Dalila mi guarda con un’espressione… la stessa di quando la prima volta mi aveva chiesto: “Cosa sei, tu? Insetto o fiore?”
Cosa sono non lo sapevo ancora. Sapevo solo che volevo esserle ovunque: sopra e sotto, addosso, dentro. Sapevo che al sesso nemmeno ci pensavo, e che poi era spuntata lei, il primo giorno di terzo liceo. Il suo profumo riempiva la classe. Il suo incarnato chiaro lasciava vedere le vene; le parti scoperte – le mani, le braccia, il collo e il viso – sembravano verdi. Mi aveva fatto pensare alla statua nella fontana della scuola: una ninfa con una brocca tra le mani, avvolta in una veste sottile, coperta da un leggero strato di muschio. Sapevo che avrei voluto scoparla lì, sul fondo della vasca, io sotto e lei sopra, mentre l’acqua, scendendo dalla brocca, le bagnava anche i capelli.
Sono vergine, l’unico della classe a non averlo mai fatto. Fin lì avevo superato ogni giorno, senza drammi, le battute e le risatine degli altri, l’esclusione dalle confidenze maschili in cortile, a ricreazione, e tutte quelle domande idiote sulla dimensione del mio cazzo, quante seghe mi facessi, se per caso non fossi frocio. Giusto ieri mi avevano appiccicato dietro la schiena il disegno di un omino stilizzato – io – tutto ingobbito a causa del peso in avanti che era costretto a sopportare – due testicoli enormi, gonfi per la troppa astinenza – e ancora non mi era importato nulla.
Ora è tutto diverso. Posso specchiarmi negli occhi di Dalila, per quanto siamo vicini. Sento di essere solamente ciò che vede lei, di esistere per come Dalila mi percepisce e in nessun altro modo.
“A cosa stai pensando?” provo a chiederle. “Ti secca che io sia vergine?”
Dalila inclina appena la testa senza dire né sì né no. È imperscrutabile. Fa un passo verso di me, allunga il braccio, spalanca la mano e l’appoggia sul mio petto.
“Che vuoi fare?” domando.
“Codificarti.”
Una notte l’avevo sognata. Lo stavamo facendo: Dalila seduta a gambe aperte sul suo banco e io davanti, in piedi, pronto a venirle dentro. Ritrovarla il mattino dopo in quella stessa posizione mi aveva turbato. Teneva la schiena all’indietro, lo sguardo basso sul bacino colpito dall’unico fascio di luce diretta che attraversava la finestra. Mancavano più di venti minuti al suono della campanella; in classe c’eravamo solo noi due e sapevo che sarebbe stato così ancora per un po’. Non ero mai riuscito a trovare il coraggio di parlarle prima. Quel momento mi era sembrato perfetto.
“Ciao” le avevo detto allora, e non sentendo il suo saluto di rimando, visto il modo in cui continuava a stare, rilassato, senza il minimo irrigidimento del corpo o smorfia del viso, avevo avuto l’impressione che Dalila non riuscisse a concepirmi – che proprio non potesse farlo. È di un altro pianeta, avevo pensato. Sono infinitamente piccolo rispetto a ciò che la sua mente è in grado di elaborare: nullo – i suoi occhi non possono mettermi a fuoco; produco suoni troppo deboli per essere captati dalle sue orecchie. Oppure, penso adesso, non è un problema di percezione; apparteniamo allo stesso pianeta, ma qualcosa ci impedisce comunque di comunicare. Una differenza di specie. Insetto e fiore.
Siamo nel bagno delle femmine, di fianco ai lavandini. C’è sciopero, la scuola è quasi deserta, ma per precauzione abbiamo lo stesso blindato la porta bloccando la maniglia con il cestino degli assorbenti e una scopa presa dallo sgabuzzino dei bidelli.
Mi giro verso lo specchio. Il suo corpo traspare tra le pieghe della camicetta sottile, cerca di schizzare fuori dai jeans attillati. Sembra non stare mai fermo, anche quando immobile. È in continua evoluzione: si allunga verso l’alto nelle giornate di sole, rattrappisce quando invece è nuvoloso. Oggi emana tanta forza da risultare immenso. Nel confronto il mio sparisce, coperto dalla tuta che indosso, grigia come le piastrelle del muro.
