Ci sia acqua per tutti quelli che come te vanno per deserti
La Terra, L’Emilia, la Luna, Le Luci della Centrale Elettrica
Giorno uno
La distanza siderale tra i loro corpi attrae e risucchia i riflessi ambrati che filtrano dalla finestra e li risputa sulle cosce accartocciate tra le lenzuola madide di sudore.
“Abbiamo cibo per circa una settimana. Tabacco, filtri e cartine per due: i miei e i tuoi. Lo scambio di saliva se non ci dovesse bastare l’acqua e una torcia. Per un po’ siamo a posto.”
“E adesso?”
“Esploriamo le nostre cavità orali e oniriche, che poi è la stessa cosa.”
Marta è ossessionata dalle macerie. Carrozzoni delle auto abbandonati per strada, materassi sul marciapiede prima che passi l’Amsa a portarseli via, bottoni marciti sul fondo dei tombini. Persino le croste di pizza avanzate nei piatti le sembrano emanare un certo spirito.
Quanto a lui, la prima volta l’ha visto davanti al minimarket di quartiere. Lento e scoordinato, i capelli ricci rovesciati sul volto. I loro corpi inciampando l’uno nell’altro hanno disegnato una traiettoria parallela verso il frigo delle birre mentre le pareti orbitavano attorno pesanti. Lui ha aperto l’anta e ha preso una Tennent’s, lei si è appesa a quel filo invisibile facendo lo stesso.
“Ma quindi cos’è, ti sei vista The Dreamers a ripetizione? Fammi capire come t’è venuta.”
Giorno meno diciassette
È febbraio inoltrato ma al minimarket Amerika Silouhette aperto 24/24 è sempre Natale: ci sono ancora le lucine colorate appese sopra gli scaffali pieni di dolci cinesi, e un’insegna rossa a introdurre gli avventori – animali notturni che invertono come per una Rivoluzione interna il loro ciclo circadiano.
La signora K. una volta ha chiesto al proprietario, Nando, perché quel nome bizzarro: lui ha risposto di farci caso, che in periferia ci sono sempre dei bar che richiamano l’America, anche se a lui, a dirlo schietto, suonavano solo le curve di certe attrici.
Dietro Jack e Libero, c’è Marta; davanti alla signora K, Luca. Jack è l’avventore preferito dal proprietario: ha quarant’anni e i denti un po’ storti un po’ assenti, la pancia come un cuscinetto morbido ma sottile e quel piacere del rischio di chi non ha molti soldi ma li ritiene sempre abbastanza per un po’ di solitudine liquida. Libero è il suo cane, un bulldog inglese con tre zampe: due di carne, una di metallo. Quand’era piccolo è stato un rissoso e un cane più grande l’ha addentato e fatto finire sotto la ruota di una bici: da allora la sua traiettoria in strada dipinge quella di un guerriero su di un piccolo carro alato.
Quella sera la materia dei loro pensieri si è espansa e poi li ha allacciati.
Scatola esterna: deve essere successo, più o meno, quando la signora K. ha deciso di provare i crostini salati al curry del secondo scaffale, con l’involucro fluorescente rosso e giallo.
Scatola interna: deve essere successo, più o meno, mentre lui osservava i movimenti di Jack che faceva baldoria con un ragazzetto fuori dal locale e notandone la mimica del corpo ne ha dedotto che tutti non si è che movimento autodiretto. Verso un altro giorno o verso il frigo delle birre.
Molto tempo dopo, però, si sarebbero raccontati i sapori. Per lei, si è trattato di un mandarino maturo con il bordo ammaccato e la polpa acre. Per lui, di trasparenze screziate sul fondo di un bicchiere di plastica con acqua e cenere.
Giorno tre
Le lattine vuote sul letto sono diventate sette mentre dipingono il soffitto con i loro sguardi e si sfiorano a vicenda la pelle con la punta delle dita.
“Tutto. Pensare, mangiare, bruciarti una guancia con questa sigaretta, se volessi! Anche sentire il flusso della tua urina dall’altro lato del bagno. È parte di un unico prisma.”
“Come puoi mettere pensare e urinare allineati così, nella stessa frase?”
“Se ci pensi, è la stessa aderenza: non è che una questione di contatto.”
