Non pensare al cazzo, non pensare al cazzo, non pensare al cazzo ripeto tra me e me mentre, con le dita, premo con forza i bulbi oculari come per rimandare indietro le immagini che corrono veloci nella mente.
Da qualche mese non riesco più a dormire, soffro di una specie di tremore interno e nulla sembra sortire effetto: valeriana, melatonina, altri integratori, poi alprazolam, rivotril, tavor e tutta l’allegra compagnia delle benzo. Insomma, ho tentato ogni cosa possibile: dottori, medicine, terapie farmacologiche e alternative, perfino l’agopuntura. Una volta, disperato, mi fidai di un collega che mi mandò da un tizio esperto in ipnosi, così mi ritrovai da un cretino bardato come un santone che maneggiava ossesso un aggeggio puntiforme il cui rumore (tic-tic-tic) mi innervosiva non poco. A seduta finita stavo peggio di prima.
C’è gente che campa di queste cose; poi c’è gente come me che campa con il nemico dentro, un serpentello astuto che sfugge e si nasconde da qualche parte nel corpo. È furbo, lui, mica come questi scienziati qua. E quanti soldi buttati nel cesso prima di arrivare dall’ennesimo principe dei sogni, l’ennesimo strizzacervelli. Fu così che conobbi e mi arresi alla mirtazapina, il farmaco che mi concedeva una piccola tregua, qualche ora di sonno decente, quando andava bene.
La notte è il momento in cui il nemico viene a trovarmi e ogni volta che mi stendo e tento di chiudere gli occhi sento giungere da lontano un suono sottile, come un rivolo d’acqua: pian piano il flusso aumenta, le lenzuola s’impregnano, i piedi finiscono a mollo, i polpastrelli raggrinziscono, l’acqua mi arriva alla gola e a quel punto, per non affogare, devo necessariamente alzarmi. Ha vinto lui, di nuovo. Anche questa notte sono un reduce, sfinito e afflitto mi metto seduto sul letto, al buio. Prendo un asciugamano e tampono prima la fronte madida, poi i capelli bagnati e stravolti. Poggio l’asciugamano sull’altro lato del materasso e mi rendo conto di non essere solo. Avverto la sua presenza così vicina da poter contare il numero dei respiri. Sì, sono sicuro: è ritornato nel mio letto. Accendo l’abat-jour e vedo M. che dorme. È girato verso di me, sul fianco sinistro, provo a percorrere con lo sguardo i contorni del suo corpo gentile e acerbo quando un’ombra fulminea gli invade il volto. È di nuovo buio. Tendo la mano ma non riesco a toccarlo, lo attraverso dentro e finisco col poggiare le dita sul cuscino freddo.
Avevo conosciuto M. circa un anno fa su una chat telegram di quelle fatte per tipi che hanno problemi nel relazionarsi, problemi di ogni tipo, principalmente ansia e depressione. All’epoca non soffrivo neanche di insonnia figuriamoci il resto, avevo però un senso di affanno ogniqualvolta di persona tentavo di intrattenere una conversazione che andava al di là dei semplici parametri discorsivi “come stai, cosa fai, di dove sei”; era come se una frana stesse per cadermi in testa senza possibilità di fuga. Mi ero rifugiato nell’altro mondo, quello schermato, e anche lì ero rimasto abbastanza deluso. Non vi era alcuna differenza con quello analogico se non che potevi eliminare, bloccare, passare oltre, schivare la frana. E poi, a dirla tutta, mica chiedevo tanto. Volevo solo farmi una scopata.
Invece con M. fu diverso. Ci frequentammo poco, o meglio, una volta visti e piaciuti non volevamo stare lontani: niente più schermi, niente strategie, niente distanze. Infatti, dopo circa un mese dal nostro incontro, M. si trasferì a casa mia. Da allora erano trascorsi poco più di trenta giorni di convivenza eppure su di lui sembravano passati decenni. La pelle liscia e fresca s’era avvizzita come quelle pianticelle lasciate sul davanzale a ferragosto, puzzava di stantio, e poi aveva assunto un’aria sempre stanca e sciatta, un’espressione spenta e assente. M. godeva nel dormire, nel mangiare, nel farsi un bagno: l’essenziale, così diceva. Non avevamo più rapporti da un po’; e pensare che, prima della decisione comune di vivere insieme, eravamo spesso l’uno nel corpo dell’altro e tutto scompariva: la gioia, il dolore, le delusioni, ogni cosa veniva neutralizzata da quell’atto primitivo. Mi mancava: mi mancava tanto che molte volte ero costretto a stordirmi con i porno e a masturbarmi di nascosto con filmini amatoriali e poi, tra la disperazione e la frustrazione, mi immalinconivo scrutandolo lì al mio fianco, ormai uno sconosciuto nel mio letto. Chi fosse M., beh, non saprei ancora dirlo.
