Dalla lettera che mi aveva scritto, capii subito che era una persona perbene.
Gentile signora, scriveva, quando sono nata, la mia famiglia abitava nella casa che lei occupa oggi. Sono rimasta in quell’appartamento fino ai diciott’anni e da allora non vi ho più messo piede. Le sarei particolarmente grata se mi permettesse una brevissima visita in qualsiasi orario per Lei non di disturbo. Cordiali saluti, benché non ci conosciamo, Elena Pace.
Non aveva incluso un numero di telefono, ma un indirizzo di Roma, e le risposi per proporle un appuntamento. C’era anche che si chiamava come la mia Helena, e il cognome faceva il resto.
Il giorno stabilito, il citofono suonò con due minuti d’anticipo. Avevo passato la mattinata a sistemare, a lavare i pavimenti, a togliere di torno tutto ciò che fosse troppo personale. Appoggiai la caffettiera sul fuoco spento e andai ad aprire.
La donna che comparve sul pianerottolo era sui cinquant’anni, alta, possente. Capelli sale e pepe raccolti in una coda mal fatta, occhiali spessi. La sciarpa nera a maglia grossa ancora intorno al collo. Una donna non brutta, ma molto trascurata, che dimostrava più della sua età. Le tesi la mano, lei disse “Eena Aace”, e vidi la mandibola che si muoveva a fatica, che non combaciava con la mascella, i denti che rientravano solo da un lato, come se la guancia le fosse stata sfondata con un martello o come se il Creatore non l’avesse montata a dovere. Nonostante lo sgomento, la invitai a entrare e lei attraversò la soglia guardando a terra, sollevando un piede e poi l’altro quasi ci fosse un filo da scavalcare. Indossava degli stivali dal tacco massiccio, imbottiti di pelo sintetico, vecchi e consumati. Aveva ancora il fiatone quando sollevò lo sguardo e osservò intorno con gli occhi spalancati, ingranditi ancora di più dalle lenti.
“Sarà cambiato molto in tanti anni”, dissi immaginando i suoi sentimenti. Elena guardava dritto davanti a sé, attraverso il piccolo arco che dava sul salone, cupo per la giornata autunnale. Scosse la testa e rispose, articolando a fatica: “Non molto”. Allora dissi: “Prego, vada pure dove vuole, non si senta timida”, e quando mosse qualche passo in direzione del corridoio, continuai: “Noi siamo qui da cinque anni, si sta bene in questo quartiere, l’aria è buona e c’è tutto a portata di mano”. Ma lei non rispose, e io capii che era scortese forzare una conversazione di fronte alla sua evidente difficoltà, così decisi di fermarmi e di lasciarla proseguire da sola.
La sentii entrare in cucina, aprire la portafinestra e uscire sul balconcino. Per un po’ ci fu silenzio, poi sentii i suoi tacchi avanzare sempre più a fondo nel corridoio. Il cuore prese a battermi forte e lasciai l’ingresso per raggiungerla. Era già entrata nella stanza di Helena. La camera era vuota, a parte il letto singolo che ora serviva per poggiarci le cose di Paolo. Le pareti erano ancora dipinte di giallo, come le aveva volute lei. Quando il sole batteva contro la serranda i rettangoli di luce si allargavano sul parquet e sul copriletto bianco. Helena giocava col pulviscolo brillante, alzava entrambe le mani e cercava di afferrare quelle microscopiche piume.
La donna non sapeva di essere osservata. Se ne stava ferma a guardare qualcosa nell’angolo tra il muro e la finestra. Poi si sfilò la sciarpa e la lasciò cadere a terra. Sentii che respirava forte, mi accorsi che singhiozzava e la vidi coprirsi la bocca con la mano. A un certo punto si accasciò a terra e io avrei voluto che in quella stanza fosse rimasta almeno una sedia. La aiutai a rialzarsi, non era una donna leggera. Si asciugò il viso con la sciarpa, poi rimise gli occhiali e sorrise. Pronunciò una lunga frase, di cui capii solo fratello e ricordi. Sulla porta di casa, Elena si riavvolse la sciarpa con due giri e disse qualcosa che stavolta compresi in ogni sua parte e cioè: “È stata davvero molto gentile”. Le chiesi allora se non le andasse un caffè, ma lei scosse la testa e mi toccò sulla spalla come a dire di non disturbarmi. Quindi imboccò le scale e scese lentamente, reggendosi al corrimano.
La visita era stata breve come annunciato nella lettera. Richiusa la porta, tornai nella stanza gialla. Avevamo davvero creduto, io e Paolo, che ci avrebbero fatto tenere la bambina. I documenti erano stati firmati. Poi quella bugiarda della madre aveva cambiato idea, si era trovata un lavoro, una casa, laggiù a Barcellona, ma sempre bugiarda restava. Ed Helena non era affezionata a lei, Helena era affezionata a noi. Avevamo dato via tutti i mobili, tutti i giocattoli. Ma la sua voce risuonava ancora in quella stanza. Le urla quando non se ne voleva andare con l’assistente sociale. Si era aggrappata perfino agli stipiti.
Mi sedetti nel punto in cui si era accasciata quella donna tanto strana. Nel momento in cui mi sdraiai, un raggio di sole uscì dalle nuvole e il giallo delle pareti si scaldò. Pensai che quella casa ci aveva dato tutto ciò che ci poteva dare, e che era giunto il momento di cercare altrove.
Bello. Complimenti Elisabetta!