non è una cosa sola

You are the antibody
In yourself and everyone
The muscle memory
Won’t forget, can’t be undone

Foxes in Fiction
Antibody

non

È un’ellisse? Forse un ovale.

Una geometria che per metà riempie per metà allunga. Riempie allungando. Svuota addensando. A volte trattiene a volte lascia andare. Quello di cui sono certa è che non è una cosa sola. Convessa forma chiusa piena di buchi. Ma se i buchi fanno entrare, uscire, può dirsi chiusa davvero?
Non è una cosa sola, questo so, mi pare di sapere.
Se cerco una simmetria, ne trovo due. Dividendo al centro, secondo una linea verticale, scopro che la destra non è uguale alla sinistra, simile, somigliante, non identica. Ogni cosa ha il suo doppio, speculare, eppure irregolare. C’è una regola ma soprattutto un’eccezione, impercettibile, se guardi bene la puoi vedere.
La linea orizzontale divide le funzioni: la visione – riconoscermi separata dalle cose intorno – dall’assimilazione – le cose intorno: dargli ascolto, fiutarle, assaggiarle, masticarle, portarle dentro, pronunciarle –. Al di sopra della linea orizzontale vedo, mi confino nella differenza, al di sotto deglutisco, genero appartenenza. Pronuncio la solitudine o la congiunzione, lo iato o l’aggregazione, al di sotto, al di sopra dell’asse orizzontale, le pronuncio tutt’intorno, perché la parola è visione e assimilazione. Le pronuncio a destra, a sinistra dell’asse verticale, perché la parola è simmetrica, asimmetrica, è singola e doppia, diffusa e puntuale, irregolare. La parola modifica, altera l’ellisse – o forse l’ovale – , rimpolpa la sua geometria convessa, a volte la scava, la chiude a volte la spalanca. Ne devasta l’equilibrio modulare.
Le proporzioni, nette, definite, matematiche tra i pieni e i vuoti, non durano, esse cambiano, armoniche prima, poi disarmoniche, la parola il cambio delle stagioni il tempo le deforma.
Il senso dei pieni si compie al tatto, alla carezza: piena è la superficie che avvolge e vuole essere avvolta. Il senso dei vuoti è la loro funzione specifica – osservare, sentire, annusare, ingoiare, pronunciare – eppure il tatto, la carezza, il vuoto lo glorifica: è vuoto che vuole essere osservato, sentito, annusato, ingoiato, pronunciato. Toccato.
C’è un equilibrio ma soprattutto una pendenza, un’inclinazione, la rovina della proporzione, il desiderio dei pieni di subire i cinque sensi, la tendenza dei vuoti a generarli, e poi a patirli, gioendo.
Gli diamo un nome, univoco, ma non è una cosa sola, questo so, mi pare. È più un albero o un fiore che una nuvola, più un palazzo che un mare.

è

Da quando sono qui posso guardare alla mia destra, fuori da una finestra grande quanto la mia faccia, ma fuori non vedo niente. Uno spazio bianco, un muro di neve, una distesa montuosa di sale. La mia faccia grande quanto una finestra, la mia faccia che non è uno spazio bianco, un muro di neve, una distesa montuosa di sale. La mia faccia che è una finestra.
Oppure, davanti a me, posso guardare la mia faccia, nello specchio ellittico che, ogni ora, dal muro alla mia sinistra si muove verso la mia faccia per farmi specchiare, dei minuti alla volta, non so quanti minuti, forse sono ore. Posso guardare la mia faccia nello specchio che a ogni ora è spazio-humus, muro-cemento, distesa-sabbia, montagna-radici, neve-acqua, sale-vapore. E sole-grano, ombra-fronda, pioggia-vetro.
Cerco di crearne un’icona, memorizzarne un dettaglio, ma non è una cosa sola, questo solo mi pare di sapere. La mia faccia è memoria muscolare: sporcarmi nell’humus, scorticarmi sul cemento, mescolarmi alla sabbia, inciampare nelle radici, cadere nell’acqua, emanare vapore. E camminare nel grano, guardare che piove, che la fronda dell’albero è una sagoma densa, bagnata sul vetro della mia finestra.
Posso guardarmi le braccia, anche, muoversi nello spazio ristretto in cui mi hanno confinato. Le mie braccia rivestite di cellophane bianco, dalla punta di ogni dito alla spalla il collo l’ombelico. Il mio corpo è mezzo, il cellophane ricopre tutto quello che posso vedere.
Quello che non vedo è nascosto da un grande cubo di cartongesso che mi hanno costruito addosso quando sono arrivata qui. Una struttura metallica mi tiene sospesa, la mia schiena poggia sul vuoto, un vuoto orizzontale quando è ora di dormire, verticale quando è ora di bere – un’acqua di un colore irreale, il sapore del niente, circa ogni due ore –, inclinato il resto del tempo, quando devo fare, cosa, che cosa devo, posso fare? Il resto del mio tempo, il resto del mio corpo.

