I clacson, le macchine lucide che attraversano i viali tra la campagna e il mare, il tuo corpo rigido. Ti bacio. Sono arrivati i nostri amici.
Hanno tutti fame per il viaggio e iniziamo subito la cena, ci sediamo al tavolo sotto il portico. Ti guardo e vedo un’ottima padrona di casa, premurosa e attenta, poco importa se tutto è stato cucinato da qualcun altro. Metti in tavola il vino dell’azienda di famiglia. È lavorato dai contadini secondo le regole che gli date voi, tutto biologico.
Gli amici sono quelli che non vedevi da anni. Posti di lavoro nelle multinazionali, nel trading. Avevano iniziato a confrontarsi ancora prima di togliere le valigie dai bagagliai.
E tu, ora, dov’è che sei?
È una domanda importante. Una parte della tua personalità dipende sempre dal posto in cui ti trovi, almeno agli occhi degli altri. Di solito era una personalità appiattita, sottile quanto il biglietto aereo necessario per raggiungere la prossima capitale. All’Universitat de Barcelona eri allegria, eri spiaggia, raggi di sole. Piaceva molto la Teresa di New York, quella dei grattacieli, la nostra Frances Ha che chissà quanto la pagavano per dare lezioni in quella scuola privata. Gli amici sussurravano molto sugli stipendi ma non facevano mai cenno. Volevamo mantenere almeno l’illusione che fossimo tutti uguali. Anche oggi non si parla di soldi, con un’attenzione ancora maggiore a evitare l’argomento.
Ti ripeti che sei una mantenuta, o forse una casalinga, e non sai quale definizione detesti di più.
Alessio e Marco sono da sempre quelli che parlano tanto. Ci hanno già raccontato degli straordinari, fino alle dieci, tutte le sere, ore non contate, investite nel futuro perché tanto loro investono in tutto. E tu, Teresa, in cosa investi?
Tutti ci poniamo una serie di domande su di loro ma tu le eviti con cura, sono troppo simili alle domande che potrebbero fare su di te.
Quanti anni hanno? È possibile che siano ancora stagisti?
In confronto a loro sembra più intelligente Federico, quello della start up. Hanno fatto i contratti con Chat-gpt. Li fa bene, ci ripete a cena di fronte all’insalata, li fa molto bene. Ed è pure andato due anni a Lisbona. Quando poi torna in Italia ha le agevolazioni fiscali, quelle per la forza lavoro che ritorna.
Ci spiega di aver già preparato i documenti. Sono in una cartellina sulla scrivania del suo monolocale, talmente vicini al letto che lo osservano mentre dorme aspettando di tornare in Italia. Almeno questo è quello che penso io, finché non dice che non sa se ha voglia di tornare.
Non hai voglia di stare con noi, Fede? Guarda quanto è bello il mare, vorrei dirgli. Dalla nostra casa si vede – è nero, immenso.
A fine pasto un digestivo, quello fatto in casa. In questa casa tutto sembra così antico da avere quel po’ di calore addosso, delle mani di qualcuno, del suo corpo. Entrare in questa casa sembra entrare dentro di te.
Dopo aver mangiato restiamo tutti in giardino. Le fiammelle delle candele ondeggiano sopra i sottovasi di terracotta. Hai pensato a tutto. La vita per te è una scienza esatta. Pensi di poterla risolvere come un’equazione, le tue attenzioni devono corrispondere a un risultato, la perfetta riuscita di questa serata. Non abbiamo più bisogno delle feste che sfuggono di mano, abbiamo altro per divertirci. Ma poi qualcosa si rompe, il vino finisce troppo in fretta, lascia i calici vuoti, serve altro: Alessio e Marco ti si avvicinano con cautela appena ti vedono lontano da me. Ti chiedono educatamente se possono, e tu annuisci, aprono il tavolo da ping-pong. Le righe bianche di coca disegnano un nuovo campo, un nuovo sport che si gioca tra loro. Non so bene cosa sia. Una moda, una trasgressione o solo stanchezza.
Noi altri li osserviamo mentre si fanno, il loro pane quotidiano. Siamo rimasti seduti al tavolo della cena, ci sentiamo – e siamo – quelli che si tirano indietro.
