Ecco, ora la vedo: si distingue dal gruppo per la frangetta e il vestito rosa.
In effetti, Clara mi aveva anticipato già un paio di settimane fa come la costumista le avesse chiesto di vestire un capo come questo: comodo, leggero, ma soprattutto che rendesse agile il movimento. Si è quindi decisa per una vestaglietta in raso color pesca. Chissà cosa prova… Un senso di vuoto? Una sana tensione? O semplicemente freddo? Dopotutto, il sole è calato quasi completamente e sul campo da baseball in cui ci troviamo ha iniziato a soffiare un’aria piuttosto gelida. Mi chiedo quali criteri abbiano spinto l’organizzazione a scegliere un campo sportivo nella periferia di Torino come teatro della performance a discapito di qualcosa di più caldo e raccolto, oltre che più facile da raggiungere per noi del pubblico. Chissà. Vedremo. Può essere che la regista avesse bisogno di sfruttare l’orizzontalità di uno spazio aperto in tutta la sua ampiezza, così da agevolare una diffusione di corpi che andasse in profondità senza mura a limitarne le gesta. O può darsi che la scelta abbia seguito criteri di ordine prettamente estetico.
Il colpo d’occhio, in effetti, non è male. Alla mia destra, si stagliano delle palazzine altissime in stile brutalista: solide forme plastiche con pareti di cemento a vista; mentre dalla parte opposta del campo, una recinzione di filo spinato segna l’inizio dell’aeroporto dove a intervalli regolari atterrano velivoli privati. Non c’è nulla, in ciò che mi circonda, che possa offrire coordinate temporali precise. Potremmo essere negli anni sessanta, quanto nel futuro del duemilatrenta. E invece siamo nell’ottobre del duemilaventitré e il mio orologio segna le diciotto e zero uno. Giusto in tempo. Spostandomi coi mezzi pubblici temevo sarei arrivato in ritardo, e invece lo spettacolo deve ancora iniziare. Meglio così. Se Clara mi avesse beccato arrivare a esibizione in corso ne sarebbe rimasta delusa, ormai la conosco. E poi è stata carina a chiedermi di venire. E dato che tra noi sta nascendo qualcosa – anche se ancora non so bene che cosa – non me la sono sentita di declinare l’invito. Senza contare che l’ingresso era gratuito e che una volta conclusa l’esibizione Clara mi ha garantito un aperitivo a base di vino biodinamico nella sala prove qui a fianco. Sarà tutto offerto da Harmonie Libre, un’associazione culturale che da quasi un decennio, a detta dell’opuscolo che mi è stato consegnato all’ingresso, promuove svariati progetti grazie ai fondi stanziati dall’Unione Europea. In questo caso, si tratta di un laboratorio teatrale della durata di due mesi e culminante con lo spettacolo a cui assisteremo tra qualche minuto. La descrizione dell’evento che mi ha girato Clara su WhatsApp parlava di “un’esperienza performativa che si interroga su cosa vuol dire essere una comunità”. Julicha Becker, la giovane regista originaria di Dresda che ha ideato questo spettacolo, e che oggi esordisce anche nei panni di coreografa, è stata per anni una delle più promettenti allieve di Marina Abramović, e io, come sempre capita in questi casi, sono pronto al peggio del peggio. Già queste porcate naïf mi suscitano fastidio e perplessità, figuriamoci se di mezzo ci si mette anche il più grande bluff che il panorama dell’arte contemporanea abbia visto negli ultimi quarant’anni.
Molto è stato detto nei riguardi dell’artista serba. Soprattutto dai detrattori. C’è chi l’ha definita una gallina delle uova d’oro, chi una versatile pubblicitaria e chi un’abile impresaria di sé stessa. Ma quello che ancora non è stato detto, forse per timore, forse per calcolo o forse perché di rado il mondo dell’arte viene accostato con leggerezza a quello della finanza, è come Abramović incarni perfettamente un’azienda con le gambe; un brand da esporre in ogni galleria, in ogni padiglione, in ogni museo per poterlo sfruttare fino all’ultimo centesimo; una vacca le cui mammelle lacrimano denaro e che per questo vanno obbligatoriamente munte fino all’ultima goccia. Ecco quello che è stato l’esordio di Marina Abramović per il mondo dell’arte contemporanea: la mano giusta nel momento decisivo della partita. Due assi? All-in! E il costo? Irrisorio. Mettiamola nuda al centro di una sala completamente vuota e facciamole sputare addosso dai passanti; oppure conduciamola in una delle stanze della Pinacoteca Ambrosiana e facciamole cagare sangue davanti alla Madonna del Latte di Marco D’Oggiono. Virale in quattro secondi netti – se solo all’epoca ci fosse stato il concetto di viralità per come lo intendiamo oggi.