Le parla come un filosofo ma questo a lei non dispiace. Anche se fa finta di niente ogni tanto gli scruta gli occhi: due fondi di caffè disegnano in granuli storie interrotte, spezzate.
Giorno meno due
Libero sfreccia dietro a Jack mentre la signora K avanza tenendo a braccetto la signora Lucia. La signora Lucia è la sua amica preferita e si orna sempre con collane enormi e anelli fastosi, i capelli voluminosi a occultare certi singhiozzi sommessi.
“Quanto vi può costare del latte? Il latte!” tuona Matrice sul suo solito sgabello davanti alle porte dell’Amerika Silouhette. Matrice ha quarant’anni, o cinquanta: non si è mai capita la sua vera età. È ricco ma chiede l’elemosina davanti ai bar di periferia, la sera, per una sorta di rivalsa sociale al contrario. Il suo vero nome è sconosciuto persino a Nando: è stata la nipote di Nando, Chiara, ad appioppargli quel soprannome per i mercatini delle pulci che improvvisa incidendo lettere sui pezzetti di legno.
“A Ma’, così me ce li mandi via di nuovo i clienti però, mettiti da un’altra parte.”
“Come siamo scorbutici stasera, Nando. Ti faccio un po’ di sipario.”
“Ti faccio un po’ di sipario. Menomale che ancora non hai bevuto.”
“Mi stai distraendo tu i clienti ora. Una monetina, signora, ce l’ha? Dio la benedica.”
Marta spia di nascosto Luca, mentre avanza verso quello che è ormai il loro ritrovo fisso. Quella sera le sembra tetro, o comunque più del solito.
Giorno dieci
“Non toccarmi la schiena.”
“Cosa?”
“Ho detto di non toccarmela.”
“Ho fatto qualcosa di male?”
“No. Ma non vedi gli spuntoni? Ti taglierai.”
Lei invece si inventa sempre delle storie, come quella di avere delle lame conficcate nella schiena, ma dalla parte del manico. Luca non si mostra particolarmente stupito, ogni tanto si alza per accendere un’altra sigaretta e scostando le tende osserva in silenzio i “tre moschettieri”: così chiamano, in città, i tre inceneritori sbilenchi dietro il discount imms.
Giorno quattro
“E quelli là dove sono finiti?”
La signora K. chiede a Nando di Luca e Marta, in quel periodo si facenno vedere davanti all’Amerika quasi tutte le sere. Quei due, le ricordano quando da giovane non faceva altro che sperare di diventare in fretta sempre meno giovane per liberarsi dei carichi della vita e avere una tranquillità. Una volta li ha braccati:
“Tranquilli, tanto, non lo diventerete nemmeno da vecchi.”
“Ma li lasci stare sti poveri cristi? Sono giovani e forse pure innamorati, non fanno per loro i nostri discorsi.”
È intervenuto prontamente Matrice, che da tempo indefinito prova un profondo fastidio nei confronti della signora K, o forse di tutto il genere umano.
“Tu sempre che ti impicci, e intanto tutti lo sanno che tua nipote sta sempre fuori da sola sui pattini.”
“E allora? Io, al contrario tuo, la lascio vivere libera a questa gioventù.”
Ora Matrice, incuriosito dall’assenza dei due, per la prima volta le dà retta:
“Che magari Chiara li ha visti? Può essere?”
Giorno stesso, ora meno due
Marta si chiede cosa abbia pensato Luca della sua stanza: il cumulo di oggetti fatiscenti e rotti rispecchia la sua ossessione decadente, l’inclinazione al minimalismo l’ha portata a scegliere di stendere il materasso direttamente sul pavimento. Ma la parte più bizzarra è forse il soffitto: appena si è trasferita, tre anni prima, ha deciso di dipingerlo contro ogni convenzione di un blu notte quasi nero e con il tempo ci ha aggiunto delle incisioni grattate con la punta di chiavi o coltellini. Alcune parlano di amore, altre di rabbia, molte di forme di dissoluzione.
Lui quando è arrivato non ha pensato nulla, ha solo iniziato a intuire quella sensazione di cenere annacquata e lividi: delocalizzati, tumefazioni generiche posate su un’esistenza cristallizzata.