È tutta la sera che temi che la conversazione sfoci sul lavoro. Sono già passati due anni da quando hai lasciato la carriera accademica e da quel momento non hai più ripreso. Non siamo nemmeno più stati in affitto. I passi scalzi, il nostro invecchiare, tutto è custodito dentro questa casa. La casa delle vacanze dei tuoi, tu ci ridi – la vita è diventata una vacanza.
A un certo punto te lo chiedono.
E adesso che fai?
Ti immaginavano ancora a passare le ore sui libri, chiusa in qualche biblioteca, come erano abituati a vederti da studentessa. Nella mia memoria invece non sei mai ferma. Ci potevamo spostare come lanciare i dadi, e poi sparire senza lasciare traccia. Forse di noi sono rimasti solo i segni sui muri, quelli di fronte alle nostre scrivanie. Io con il lavoro full remote, tu a inseguire il dottorato, il postdoc e poi non sapevi cos’altro.
Te lo chiedevi spesso. E dopo?
Stasera sono felice che i nostri amici siano venuti a trovarci. Branco, appartenenza, le sigarette fumate insieme durante le sessioni d’esame. È la prima volta che abbiamo ospiti. Non ce l’avresti fatta quando eravamo appena tornati in Italia. In quel periodo ti guardavi spesso allo specchio, controllavi di essere ancora convincente, di non sembrare una di quelle tossiche da SerD a forza di prendere medicinali.
Agli amici non sai che rispondere, e allora dici che stai cercando un nuovo posto di lavoro. Nessuno ti fa più domande. Io invece mi chiedo se questi pensieri ti faranno venire un attacco di panico stanotte. Li avevi spesso. Ricordo quando mi telefonavi dal nostro appartamento di Berlino, e mi chiedevi chi ti avrebbe aiutata se fossi stata male in una città dove non conoscevi nessuno. Non servivano malattie improbabili, sarebbe bastata una grossa febbre e avresti scoperto di essere sola. Nel nostro palazzo conoscevi solo la signora che ti aveva offerto un caffè quando eri rimasta chiusa fuori di casa. Tu l’avevi rifiutato.
Era un periodo complicato, da un mese ero tornato in Italia a casa di mia mamma. Era malata.
Avevi smesso di rispondere al telefono da due settimane.
I tuoi sono venuti a prenderti un giorno che faceva freddo, il loro aereo arrancava in mezzo alla nebbia. Avvolti dalle parole straniere, confusi, sbiaditi.
Avevano paura di trovarti morta. Eppure io non avevo paura. Il tuo corpo lo immaginavo leggero, pronto a prendere il volo, come durante gli attacchi di panico. In quei momenti mi chiedevi solitudine e allora ti osservavo di nascosto, mentre cercavi di ritrovare il ritmo dei tuoi battiti pulendo la cucina alle tre del mattino. Immaginavo che i tuoi ti trovassero in uno stato del genere, in movimento, le mani irrequiete. Invece ti hanno trovata immobile, sul divano. Accanto a te c’era il libro che leggevi settimane prima, alla stessa pagina.
Mi hai detto che nel nostro appartamento di Berlino sentivi il rumore del mare. Quando dormivi lì, sognavi di essere a casa dei tuoi, di fronte al litorale. E avevi paura di annegare.
Dopo quella domanda diventi sempre più silenziosa. Ti spegni e la festa insieme a te. Ormai è tardi. Iniziamo tutti a parlare a voce più bassa, e ognuno va nella propria stanza.
Andiamo a dormire.
Lenzuola in lino, parquet risalente agli anni ‘70. Le tue foto da piccola, il saggio di danza. Non cambiare mai nulla di questa casa. Sembra che dica qualcosa di quello che avresti dovuto essere.
Una sbavatura: le nostre ragnatele agli angoli di ogni soffitto. Non togliere mai neanche quelle.
Appena ti addormenti sento che il tuo corpo è attraversato da tremiti. Se la tua inquietudine fosse acqua, la berrei. Ti sveglio.
Mi dici che il nostro paesaggio è contaminato. Mi dici che nella camera da letto senti le onde del mare.