A ogni modo, ormai sono qui e voglio essere sincero: pur di portarmi a letto un corpo così, come quello di Clara, sono tranquillamente disposto a soprassedere (per quanto riguarda il valore intrinseco dell’opera o della performance o di qualsiasi cosa sia) e successivamente a mentire (per quanto riguarda invece il mio giudizio su di essa). D’altronde, cosa potevo aspettarmi? Da una come Clara, intendo, per quale vaga ragione avrei dovuto aspettarmi qualcosa di diverso, e anche, perché no, di migliore, rispetto a quello a cui sto per assistere? Avrei dovuto capirlo la sera in cui volle assolutamente mostrarmi alcuni cortometraggi scritti da Isabella Rossellini e diretti da Jody Shapiro. Era da poco rientrata da una lezione di cinema quando, tolto il cappotto, sfilate le scarpe e preso il controllo del mio portatile, digitò nella barra di ricerca un titolo piuttosto curioso. Dopo nemmeno un secondo il motore di ricerca restituì una serie di video e lei ne selezionò un paio. Nel primo, dal titolo Bed Bug – Seduce me, un’ormai attempata Rossellini in calzamaglia si faceva scopare e successivamente uccidere da un enorme insetto rosso con un pugnale al posto dell’apparato riproduttivo; mentre nel secondo, Mantis – Green Porno, veniva scopata e poi divorata da una colossale mantide religiosa. Riguardo il primo, Clara mi disse intravedere un velato tributo a Seven di Fincher, mentre il secondo, a suo modesto parere, poteva essere visto come una commovente lettera d’amore alla saga di Alien. E tremava. Mentre diceva queste cose tremava di gioia.
Ma ecco, ci siamo. Credo stia per iniziare. I ventiquattro membri della compagnia si sono disposti lungo i due lati, dodici per lato, a formare una “V”. Clara è nella fila di destra. I piedi nudi ben saldi nell’erba, le mani contratte, i muscoli tesi e gli occhi che da qui mi sembrano chiusi. Lo spettro di età è molto ampio: la più giovane del gruppo – quella ragazzina bionda sulla sinistra – non sembra nemmeno maggiorenne, mentre il più anziano, o colui che direi tale, deve aver superato da poco i settanta. Ed è proprio lui che di colpo alza un braccio verso il cielo e inizia a inspirare ed espirare a velocità sempre maggiore. A ruota lo seguono anche gli altri e nel giro di qualche secondo i respiri si sincronizzano. A questo punto, il gruppo rompe le file e si sparpaglia lungo il prato. Ognuno di loro raggiunge un punto diverso dell’area di gioco, e lì, fermi sul posto, iniziano a simulare tre azioni distinte: otto persone per ogni azione. C’è chi si sfiora le gambe partendo dalla caviglia e arrivando al ginocchio, come se dovesse infilarsi un calzino; chi sembra raccogliere dell’acqua da una ciotola e lavarsi la faccia; e infine chi finge di slacciarsi una cintura di sicurezza. Tutte e tre le azioni vengono ripetute in loop per almeno due minuti, al termine dei quali ognuno abbandona la propria postazione, corre lungo il campo, raggiunge un punto che prima era occupato da qualcun altro ed esegue un’azione diversa rispetto a quella precedente. Sono uno sciame allucinato. Come se l’erba calpestata contenesse tracce di segale cornuta.
