Mi diceva che l’avevo voluto io.
“Spingi, nessuno ti ha obbligata a fare un figlio.
È normale il dolore, cosa gridi?”
Mi metteva le mani dentro come se non fosse più mia la vagina. Ero spalancata, una cavalla avrebbe avvertito più dignità. A lei nessuno avrebbe detto che non doveva alzarsi, nessuno le avrebbe fatto notare l’irrequietezza, nessuno l’avrebbe spinta di forza sul giaciglio.
Ero spalancata come un armadio e dentro, in bella vista c’erano tutte le cose che non avrei mai voluto mostrare, il disordine per esempio, la pila di camice non stirate, la preferenza per un colore specifico di magliette. E, più indietro, le cose che non mi andavano più. Cose che adoravo ma che non avevo il coraggio di buttare. Speravo, un giorno, di indossarle di nuovo, senza notare il grasso sui fianchi e la pelle moscia delle cosce.
C’è odore di varichina, ora.
La vacca grassa non ha saputo spingere. I fianchi erano troppo stretti. Era stata troppo seduta, troppo a mangiare. Lo aveva voluto lei anche se non c’erano state richieste specifiche. Aveva avvertito il peso di una tromba sul fondoschiena e le formiche, tante formiche avevano invaso il suo campo visivo.
Allora aveva gridato ma era stata ripresa subito da quella ostetrica magra dai capelli corti e bianchi. Le aveva spiaccicato i suoi occhiali neri e doppi in faccia e le aveva detto che gliela avrebbe fatta pagare. Punti di sutura lenti e profondi, per esempio o incidere in trasversale verso l’ano.
Era corsa da lei e prima di piazzarle le mani sul volto, l’aveva sentita abbaiare “lasciatela a me”.
“Siamo io e te bella vaccarella fammi vedere cosa sai fare. Vuoi o non vuoi la creatura uscirà”.
I dolori appena marcati del ciclo, ecco cosa sapevo. Le doglie erano una mestruazione più pesante. Delle gambe divaricate davanti a mezzo personale non me ne avevano parlato. E neppure del clistere da fare prima. C’era una fetore incredibile di merda ed era la mia. Le facce disgustate erano degli altri. Le parole tirate dietro, la puzza salvifica del sudore delle ascelle.
Non scorgevo nessuna bellezza nella maternità.
Partorire faceva schifo.
C’era una volta un pancione che entrava in una stanza e veniva toccato, accarezzato, alcune volte perfino baciato. Dal momento in cui senti scivolare qualcosa fra le gambe e hai la sfortuna di vederlo capisci che è finita la pacchia.
Acidità
nausea
vomito
stitichezza
sciatica
caviglie gonfie
affanno
nottate in bianco hanno l’aspetto di un bellissimo ricordo.
È muco giallo, con qualche piccola venatura di sangue, si tratta del tappo. E sai che dovrai prepararti, perché il contenitore va svuotato.
Sei un involucro, un trasporto temporaneo.
Devi espellere, ti dicono o forse romperti violentemente per vederla da vicino questa vita.
Bello forte. Bellobello.
Intenso ma soprattutto realistico…complimenti alla Scrittrice che con molta naturalezza descrive l’imbarazzo e l’impotenza di quei momenti .che ogni donna diventata
mamma tende a rimuovere …Ma la verità è che come ogni trauma resta indelebile.