Senza avvisarsi, a distanza di mezz’ora l’uno dall’altra, quel giorno sono passati all’Amerika entrambi per rifornirsi di alcol, patatine in sacchetto, cioccolata e snack. È ancora presto: ci sono Nando e un altro barista del quartiere che parlano delle rotture dei clienti al locale e di quelle delle loro mogli a casa. Un barbone intanto si rammarica: davanti all’imms pendono dei nuovi spuntoni anti-piccione che gli fanno immaginare di avere sulle spalle un enorme piumaggio grigio-verde fogna.
Giorno sette
“Scrivi? Questa stanza è piena di diari e quaderni.”
“Magari. Vomito su carta.”
“Non ti conviene vomitare troppe parole allora, perché di questo passo moriremo di fame.”
“Abbiamo ancora la cioccolata e anche un ultimo pacchetto di patatine, non mi lamenterei.”
Quando lui ha accettato di venire a chiudersi per un po’ di giorni nella sua stanza, lei è andata a prendere la corda e si è calata dentro il magma bianco: chiama così la sua atmosfera interna, la temperatura dei suoi pensieri. E ha deciso che stavolta la sua intuizione è stata esatta: non illuderti ora di avere sempre ragione, solo ogni tanto. Poi ha ritirato la corda, il magma si è richiuso compatto e lucido e lei stralunata si è rimessa davanti allo specchio per decidere cosa indossare in vista del grande evento. Troppo tardi: un drin, e poi un secondo e un terzo hanno vanificato la cerimonia di vestizione costringendola ad aprire la porta in pantaloncini.
“Già qua?”
“A dire il vero sono le sei e mezza.”
“Appunto. Queste vie di mezzo tra notte e giorno sono le più detestabili.”
“Ma se dicevi che non fa differenza, giorno o notte.”
Infatti non avrebbe mai fatto differenza, pensa ora guardandolo dormire. L’orologio sul comodino sentenzia: 15:07. Hanno vissuto tutta la settimana in penombra, con la tapparella abbassata per due terzi, ma tengono la finestra socchiusa e a volte osservando fuori giocano al gioco delle suggestioni e delle risposte emotive.
“Cosa sarebbe il gioco delle suggestioni?”
Luca si è svegliato.
“Devi guardare la gente fuori, come se fosse una razza aliena osservata al riparo di un bunker privato, e dire che ne pensi.”
“Tutto qui?”
“Tutto qui. Inizio io, ma chiedo a te e viceversa.”
“Quel tizio alla sua finestra, la vedi la luce? C’è solo la luce e lui che si muove come una figurina.”
“Sta danzando o scopando con qualcuno… o pregando, o pulendo i vetri, è molto ambiguo.”
“Bene. A me che sono abituata a vedermelo lì così sembra sempre un trapezista.”
“E cosa starebbe facendo per te? Stende un filo dalla sua finestra alla tua per venirti a prendere?”
“Qualcosa del genere. Ma appena lo guardo con un po’ più di intensità… beh, credo che in qualche modo lui se ne accorga, perché la luce si spegne. Lì è come se mi stesse sparando, dritto al cuore. Sento una fitta e distolgo lo sguardo.”
“Scommetto che è la parte che più ti eccita.”
“Ci hai preso. Un trapezista povero, con del talento irrisolto e delittuoso. La creme de la creme.”
“Ora tu. Quelli là.”
“I vecchietti?”
“Proprio loro.”
“Riunione di condominio, elegantissimi e stipati in un metro quadro. Il più giovane avrà 78 anni. Vediamo… uhm… loro mi sembrano un colore. Ti direi indaco, perché difendono un decoro, una forma, e in questo sono delicati, come intangibili e fuori dal tempo.”
“È buono, è buono così, non devi frenare le immagini quando arrivano.”
“A volte, vorrei dirti di che colore mi sembri tu. Ma ho paura di farti del male.”
“Come puoi fare del male a qualcuno attribuendogli un colore?”
“Non si sa mai.”
