La nonna aveva detto che così muoiono i conigli, tutti insieme. La malattia arriva all’improvviso e se li prende; non ne risparmia nemmeno uno.
Li avevo trovati quella mattina sul fondo della gabbia nel fienile, le zampe in avanti, le orecchie indietro e gli occhi di fuori, spalancati. Andare a controllarli era la prima cosa che facevo. Era il 24 di giugno.
Avevo tenuto la tapparella alzata per farmi svegliare dalla luce dell’alba. Avevo sceso le scale scalza, aperto piano il portone e, una volta uscita, gattonato fino al punto in cui avrei trovato l’insalatiera di vetro, tra i vasi dei gerani. Dentro c’era l’acqua di San Giovanni preparata la sera prima: tre quarti di acqua corrente e un quarto di piante spontanee, erbe aromatiche e fiori raccolti al tramonto. Non doveva vedermi nessuno altrimenti ci avrebbe messo occhio. Dovevo portarla in bagno, poggiare l’insalatiera sulla ceramica del lavandino e immergerci le mani. La nonna aveva detto che, se avessi fatto tutto con calma, il santo mi avrebbe protetta fino all’anno dopo.
Le dita le avevo tenute a mollo finché non si erano increspati i polpastrelli. Poi le avevo portate alla fronte e avevo bagnato il viso percorrendo le sporgenze delle ossa. Per finire, avevo tamponato i capelli dalle radici fino alle punte. L’acqua era fredda e odorava di stagno. La nonna mi aveva detto di metterci tre papaveri, cinque rose selvatiche, sette fiordalisi, sette rami di iperico, undici di lavanda, tredici di rosmarino, diciassette fiori di camomilla e quattro foglie di salvia. In più avevo aggiunto un fiore giallo di tarassaco, uguale a quello che mia madre usa per fermare i capelli, in una foto da bambina. Se capitava di nominarla, la nonna mi diceva di aprire la Bibbia al Libro dei Salmi e leggere il primo. Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, che non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti, ma si compiace della legge del Signore e la Sua legge medita giorno e notte. Sarà come un albero piantato lungo un corso d’acqua, darà frutti a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai. La foto era stata scattata dietro casa, sullo sfondo il campo di erba medica non ancora falciato. I suoi capelli, crespi e neri, stavano in aria come quelli del demonio. Riusciranno tutte le sue opere.
I miei capelli erano ancora lisci e biondi come li aveva la nonna da giovane. Ero andata a svegliarla di ritorno dal fienile, dopo aver trovato i conigli morti. Lei aveva detto che dovevo svuotare la gabbia e disinfettarla con la varechina. Dovevo mettere i corpi in una carriola, andare a piedi fino al fiume, scavare una grossa buca sotto al fico che cresceva a riva e buttarceli dentro. Coprire con delle pietre – dovevo prendere tutte quelle che trovavo per strada – e poi coprire ancora, ma con la terra. E – si era raccomandata – non dovevo farmi il segno della croce perché le bestie non hanno l’anima. Il Signore non va scomodato per poco.
La nonna aveva le gambe così gonfie che se provava a mettersi in piedi le tremavano come gelatina. Per questo non poteva alzarsi dal letto. Mentre mi spiegava cosa fare, le stavo cambiando il pannolone. Finito di pulirla, l’avevo rivestita e aiutata a sedersi, la schiena contro il cuscino e le gambe distese sul materasso. La coppa dell’insalatiera sembrava fatta apposta per incastrarsi tra le sue cosce. Doveva bagnarsi le mani da sola se voleva campare un altro anno in grazia di Dio. Anche lei doveva lavarsi il viso e i capelli con l’acqua di San Giovanni ma, quando se l’era trovata davanti, aveva cambiato espressione. Si era incupita. Con la mano destra teneva ferma la sinistra come a voler essere certa di non farle finire nell’insalatiera nemmeno per errore.
Il problema non era il tarassaco, la nonna me lo aveva detto quasi urlando. Per l’acqua di San Giovanni non contano le erbe e i fiori, il loro tipo, ma solo il numero. E il numero totale deve essere dispari. Intanto mi guardava come se fossi stata un’empia, flettendo le code degli occhi verso il basso. L’arrivo della malattia, diceva con i muscoli della faccia e con le rughe, era dipeso da quel mio singolo sbaglio.
