L’alba sulla discarica non incantava più Liberio. Da quasi dieci anni lui e Brando rastrellavano rifiuti con l’escavatore fino a quando il cielo si faceva violaceo.
La mattina che Brando gli aveva proposto di seguirlo su al nord, Liberio lo aveva fissato prima con stupore, poi con tristezza. Si era portato più volte le mani ai capelli, quei pochi che teneva raccolti in una cipolla unta dietro la nuca. Era rimasto poi in silenzio tutto il giorno: scuoteva di continuo il corpo magro e dinoccolato all’interno della motrice alla ricerca di idee che dovevano impedirgli di seguire Brando, come se ne andasse della vita, non della sua, non di altri, ma della vita in generale. Infine, immaginò i contorni dolci delle montagnole i cui colori si saturavano al tramonto; i declivi variopinti dove i gabbiani garrivano; l’orizzonte ondulato che gli ricordava il mare festoso di coriandoli del carnevale veneziano, o dell’idea che aveva del carnevale veneziano.
Inutile. Il pensiero tornò al bambino ucciso nella discarica quattro anni prima. Era nascosto fra la spazzatura, e Brando lo aveva impalato con la forca dell’escavatore. Quando il piccolo era scivolato cadavere fra l’immondizia, l’acciaio era rimasto sporco di feci e di sangue. Liberio accettò la proposta del compagno.
Liberio e Brando si ritrovarono con altri ventitré uomini su un puntino della mappa, scosceso e arido e circondato dalla foresta.
Un tipo abbronzato assegnò ai due un’enorme motrice su cui era stata montata la punta di una trivella, modificata con lunghe lame roteanti un poco ossidate. Un ragazzo vicino a Liberio sussurrò che era stata utilizzata per scavare il tunnel di una metropolitana e che quell’uomo era il direttore dei lavori. Mentre i motori sbuffavano una nebbia tiepida e aspra, il tipo abbronzato ordinò agli uomini di guardarsi intorno. Lo fecero. Erano circondati da una muraglia circolare di alberi imponenti. Ancora oltre, c’erano le montagne.
«Certo che è proprio bello qua, non trovate?» disse il direttore.
Qualcuno annuì, tutti rimasero immobili. Liberio osservò le cortecce delle betulle: la loro sagoma sottile ed eretta, protetta da una veste dorata di foglie, gli ricordava un’elegante ragazza che aveva incrociato anni prima sulla riviera adriatica.
«C’è da rimanere sbigottiti» continuò l’uomo «All’alba, dalla terra grassa sale un gas che non sembra di questo mondo. Una volta è arancione, un’altra volta è azzurro. Se ti avvicini scopri una fauna di insetti bizzarri».
Liberio intanto guardava incantato la luce rosa riflessa da un ghiacciaio. Quando tornò ai colleghi, il direttore teneva in mano un’asse di legno.
«Avvicinatevi, guardate che incanto».
L’asse era costellata da una serie di insetti inchiodati per l’addome. Ce n’erano di verdi e di rossi, dagli occhi asimmetrici, triangolari e quadrati. Alcuni muovevano ancora le zampette. Liberio fu attratto da un parassita grigio che agitava le antenne davanti a occhi neri e lucidi. Forse piangeva e non voleva vedere, pensò.
Il direttore ripose l’asse per terra e sorrise.
«E ci sono insetti più grandi e più strani. Se nelle prossime settimane vi si piantano davanti, fate come me».
Mimò goffamente il tiro di una lancia.
Qualcuno rise nervosamente. Altri guardavano perplessi.
«Siete sbalorditi, lo vedo. Ho cercato di indagare questa meraviglia che si rinnova tutti i giorni, a cui non ci si abitua mai. Che diventa fastidiosa e irritante. E sono giunto a una conclusione:» allargò le braccia verso la foresta «tutto ciò non fa per noi. Non ci riguarda».
«È incantevole, però» intervenne Liberio.
L’uomo abbronzato lo squadrò.
«Lo è» disse «Ma è anche disumano».
Dopo ordinò a tutti di mettersi al lavoro.
Tra l’eccitazione generale, Liberio fu uno dei pochi a salire sulla motrice senza particolare entusiasmo. Brando aveva addirittura strappato un lungo e dritto ramo da un albero, gridando che ne avrebbe fatto una lancia per trafiggere ogni insetto nemico. Si sedette poi alla guida, ansioso di macinare legno e fogliame. Diceva di avvertire lo spirito del moderno colonizzatore.
Nei giorni successivi le macchine si allargarono sulla pelle verde di quella terra. In tutto questo Liberio non smetteva di chiedersi a cosa si riferisse il direttore quando parlava di insetti più grossi.
