Escono alla luce. Prima uno, poi l’altra. Organi. Una pulita notte e vedo le loro piccole teste fiorire. Respirano sottoterra come bulbi.
Se l’acqua è assente, si accendono al primo fuoco. Una dopo l’altra. Gocce. Sulle foglie di erba stella, silenziose. Come la terra e la madre rotta. Si smorza il sole e il ventre suona vuoto. Perdo colore e si svuota il seno, inaridisce il cuore. Forse, luna calante.
In estate la natura si piega al volere del sole. Il corpo si dilata mentre ogni cosa diventa stretta, oppure altissima e ventosa. Immobile, aspetto che la mia immagine si ricomponga. Ho guardato per mesi le cose al contrario, il capo arrovesciato come un uccello. Ciò che stava sotto è riemerso come un animale selvatico. Colpa delle stagioni: il polline che ingravida, il calore che nutre e il freddo, le sue contrazioni. Escono alla luce. Inermi e filiformi creature con un cuore piccolo di lepre e orecchie dritte. Lei, lunare e altezzosa. Il bambino, muto. Piangi, gli dico.
Il bambino è pallido e gracile. Si muove come se avesse un paio d’ali, imita i piccoli che tentano il volo, spiumati e trasparenti. Una bambina calva sembra tenergli la mano. Penso in una lingua sconosciuta e mormoro: resisti, imita il cuculo, fai cadere le uova dal nido. Imbroglia il genitore, lui non saprà mai di cosa sei capace. Sottovoce, ripeto questa preghiera bassa e prego qualcuno che mi risollevi dal male profondo. Il bambino risponde con un movimento secco. La bambina è a terra, immobile. Forse sorride. Una smorfia sul viso fa sembrare gli occhi biglie striate.
Cammino lungo le pareti della stanza, centoventidue passi in mezzo minuto, quaranta gigli sul pavimento, sempre gli stessi. Quando c’è il sole, sembrano voler sbocciare sotto i piedi. Il rumore è quello del ghiaccio rotto. A volte sentiamo il profumo dei fiori e sappiamo che sono i nostri fiati corti a fare il miracolo. La stanza è bassa e la luce è magra. Gli oggetti si vestono di nero come le madri quando lasciano cadere i piccoli, leggeri e trasparenti.
I bambini di troppo. Gli storti. È un lunedì con poca luce e senza gelo. Il freddo raddrizza le ossa o uccide e a questo inverno manca la spina dorsale. Il bambino è un baco da seta, stretto nel lino bianco. La sua schiena è piccola, la sento muoversi nelle mani e penso: ecco le ali.
La bambina calva ama parlare. Per chiamare le parole a sé compie un rito: siede al centro della stanza e si circonda di piccoli oggetti. Li chiama uno a uno, come fossero imputati di un processo. Chiede loro da dove provengano e dove hanno trascorso la notte. Un giorno domandò di cosa fossero fatti ma non ebbe risposta e si interrogò circa la natura delle cose. Si interessava agli uomini con il cappello. Diceva che avevano qualcosa da nascondere. E lei, con il capo luminoso e in vista, credeva di essere la prescelta. Un collo perleo e clavicole sporgenti. Guardata da tutti con sospetto, fiera di parlare a chi resta, immobile e senza voce. Centro della stanza, giglio numero venti: il più screziato, rosso Costantinopoli.
Il bambino senza lingua vede la parte nascosta delle cose: una spina dorsale, squame, un paio d’ali. Impara la lingua muta dei pesci. Eutrigla gurnardus: occhi a forma circolare e bocca ampia; le pinne dorsali hanno raggi spinosi e molli. Ecco le ali del pesce, pensò. Abbocca alle lenze, sottolineò con il dito. Praticare un’incisione sul ventre per eliminare le interiora. Spillo porta pesci inserito nelle branchie, arriva dritto al cervello. Quanta crudeltà, chiuse gli occhi. Le parole sono in gola. Una lisca infilata nel palato. Bambini e pesci non imparano mai, sempre appesi agli ami. Esche: crisalide, orsetto, verme di terra e, come in una favola, appare la regina per la pesca al colpo.
Avere il becco è utile, prediligo la libellula luctuosa; nei maschi le ali hanno una striscia bianca azzurrina che ne ammorbidisce il gusto. La bambina calva parla e sorride. Ricorda quando era a terra, immobile. Gli occhi biglie striate. Davanti a lei, il fratello. Il cuculo. Non si sarebbe più rialzata. Siede al centro della stanza, fiera. Passa da un giglio all’altro trascinando piccoli piedi bianchi, leggeri e trasparenti. In bocca ha il veleno per il bambino senza lingua. Con il becco lo ferisce tanto da renderlo muto. L’esca della regina calva. Il capo luminoso, in vista.
Inumidirsi la bocca con una foglia di morella per essere amati; secondo il libro dei fiori, si deve posare su un braccio nell’attesa di un segno. I bambini seguirono il rito ma non si formò nessuna macchia, la loro pelle era bianca, senza ferite e amore. Un giorno, infilarono sotto gli abiti un mazzetto di iperico, silenziosi. Li tradì il succo rosso delle foglie tra le dita. È per le streghe, dissero. Ne presi alcune e le misi tra i seni, come si usa fare con le donne irrequiete. Notte di San Giovanni. Fiori e foglie galleggiano nell’acqua, un rametto di rosmarino dietro l’orecchio per i sogni.
I bambini amano l’acqua. La sfiorano con i piedi seduti sulla riva del fiume. Sorridono stupiti delle cose del mondo e annusano l’aria. Li guardo in silenzio, un grande salice mi ripara dalla luna. Tra i rami un torcicollo fa cadere un uovo dal nido. Sottovoce, ripeto una preghiera bassa e prego qualcuno che mi risollevi dal male profondo. La bambina calva chiama a sé i pesci con parole piene di grazia e li prega di mostrarsi, ma tutto resta immobile e piatto. Il fratello la adagia in acqua e lei li descrive uno a uno, li presenta a Dio.
Il fiume è gelido e il bambino è muto, senza forze. Lentamente, il fiume nasconde i loro corpi con colori e forme diversi. Trattengono il respiro. Non nascono squame, non un accenno di ali, nessun insetto a portarli via. Il mondo è silenzioso, creature minuscole si agitano per sopravvivere. Guardano i pesci e le uova schiuse, le piante acquatiche si muovono con ritmo regolare. Seduta a riva, cerco con lo sguardo i loro corpi. Sii paziente, ripeto a voce bassa, l’annegato ti salverà.
Acqua morta e profonda. Nera, capovolta nel giorno. I bambini dormono nel letto del fiume. Sono bianchi come il mattino, hanno i piedi nella melma e dicono di essere il cielo. Bisbigliano a voce bassa: guardaci, siamo il tuo male profondo. Tirano i capelli. La mia testa dondola e si rompe il sonno. Sogni e parole come presagi e nient’altro. Una fortuna. Ho visto quello che vorrei: ha il corpo piatto e una luce azzurrargento.