva e come faceva ad arrivare nel loro piatto. Io mi chiedevo perché allora facesse proprio quel lavoro se la disgustava tanto, se pensava fosse così peccaminoso.
«Mangiare la carne è un istinto» sosteneva però lei con quegli occhi da aguzzino. Mi diceva sempre che se la gente avesse potuto si sarebbe mangiata anche me. Che se un giorno avesse affettato e venduto suo figlio scrivendo sul cartellino della vetrina il nome, ai clienti non sarebbe importato.
«Chi ha fame mangia. La carne è carne, non importa di chi è.»

Crescendo, nella fase delle tante domande, avevo iniziato a chiedere a mia madre perché facesse quello che faceva. Cercavo di testare i suoi limiti e la sua morale, cercavo di capire fino a dove si sarebbe spinta.
«Non ti fanno pena?» Le avevo domandato.
«Chi?»
«Gli animali.»
«O mangio loro o muoio di fame. La natura ha previsto così.»
Era bizzarro come mia madre riuscisse a trasformare tutto in una questione di sopravvivenza. Sapevo che vedeva un mondo in cui le persone potevano essere solo carne o macellai, e io non mi sentivo né l’uno né l’altro.
A me piaceva mangiare la carne non solo perché aveva un buon sapore, ma perché sapevo che laveva preparata mia madre. Mi faceva sentire più vicino a lei.

A quattordici anni mi ero accorto che mia madre forse non mi voleva così bene come pensavo. Avevo iniziato a derubarla. Scendevo in macelleria, prendevo qualsiasi cosa ci fosse di già affettato sul bancone, e correvo sopra a cucinarla. Quando mia mamma tornava a casa non mi chiedeva niente, finché non cominciò a notare le sparizioni. Un momento pensava di aver tagliato un chilo di filetto di mucca, e un momento dopo erano solo settecento grammi. La carne stavo imparando a cucinarla in tutti i modi: in padella, al forno, al vapore, bollita e fritta. Il sapore di quella carne era ancora più buono perché sapeva di sfida, di peccato.
Eppure le volevo bene. Le volevo bene per davvero. E, qualche volta, lei ne voleva a me. Ne ero certo quando cercava di dirmi qualcosa senza parlare, di farmi capire cosa intendeva con il suo linguaggio muto e i movimenti delle sue mani sciolte e taglienti. Di tutte le cose che mia madre aveva silenziosamente cercato di mostrarmi, dalla morte di mio padre ai segreti del mestiere che non voleva spiegarmi ma che sperava apprendessi da solo, ce ne erano alcune che avevo capito troppo tardi anche se lei aveva provato ad avvertirmi per tutta la vita. Mia madre mi aveva insegnato che l’amore sa essere una forza cannibale che dopo aver consumato gli altri, prima o poi si mangia sé stesso. Così, quando finalmente un giorno di inverno, dopo che tornai da scuola, la vidi entrare nella mia stanza con la presa salda su un coltello imponente e affilato come tante volte lavevo immaginata da bambino, non rimasi molto sorpreso. Pensai al mio coniglio.
Anche quella era una lezione silenziosa che mi stava impartendo da tutta la vita.

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