Avevo portato l’insalatiera al fiume e, così com’era – acqua, erbe e tutto –, l’avevo gettata nella fossa assieme ai conigli. Me lo aveva detto la nonna di farlo, ma aveva anche aggiunto che forse non sarebbe bastato. E infatti non era bastato, l’avevo capito appena tornata a casa. La distesa rettangolare di erba medica, che dal retro si vedeva per intero, non c’era più; non c’erano più gli steli e le foglie verdi, le infiorescenze dai petali viola. Il terreno, gonfio e fertile fino a due ore prima, si era trasformato in un campo di sabbia tritata. Ed ero cambiata io. Avevo perso i capelli. Non erano caduti uno per uno, e nemmeno a ciocche. Erano morti in un colpo solo: le radici si erano rinsecchite e loro erano andati giù tutti insieme, come i conigli.
Da quando i capelli le erano diventati grigi, la nonna portava un fazzoletto sulla testa per nascondere il peccato al Signore. Avevo messo un fazzoletto anche io, prima di entrare nella sua stanza, per non farla preoccupare. E per assomigliarle. Volevo renderla felice e invece, girando la faccia dall’altra parte dopo avermi sentita parlare, lei aveva detto che il fazzoletto non sarebbe servito a niente. Ormai il cinghiale era arrivato, era stato lui a distruggere tutto. L’erba medica non sarebbe ricresciuta per altri tre anni perché il cinghiale aveva calpestato il campo con le zampe dell’inferno come l’ultima volta che si era visto, quando mia madre aveva preso la via dei peccatori andandosene di casa. Mia madre era un’empia, e io non volevo essere come lei. Ecco perché stavo solo con la nonna, non parlavo con i maschi e non aprivo le gambe per non farmi mettere incinta. Ma la nonna aveva detto che non sarebbe stato sufficiente. Non serviva a niente coprirsi la testa con un fazzoletto e pentirsi davanti al Signore. Mia madre aveva seguito il consiglio di un empio, gli aveva aperto le gambe e da lì ero uscita io. Il peccato lo porto nel sangue.
La nonna l’avevo trovata morta la mattina successiva, con gli occhi aperti e le braccia irrigidite lungo i fianchi. L’avevo cambiata e lavata per l’ultima volta, e poi le avevo messo il vestito che lei aveva conservato per presentarsi al Signore. Non ero riuscita ad abbottonare la gonna perché, oltre alle gambe, le si era gonfiata pure la pancia. Quando l’avevo spinta nella carriola, si era sentito come il tonfo di qualcosa che cade, dall’alto, nell’acqua profonda.
Ero arrivata a piedi fino al fiume, trascinando la carriola e portando la vanga sulle spalle come una croce. Con quella avevo scavato una buca sotto al fico, accanto alla tomba dei conigli. Rotolandoci dentro, il corpo della nonna si era fermato al rovescio, con la faccia nel fango. Ero scesa nella buca per sistemarlo – volevo che guardasse il cielo con le mani posizionate sullo stomaco, in preghiera –, quando la testa aveva iniziato a prudermi. Pungeva. Sotto ai palmi, tastandomi il cranio, sentivo centinaia di aghi. Ne avevo staccato uno, tirandolo via con forza: tra il pollice e l’indice stavo stringendo un capello, spesso e scuro come una setola.
Intanto il cinghiale aspettava sul bordo della fossa, era appena arrivato. Lui mi guardava e io mi guardavo in lui, riflessa nelle gocce di vapore del suo respiro, nello specchio delle zanne e nel filo di bava che, dalla bocca, gli scendeva prezioso come la catenina con la Vergine al collo della nonna. Mi disse che dovevo sbrigarmi, dovevo coprire il corpo con delle pietre, e poi coprirlo ancora, ma con la terra. E dopo dovevo correre a casa. La stanza della nonna andava disinfettata con la varechina.
Complimenti Valentina, un racconto che ti abbraccia lentamente, e poi ti stringe forte a sé. La tua lingua è pulita e coraggiosa, anche quando scende nel fango e si mescola ad esso, come un gesto d’amore.
Un carissimo saluto
Mimmo Cortese