Giorno tre – una scatola esterna, tra tante
La signora K e Matrice una volta e per una volta soa si sono amati ma non hanno mai detto niente a nessuno: del resto nessuno tra gli avventori dell’Amerika gli avrebbe creduto, anche volendo. È stato come alle scuole medie, quelle dei poveri. Iniziava di solito così: il ragazzetto X ti tira un pugno sul braccio. Livido numero uno. Il giorno dopo un altro, e un altro ancora, e così via. Man mano che passa il tempo tu lo odi, lo vorresti morto. Inizi a fantasticare su di lui che crepa in qualche modo maldestro e poco nobile e tu che gli sputi addosso prima che venga deposto sotto terra: le fantasie dei dodici anni sono molto crudeli. Poi ti arriva una lettera, inaspettata, che odora di ormoni, speranza, dolore, desiderio, tutto insieme: X si è soltanto innamorato ma non ha linguaggio. Il che ti ricorda improvvisamente Y: quello che alle elementari invece ti ha dato una carezza sulla guancia mentre la maestra un po’ ottusa ti ha incitato a ricambiare immediatamente il gesto. Matrice e la signora K parlano lo stesso linguaggio muto della carne di X e Y. È stato così quando quella sera lei l’ha invitato su per finire l’alcol comprato da Nando – un venerdì notte alle quattro mentre il locale è in chiusura. Gli ha detto:
“Lavorare sforma le tette e io in questa vita ho lavorato troppo. Tu me le succhieresti lo stesso?”
“E che io non ho lavorato? Sempre a sfornare le letterine, anche se devo dire poi, io che non ne ho e non ne avrò mi ci sono affezionato come a dei bambini, alla fine, sai come ci si affeziona poi ai bambini… che capita, non è una cosa a cui ci devi pensare. A queste piastrelline del cazzo uguale.”
“Bello mio, non sono mica scema, non hai risposto.”
“Non sarai scema ma sei paranoica, bella mia. E cosa ti devo rispondere, poi, bella mia, ora mi hai anche irritato, ho l’irritazione facile. Spogliati, inizia tu, voi donne siete tutte così.”
“Guarda che una come me non la trovi un’altra volta.”
“E menomale.”
Finita la lotta verbale si sono spogliati, graffiati, maledetti. Poi hanno rimosso, operato una cancellazione sistematica. Adesso, hanno intravisto nella sparizione di Marta e Luca un messaggio occulto da parte del fato, e con la scusa che nessuno vaa più da Nando si sono ritrovati: tanto, devono aver pensato, certi punti della notte non si è certi esistano.
Giorno stesso, ora quinta
“Comunque potevamo comprare anche qualcosa di sensato da mangiare, ora dobbiamo sopravvivere così.”
“Non mi sembra ci sia nulla di più sensato di patatine e cioccolata, fidati, abbiamo scelto bene.”
“Sarà. A una certa se iniziamo ad avere fame i kebab possiamo ordinarli ma senza esagerare, altrimenti salta il patto.”
“Io ancora non ho capito cosa sia questo patto, sono sincero. Ma lo ammetto: essere tuo prigioniero mi… esalta?”
“Eccita. Dai dillo. Sei quasi morto di gioia e ti sei vantato con gli amici, avrai detto: “mi ha invitato a stare da lei per due settimane intere, due.”
“È così che mi vedi?
“Perché, non sei così?”
“No.”
“Shht. Aspetta, lo senti?”
“Un pianoforte al piano di sopra. Ma da un film, c’è una voce strana”
“Peccato. Mi piaceva la nota dolente.”
Giorno stesso, ora quinta, una scatola esterna (tra tante un’altra)
Grr. Grr. Dove si trova. Quel grr bastardo. Quando lo trovo lo azzanno e a lui le faccio fuori entrambe, le gambe. Vedrà come gliele faccio fuori entrambe. Devo grr, dire, comunque, che almeno il carrellino mi ha dato inconfondibile sex appeal. Un po’ come il caso degli umani con i passeggini e dentro i loro cuccioli rosa. È una di quelle cose che le cagne amano. In questo mi è andata bene ma se lo rivedo ggr.
Libero e Jack quando non frequentano l’Amerika vanno a zonzo per altri bar e strade, a volte incontrano Chiara e i suoi amici che girano sui pattini.
“A te cosa ha consigliato nell’orientamento la prof?”
“Professionale per infermieri.”
“Ma a te il sangue mica faceva schifo? Ogni volta che vai a fare dei prelievi svieni.”
“Già, è quello che mi sono detta.”