Ricordo il primo giorno che arrivò a casa, portò con sé davvero il minimo, “l’essenziale”, disse: un trolley nero, un’orchidea viola in mano e un’altra borsa marrone, in pelle, sotto braccio.
Poggiò la pianta in salotto assicurandosi di posizionarla dove la luce non sarebbe stata diretta perché sosteneva che la Dea – così la chiamava – aveva bisogno del giusto, di un equilibrio tra raggi, acqua, ombra e carezze. Con un balzo, poi, si diresse verso la camera da letto; ritenni opportuno lasciarlo ambientare proprio come l’orchidea, e intanto che disfaceva le sue cose preparai un tè verde e glielo portai.
Quando gli porsi la tazza vidi un qualcosa di estraneo, un qualcosa che andava a turbare il mio senso estetico: un orribile quadro appeso alla parete, proprio sopra la testiera del mio letto.
Lo guardai stranito, gli chiesi una spiegazione.
«Ho portato l’essenziale, te l’ho detto» incalzò di nuovo.
Era davvero brutto, uno dei peggiori quadri mai visti. Di misura media, raffigurava un paesaggio brullo dove era presente un lago; sulla sinistra un ramo lungo e rinsecchito e, accanto, una bambina dai capelli scuri posta di spalle, nuda, intenta probabilmente a osservare il lago o l’orizzonte o chissà cosa. I colori erano anemici, sbiaditi, sembrava un quadro vecchio e consumato. La cornice in legno era sbeccata: pensai che quel quadro doveva aver viaggiato molto, di casa in casa, di cazzo in cazzo, di parete in parete, ma me lo tenni per me.
«Se ti piace…» lo assecondai.
Nel frattempo i giorni le ore i minuti mi scivolarono addosso, era un periodo in cui in ufficio mi stressavano parecchio e non riuscivo a essere presente come avrei voluto. L’ambiente con cui avevo a che fare mi tramortiva, ma il pensiero che, al ritorno, ci sarebbe stato M. pronto ad accogliermi, mi ossigenava letteralmente. Questa illusione durò molto poco.
A quante pare siamo, chi più chi meno, molto bravi a raccontarci favole su di noi, sugli altri, sul resto. Ma quando non riusciremo più a intrattenerci, ad ascoltarci, a guardarci in faccia senza specchi né schermi, cosa faremo? Ho una vaga idea grazie a M.
Quella volta rincasai all’imbrunire, poco più tardi del solito, con le spalle curve e con le ossa accartocciate, provato dall’ennesima riunione di lavoro, e lo trovai seduto completamente svestito, come invaghito, di fronte al quadro. Il letto sfatto, le tapparelle abbassate filtravano piccoli spilli di luce che bucavano alcune parti della stanza. L’aria era greve, sapeva di muschio umido, fu come entrare in un bosco sepolto nella propria abitazione. In sottofondo solo il giradischi lamentava “…let down and hanging around crushed like a bug in the ground…”. Dallo sgomento mi cadde lo zaino con il portatile dentro, facendo un grosso tonfo. Urlai, lo scossi, lo schiaffeggiai, ma niente. Lui rigido, un pupo siciliano, con solo la pelle come armatura e le pupille fisse e dilatate rapite dal quadro, forse dalla bambina. Gli buttai in faccia dell’acqua fredda e finalmente rinvenne come da un coma:
«Vado a farmi un bagno mormorò.»
Caddi stremato sul letto, ma non abbastanza da non sbottonarmi i pantaloni e toccarmi, toccarmi fino a venire e a svenire maledicendo il quadro mentre il disco continuava a girare sul piatto.
Non passò molto tempo da quell’episodio che, in ufficio, ricevetti una telefonata dalla polizia. L’acqua aveva invaso tutto il pianerottolo, i vicini avevano chiamato i vigili del fuoco. Avevano trovato M. senza vita, nella vasca da bagno. Non volli vederlo, andai direttamente in camera da letto e staccai con rabbia quella merda di quadro dalla parete quando notai qualcosa di diverso: la bambina non era più in piedi nella tela, giaceva riversa nelle acque torbide del lago.
A tratti i ricordi riemergono come corpi in superficie. Tutto dentro me si è condensato, compresso, schiacciato e il nemico ci si è seduto sopra, un trono fatto di fuochi fatui, ma lui sta comodo e ride di me, di M. che non c’è più, si fa beffe della strana storia del quadro. A piedi scalzi mi trascino in silenzio, striscio i polpastrelli sui muri del corridoio, poi del salotto e infine tocco le mattonelle blu indaco del bagno. Alzo lo sguardo e nello specchio c’è un uomo, sulla quarantina, stempiato e tracagnotto. Chi dovrebbe essere? Non mi riconosco. I contorni si deformano, s’allargano, c’è una macchiolina di fango sul petto che lentamente si estende, mi sguscia come un animaletto impazzito nelle orecchie, mi ottura le narici, mi soffoca in gola. Oggi è tornato prima del previsto, è il nemico.