“È successo qui? È qui che ti hanno… vista?”
Vorrei sapere tutto di quel momento – il punto esatto in cui si trovava Dalila, se stava in piedi dritta o curvata, perché non avesse chiuso a chiave, se fosse stato intenzionale – quando l’altra ragazza aveva aperto la porta trovandola con i pantaloni ancora abbassati.
Dalila stacca la mano dal mio petto, lasciandomi una sensazione di freddo al centro dello sterno. Non risponde alla mia domanda. Invece, seria, mi chiede: “Vuoi vederla?”
Dall’incidente in bagno, per tutti Dalila è quella strana. Più strana di quanto già non lo fosse, così taciturna, mutevole, aliena. Ciò che di lei non può essere compreso, finalmente ha preso forma nella sua fica e, anche questa, sembra essere indefinibile. Chi l’ha vista non sa dire di più: Dalila ce l’ha strana.
Le femmine pensano sia contagiosa; le passano accanto di corsa, strillando, e poi ridono come a dire “scampato pericolo”. I maschi continuano a ripeterle che fa schifo da quando il mio compagno di banco, indicandomi, aveva urlato: “Dalila fai schifo, non ti scoperebbe manco lui!”
“Comunque non è vero” le avevo detto dopo, quello stesso giorno, “io ti scoperei anche subito.”
Avevo aspettato la fine delle lezioni, quando tutti avevano lasciato l’aula mentre Dalila, come sempre, era rimasta seduta per poter essere l’ultima a uscire da scuola. Volevo rassicurarla, ma le mie parole erano venute fuori male, il tono troppo eccitato. Eppure le erano arrivate, Dalila mi aveva sentito. E subito me l’aveva domandato: “Cosa sei, tu? Insetto o fiore?”
Aveva aperto le labbra in un modo che mi aveva fatto pensare alla sua fica strana. Per come aveva alzato il collo, portato in avanti il mento, stretto le guance, avevo immaginato tutti i possibili percorsi delle sue vene, dalla bocca fino al pube – il suo corpo nudo.
“Insetto o fiore?” aveva ripetuto. Finché non le avessi risposto, avrebbe continuato a chiedermelo.
Stavo sudando. “I-io,” tentennavo, “n-non lo so.”
Più che delusa, Dalila mi era sembrata intenerita; aveva sorriso. E alla fine aveva detto: “Mi accompagni in un posto?”
Lo studio del ginecologo distava mezz’ora a piedi da scuola. Durante il tragitto, né io né Dalila avevamo aperto bocca. E anche dopo, una volta arrivati, aveva parlato quasi solo il medico. Prima ci aveva fatti accomodare davanti alla sua scrivania, poi aveva chiesto a Dalila di andare nell’altra stanza, togliere jeans e mutandine, e sdraiarsi sul lettino.
Io ero rimasto ad aspettare seduto là dove mi trovavo. Allora, avevo realizzato, tra me e il corpo mezzo nudo di Dalila c’era solo una parete in cartongesso tanto sottile da farmi sentire tutto.
“Si rilassi e mi faccia vedere.”
“Mi dispiace, devo toccare per poter capire. Non si preoccupi.”
“Va bene. Adesso passiamo all’ecografia.”
“Il gel è un po’ freddo, l’avverto.”
“Eccoci: questo è l’ovaio destro, e questo è il sinistro. Una volta al mese producono un ovulo, che poi scende nelle tube di Falloppio. L’avete fatto a scuola?”
“Se l’ovulo viene fecondato si impianta qui, in questo organo a forma di pera. È l’utero, lo vede? Dall’ecografia le sembrerà appena un’ombra, ma ha proprio la forma di una pera rovesciata.”
“Il suo utero è perfettamente normale. Sa, è importante che non ci siano anomalie. Deve pensare all’ovulo come a un seme che nell’utero viene protetto e nutrito. E cresce, cresce. Se l’utero è in salute, il seme sarà in salute.”
“Abbiamo finito. Può pulirsi e rivestirsi con calma. Io l’aspetto alla scrivania.”