“Beh, a mia madre ha direttamente detto che forse non dovrei perdere tempo a proseguire la scuola.”
“La Minzetto non dovrebbe perdere tempo a proseguire con la puzza di merda e muffa.”
“Ahah!”
Giorno dodici
Luca per due giorni di fila ha dormito appiccicato a lei, espropriandola a turno di un pezzo di schiena, di una spalla, di un lembo di guancia. Quel contatto caldo e odoroso gli culla i pori.
“Sei la mia pellicina preferita.”
“Pellicina?”
“Anche il pensiero più astratto nasce dal contatto… da una manipolazione di forme che ti si appiccicano addosso.”
“Ma io non sono un pensiero.”
“Certo che lo sei. Ti offende?”
“No. Anche se è bizzarro. E la forma? Che forma avrei, come pensiero?”
“Un marron glacé un poco ruvido.”
Nella camera di Marta oltre ai quaderni ci sono le scatole: grandi, piccole, ammucchiate e solitarie. A volte ci mette dentro oggetti, altre ne estrae. Dice che è per contare il tempo, lei che ne ha sempre una percezione troppo dilatata, o troppo veloce. Quando metti un oggetto dentro una scatola, o lo estrai, questo evoca come un pezzo di realtà: ho una consistenza, un odore, e tu esistevi con me in quell’attimo scisso, dice. Allora Marta per crederci e per contare il tempo mette ed estrae, conta i bigliettini dopo averli accarezzati a lungo con il polpastrello.
“Comunque, volevo svelarti il piano.”
“Davvero? Spiegami perché ti è venuta questa idea, ti ascolto.”
Scatola esterna F
Nando e Matrice siedono davanti all’ingresso dell’Amerika attingendo da un pacchetto di dolcetti indiani: Matrice è appena tornato dall’incontro clandestino con la signora K, e si guarda attorno un poco sospettoso.
“Comunque, che bomba questi cosi di latte e zucchero.”
“Non ti facevo da dolci.”
“Il fatto che io abbia una fronte dura e rugosa non significa che io non sia un tenerone.”
“Guardalo.”
“Chi?”
“È ancora lì.”
Erik, il barbone che vaga davanti all’imms, fava la spola tra i quattro supermercati del quartiere.
“Anche io sono stato senzatetto, per due settimane. Prima che mia zia morendo mi lasciasse il bar in eredità. Nel testamento aveva scritto: a Nando no, quello scansafatiche. Ma poi nessuno voleva stare qui: solo chi ci ha vissuto per tutta una vita sviluppa una perversione amorosa per le gabbie. Mia zia era perversa e amava questo bar.”
“E tu, l’hai mai amato?”
“Dipende. Da quando ho iniziato a rifornirmi da Atish dei dolcetti con le carte fluorescenti di più. Comunque, prima ero come Erik.”
“Tutti quanti, senza esclusione, siamo come Erik. Da un certo punto di vista.”
“A Ma’, ora cosa intendi? Te ne tiri fuori sempre una da quel cervellaccio.”
“Beh, secondo te perché ho deciso di rinunciare ai soldi?”
“Sei un pazzo.”
Giorno uno bis
“Hai già spazzato per terra, ancora?”
“L’altra è fissata con le pulizie.”
“L’altra chi?”
“Un’altra che balla e canta spesso in un retrobottega, sarà mia ospite per un po’.”
“Non siamo soli quindi?”
“Siamo soli, siamo soli, se dovesse comparire la ricaccerò.”
La scatola di Chiara
La scatola nella testa di Chiara è speculare a quella nella testa della zia di Nando: le scatole di un preadolescente sono aperte, con i bordi strappati e non hanno alcuna rappresentazione fisica. Hanno la fluidità del mare: e loro, gli adolescenti, lo percepiscono quando fanno quel bagno di mezzanotte nell’acqua riscaldata dal sole di metà luglio. Crescendo, però, ci si inizia a non sapersi più: si assiste a una solidificazione dei fluidi, rimpiazzati dalle cose concrete del mondo. Case, automobili, un conto in banca.