Dopo dieci minuti sembra che tutti siano entrati in una sorta di trance agonistica, anche se diseguale e discontinua. I più giovani hanno debuttato con un’intensità fisica che riescono a mantenere costante. Hanno l’esplosività muscolare tipica dei vent’anni. La resistenza di chi non sente la fatica se non dopo ore di sforzo prolungato. Mentre i più anziani, già dopo qualche minuto, mostrano i primi segni di stanchezza: le fronti sudano, le gote avvampano e durante le transizioni capita che s’incaglino in qualche zolla, ruzzolando poi a terra. Senza contare che a ogni nuovo scatto i loro bronchi esplodono in un rantolo; quando si avvicinano alle prime file del pubblico si percepiscono nitidamente le membrane dei polmoni vibrare per l’affanno. Tuttavia, a differenza dei più giovani – tutti molto attenti a prendere la cosa seriamente per fare bella figura davanti ai presenti –, la parte più âgé del gruppo sembra più disinvolta e divertita. Sanno di avere meno da perdere e questo li aiuta a mettersi in gioco. In particolar modo uno di loro ha catturato la mia attenzione. Un uomo sulla sessantina. Pelato, barba bianca e occhiali neri a montatura tonda. Risalta rispetto al gruppo per l’ampiezza dei gesti e per la totale assenza di controllo e di misura. Tutto ciò che fa – ogni movimento, ogni espressione – lo fa per sfogo sincero. Come se l’unico obiettivo fosse un rilascio frontale di endorfine. Inoltre, è l’unico a cui ho visto scappare un sorriso: non il sorriso di chi sta eseguendo correttamente un’azione e ne sorride compiaciuto, ma quello di chi è tutt’uno con essa ed è felice di esserlo; è il sorriso di un equilibrio raggiunto.
Torno su Clara. L’avevo persa di vista per qualche minuto, ma ora il mio sguardo ha incrociato una sua transizione. Qui, a dispetto di quanto accade fuori dal campo, Clara esprime la propria fisicità in modo introverso. Alcuni del gruppo, ho notato, alzano regolarmente gli occhi verso il pubblico, come a cercare una conferma o uno sguardo d’approvazione che possa conferire loro maggiore sicurezza. Mentre quello di Clara rimane inchiodato al terreno. Il movimento, comunque, non appare teso, e anzi arriva leggero, preciso e ordinato. Come se avesse mappato e poi memorizzato non solo la propria parte, ma anche quella degli altri; i quali continuano la corsa seguendo un ritmo sincopato: a volte si arrestano in pose plastiche, le mantengono per qualche secondo e poi ripartono di scatto.
La ragazza seduta alla mia destra trattiene a stento le risate. Mentre l’uomo alla mia sinistra sbuffa, poi sfila il telefono dalla tasca e inizia a scorrere compulsivamente Instagram. Qualche fila più in là, due amiche si scambiano sguardi di imbarazzo. Poi una si accosta all’orecchio dell’altra, copre la bocca con la mano a conca e le sussurra qualcosa. Forse le confessa il proprio disagio. O forse le chiede, retoricamente, per quale ragione abbiano accettato l’invito a una performance come questa. E me lo chiedo anch’io. Anche se la risposta la conosco già.
È a questo punto che i membri del gruppo si arrestano per tornare lentamente a disporsi nella stessa formazione che ha preceduto l’avvio della performance. A uno a uno si posizionano lungo le due rette che formano il vertice, e rimangono immobili, in attesa di qualcosa, forse dell’applauso.
Ci fosse stato un inchino, avremmo capito. Ma invece niente. Perseverano nell’immobilità. Ed è in questo intermezzo dove l’incertezza si unisce all’incomprensione che noi del pubblico ci accorgiamo di un’immensa scritta rossa olografica farsi sempre più nitida sulla facciata di uno dei palazzi che circondano l’area.
Recita: “135R-1△-13R910△-▽12117△-91-1012N412”. Ecco, lo sapevo. Sapevo che mi avrebbero infinocchiato anche questa volta. Come sapevo che sarei rimasto deluso; per non dire infastidito. Ma speravo che almeno il titolo cifrato mi sarebbe stato risparmiato. E invece niente, proprio non ce la fanno. Non riescono a sopprimere in alcun modo l’impulso di mostrarsi più criptici, profondi, brillanti ed enigmatici di quanto in realtà non siano. Dal pubblico si alza un brusio interrogativo che viene subito spezzato da qualche timido applauso. Sarà il parente di qualcuno. Ma è un clamore di mani più utile a riempire il vuoto scavato dall’imbarazzo che non a esprimere consenso ed entusiasmo. Nel frattempo, incrocio lo sguardo di Clara; in risposta, abbozzo un sorriso.
Per la prima volta il mondo.