Il profumo di Dalila non è mai stato più intenso di quando, dopo pochi minuti, aveva lasciato la stanza col lettino per tornare a sedersi al mio fianco. Anche il medico ne sembrava inebriato, o forse stordito. L’aveva fissata a lungo, senza parlare. Infine si era schiarito la voce e aveva detto: “L’ecografia non ha evidenziato niente di anomalo, può stare tranquilla.”
“Per quanto riguarda la forma” aveva continuato, “beh, è solo una questione estetica.”
“Ogni donna ha una vulva diversa, la natura è varia. Se poi, quando avrà dei rapporti, le darà fastidio, possiamo valutare un intervento di chirurgia plastica. Ma, ripeto: solo se le darà fastidio. Dal punto di vista fisiologico, quella forma non è un problema.”
Mi ero reso conto che Dalila non stava ascoltando. Mentre il medico le parlava, lei gli guardava oltre le spalle dove, sul davanzale della finestra, si trovava una pianta di orchidea. La scrutava rapita; i suoi occhi la percorrevano dal basso verso l’alto, si intrecciavano tra le radici verdi nel vaso trasparente, risalivano lungo i rami carichi di fiori bianchi.
“È bellissima, non trova?” aveva detto il medico, notando dove si stava concentrando l’attenzione di Dalila. “I suoi petali sono unici.”
“Tepali” lo aveva corretto lei.
“Mi scusi?”
“Nelle orchidee non c’è il calice, il fiore esce direttamente dallo stelo. Quelli non si chiamano petali, ma tepali.”
Dalila sbottona i pantaloni e li abbassa in una volta sola, assieme agli slip.
La guardo. Chiudo gli occhi, li riapro. La guardo.
Le sue grandi labbra si schiudono allargandosi come palmi spalancati, orecchie pronte all’ascolto. Le piccole labbra, arricciate ai bordi, curvano verso il basso; sono separate ma, dove si sfiorano, sembrano fondersi diventando un tutt’uno. Al centro il clitoride, tondo e sporgente, ricorda quello che nelle orchidee, mi aveva detto Dalila dopo essere usciti dallo studio del ginecologo, si chiama labello. Serve ad attirare gli insetti. Durante l’impollinazione, questi prelevano il polline dalla parte maschile del fiore e lo portano alla parte femminile, dove scende fino a raggiungere l’ovario.
La professoressa di scienze ci aveva spiegato che nell’ovario il polline feconda un ovulo, che l’ovulo fecondato diventa un seme, e che l’ovario contenente il seme diventa un frutto. “Il fiore è l’organo riproduttivo delle angiosperme” ci aveva detto, “le piante a seme protetto.”
“Nelle angiosperme il seme viene appunto protetto dal frutto” aveva aggiunto, “a differenza delle gimnosperme, che sono a seme nudo.”
A quel punto aveva tirato fuori dalla borsa una pigna – dicendo: “Gimnosperma” – e una pera – “Angiosperma” – e le aveva agitate in aria. Allora i pinoli si erano staccati naturalmente dalle squame della pigna, spargendosi sulla cattedra per poi finire a terra rotolando. Dalla pera, invece, non era caduto niente. “Ai suoi semi ci si arriva solo tagliandola in due con un coltello” aveva ribadito la professoressa, “perché la pera li protegge”.
“Quindi” aveva detto Dalila interrompendo la lezione – tra le pareti della classe, la sua voce stava risuonando artificiale ed estranea come una sirena d’emergenza; tutti si erano fermati per ascoltarla – “quindi anche io sono un’angiosperma?”
“Cosa vedi?” mi chiede Dalila, puntando in giù l’indice della mano destra.
“Un fiore” le dico io, “petali.”
“Tepali” mi riprende, “guarda: manca il calice. Le grandi e le piccole labbra escono direttamente dalla carne.”
Mi viene da stringere gli occhi a causa del troppo sole – entra dalla finestra, colpisce lo specchio, disegna giochi di luce sul viso verde di Dalila e, da lì, irradia.
Lei intanto ha alzato le braccia; le lascia crescere fino al soffitto, contorcersi, ondeggiare. Mi chiede: “E adesso lo sai? Sei insetto o fiore?”
So per certo cosa vuole sentirsi dire. “Insetto” rispondo, e mi avvicino per toccarla.