una

Centosessantadue ciglia, duecentotrentaquattro peli nel sopracciglio, a sinistra, centosettanta e duecentocinquantatré a destra. I miei occhi sono ellissi, o forse piccoli ovali, il sinistro è meno alto del destro ma uguale in lunghezza. Le mie occhiaie dicono che sono più stanca a sinistra, la miopia mi allunga il bulbo oculare più a sinistra che a destra, forse il cuore il sangue irrora di più quello che è mancante.
Quante immagini vedo, da sinistra forse meno che da destra, quanti coni quanti bastoncelli, non conosco la dinamica della ricezione.
Le narici sono due buchi diversi, fanno entrare, uscire, quanti sospiri quanti affanni.
Il labbro inferiore si allarga in mezzo, quello superiore a destra a sinistra, si svuota s’inarca al centro, rigonfia in avanti. Come gli occhi i bulbi e le narici, la regola è l’eccezione, un’algebra irregolare.
Il buco della bocca delimita la mia paura, lo sgomento, lo stupore che non so provare, da quando sono qui, che posso solo ricordare. La vergogna, per esempio, quando dicevo qualcosa di sconveniente, quando il rossore mi bruciava la faccia, quando la simmetria si perdeva nella piegatura del mento che mi cercava la gola, nella fronte esposta alla colpa per sempre. Indelebile il senso di colpa è sul collo e sulla fronte che si manifesta, sul collo e sulla fronte s’imprime per restare, farli per primi invecchiare.
Anche oggi, anche da qui, non conosco l’equazione del mio pudore.

cosa

Cosa succede dentro al grande cubo di cartongesso che mi hanno costruito addosso? Sento tubi entrare, uscire da me, non sono padrona delle mie escrezioni, non ho stimoli né bisogni. Sento le mie gambe muoversi di movimenti geometrici, delle mani ne accompagnano i movimenti, non so quante mani ma sono molte, mi muovono le gambe in movimenti lunghi, distensivi. Sento allinearmi i legamenti, allungarmi verso un punto lontanissimo da me. Chissà dove dovrò arrivare. Sento le mie gambe andare altrove da dove sono, muoversi su chissà quali prati, quali boschi, quali spiagge. Sui binari di chissà quale ferrovia.
La visione è staccata dai miei piedi, non anticipa i miei passi non li segue, la mia destinazione è un’equazione che non conosco. Mi lascio camminare, cieca, verso una meta che non ho scelto.

sola

La mia faccia è un’ellisse, forse un ovale, convessa forma chiusa piena di buchi, di pori. Provo a contarli ma non so tracciare una mappa, misurare i vuoti, la loro iterazione. Quanto mi apro per farmi uscire, per far entrare. Può ancora dirsi una forma chiusa, la mia faccia, così attraversata, passata da parte a parte, bucata? Può dirsi una geometria, così derogata? Assestata in esigue anomalie. Manifeste, multiple, percettibili, da quando sono qui.
Penso ai miei piedi che non so vedere, li immagino a camminare sulle mie guance come colline di roccia liscia, entrare nel mio bosco di ciglia e sopracciglia, sondare i pori, sprofondarli come fossi coperti di foglie compatte, i miei piedi a scalare l’osso della mandibola, cadere, montare, arrampicarsi come su una montagna di lattice fresco, circumnavigarmi le orecchie, massaggiare la cartilagine, farla scricchiolare, farle fare il rumore di sassi piccoli in caduta. Li vedo camminare sulla pelle sopra i denti, dossi di sabbia ibernata, dune dure sopra i denti che dimenticano la carie, la masticazione. Vedo i miei piedi zampettare sull’orlo rosa delle mie labbra, risalirne le creste soffici, pizzicare i muscoli, le membrane, premere nelle mucose sanguigne, nervose, aggirare le piccole ghiandole tonde che non sudano mai.
Come un albero un fiore o un palazzo, in molti modi la attraverso, percorro la mia faccia, non in una maniera sola la conosco. Imparo la legge che muta la sua geometria, che la trasforma anche in assenza di stimoli esterni, qui, nella tenuta stagna dei miei sensi, nella deprivazione dei miei arti, della volontà dei movimenti. Anche in questa luce che, da quando sono qui, è rimasta la stessa, una incorrotta luce bianca senza ombre. L’oscurità dei punti neri nella mia pelle, i peli nelle narici, la pupilla elastica, i capelli sulle mie orecchie, i solchi delle rughe sulla mia fronte: affondo nei miei bui, in quello che rimane al buio anche in questo perfetto giorno perenne. Non conosco l’equazione di quello che vedo, che non potrò vedere. Invento la matematica della meta che non ho scelto, del tragitto che è la mia faccia. Quello di cui sono certa è che non è una cosa sola.

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