Chiara è ancora nel regno del mare e della luna e osservava da lì Marta e Luca quando li vede passare davanti all’Amerika. Fa certi pensieri sull’avere le gambe lunghe e i seni grandi, sul contatto di mucose. Pensieri persi nella sua acqua interna. In questo è uguale a Marta, che è rimasta in quel mare senza mai uscirne, senza solidificare. Le due hanno un’intesa segreta quando si vedono: del resto Marta è convinta che la vita vera sia racchiusa tra i dodici e i diciannove anni e il resto sia riempimento sistematico. Così quando i due sono spariti, Chiara è stata l’unica a intuire la cenere e i mandarini maturi.
Giorno cinque
“Moriremo così, non è vero? Sommersi dal catrame, dalle lattine vuote e dai nostri stessi respiri.”
“Se così fosse, a me non dispiacerebbe.”
“Non dai tregua alla realtà, non è vero? Sembra tu non voglia nemmeno tentare.”
“Cosa dovrei tentare?”
“Non lo so… vivere, essere in movimento e seguire un progetto.”
“Dovresti tentare un esperimento. Mettiti a letto, chiudi gli occhi. Immagina di avere in bocca un apparecchio ferroso e duro, di quelli che bloccano l’ingresso al palato.”
“A letto ci siamo già mi pare, chiudo gli occhi.”
“…lo senti? Per la mente quella consistenza esiste davvero: ora estendi questo a tutto ciò che ti circonda ed ecco che spunta l’equazione.”
Sul filo
Ancora che parla di me, quella. Sono le quattro del mattino e non si stanca mai di stare ad osservarmi. Poi ora pure con quello, ne deve parlare. Umani, i soliti. Cosa si prova a essere due occhi neri che trapassano l’atmosfera da finestra a finestra, da palazzo a palazzo, entro un corpo immaginario? È lo stesso che il percepirsi carne e ventre. Per questo scambia il mio alter ego umano con me e viceversa, e devo ammettere che in effetti mi imbarazza quando si mette a ballare così, da solo, Creep dei Radiohead dimenandosi in controluce. Si dimentica di me, suppongo: la sua versione immaginifica. E sbaglia, mi sottovaluta. Comunque anche io vi vedo, e grazie, lo so che sono sexy.
Est. giorno/notte
L’Amerika Silouhette dista cinque metri e tre pollici dalla casa di Marta, lo sfrecciare dei pattini di Chiara sull’asfalto ne disegna almeno sette al giorno in cerchi concentrici: centrini di cemento. Lo yogurt scaduto nascosto nel terzo scompartimento in fondo del frigo di Nando, anche occupa uno spazio misurabile. La traiettoria degli sguardi di tutti quanti insieme, scandisce il tempo: quello delle preghiere degli esuli. Anche la pelle è ambiziosa e ha uno spazio tutto suo: quello tra le dita contrite attorno alla bottiglia di Nando quando qualcuno parte lontano dalla vita dell’Amerika fa colare la ruggine. E le gabbie stesse, poi, da cui cola: acquattate dentro il suo cuore ne occupano uno enorme.
Ma le cosce di Marta? Che spazio occupano nella mente di Luca? Pensava Chiara mentre un paio di nuovi avventori del bar ordinavano a Nando un Gin Tonic: quello lo sanno fare tutti almeno, e poi mi sa che gli altri sono chiusi ormai, pensano i due mentre trascinano dietro di loro due valigie e si interrogano accigliati su quel non luogo che è il triangolo dell’Amerika con il semaforo e l’imms.
E i suoi occhi? Forse lo spazio di un ologramma che vive però un attimo soltanto?
Giorno quattordici
“Era per metterti dentro.”
“Eh?”
“Il piano”.
“Dentro la stanza? Questa parte l’avevo capita”.
“La scatola”.
“…”
“Volevo tenerti un po’ con me… e contarti come faccio con il tempo”.
“E ha funzionato?”
“Non saprei.”
Sulla volta stellata del soffitto di Marta una nuova incisione, scavata con il bordo di un temperino: tra le 15:09 e le 15:11 dormiva e ho contato lui e il tempo, per un momento non è sembrato – non sono sembrati – stare in quel tempo detestabile tra giorno e notte, ma solo tra pellicine trasparenti. Ho contato, mi pare, bene.
La pelle delle dita di Marta vibra appena a contatto con quella delle dita di Luca. I tre moschettieri emettono un lamento di cenere.