Domandò a Brando se ne avesse qualche idea.
«Secondo me sono i Pialni» rispose.
«I Pialni?»
«Gente che viene dal nord, dice il capo. Si è messa a vivere in mezzo agli alberi, anni fa, forse centinaia di anni fa. Pensa che coglioni! Sono loro per me gli insetti grossi e strani» rise «Parassiti della foresta. Ci vivono come i pidocchi nei capelli. Senza foresta non sono nulla. Noi invece ce la divoriamo la foresta».
Mentre tentava di archiviare il tutto come una ridicola leggenda, Liberio si soffermò sul piacere con cui Brando evocava le azioni assolute ed energiche: conquistare, lacerare, sottomettere. Lo osservava famelico mentre quello schiacciava il piede sull’acceleratore e stringeva in pugno la sua lancia.
«Loro non usano le armi, usano la magia» aggiunse Brando.
Liberio lo guardò in silenzio.
«Sono pidocchi con poteri magici. Ti prendono da dietro, alla testa e ti iniettano un veleno. Un veleno che ti fa dormire e sognare. E perdi la forza, diventi molliccio. Ma non ti uccidono quando sei stordito. Non hanno le palle per uccidere. Ti parlano, ti chiedono, ti mettono in difficoltà. Ti fanno sentire piccolo e indeciso e impotente. Sono dei subdoli bastardi!»
Il lavoro intanto proseguiva tranquillo. Solo, Liberio avvertiva come se la bellezza che stavano calpestando in qualche modo li osservasse.
Una mattina Liberio, andando verso un cespuglio per orinare, sentì un dolore pungente al collo. L’ultima cosa che fece, prima di perdere conoscenza, fu strofinarsi la pelle nel tentativo di lenire quel bruciore.
Si risvegliò che era giorno fatto, in mezzo al bosco, tremante dal freddo. Sopra di lui, molto lontane, le punte degli alberi ondeggiavano al vento. Si guardò intorno. Al suo fianco un vecchio con i capelli mossi e lucenti lo fissava con due dei suoi cinque occhi; gli altri tre, tatuati in fronte e alle tempie, guardavano in alto. Le guance erano marchiate da ghirigori, croci e frecce. Doveva essere un dio nordico.
Nonostante le sue labbra si contorcessero in due bacche gonfie e globose, il vecchio non emetteva parola. Poi la bocca rimase aperta e da quel buco nero uscì un fumo dolciastro e azzurro che investì il viso di Liberio e gli entrò fin nel petto. Quando il fumo diradò, rimase solo un cerchio scuro, che si allargava sempre di più. Liberio ci si infilò dentro: era buio, più nero del buco del serbatoio di una motrice. Spaventato, ora il suo corpo sudava e bruciava. Prese a chiamare Brando implorandolo di aiutarlo. Poi notò un punto bianco, lontano. Tentò di raggiungerlo, forse volando, di certo fluttuando. In poco tempo fu vicino a quello che si rivelò essere un cuore. Un cuore di carne bianca, grosso come un bulldozer. Fu quasi per toccarlo, ma non lo fece: rimase col palmo aperto a pochi centimetri dal muscolo. Il cuore si mise a pompare forte e a ogni battito scagliava come un fulmine un’arteria bianca. In poco tempo fu circondato da milioni di vasi che si incuneavano nell’oscurità, rischiarandola un poco. Si accorse così che il buio era immenso e inesplorabile. Calcolò, o forse solo intuì, che sarebbero occorsi migliaia di anni per spostarsi da un confine all’altro di quel buio. Prima gli venne voglia di esplorare e di lasciare un segno del suo passaggio in quel territorio incontaminato, poi questo desiderio svanì, si tramutò in una sorta di ossessione del passato. Gli venne sete: vide un capillare che pulsava e lo morse. Una sola goccia bagnò la lingua e in quella goccia era racchiuso tutto il suo mondo: la baracca dove il fiume incontrava l’Adriatico, i suoi due figli scalzi che cacavano nella fogna pubblica, il fetore della discarica che portava sempre con sé, la cena a base di polenta e riso, preparata da una moglie rotta, che da anni non alzava gli occhi al cielo. E finalmente il sonno, disperato e livido. Dentro la goccia c’erano la sua sfortuna, gli sgambetti subiti, le sue illusioni e il suo vagare come un randagio in cerca dell’avanzo di un pasto o della pisciata di una femmina. Si guardò intorno: era ormai circondato da un reticolo di arterie larghe come radici e rugose come tronchi millenari, che salivano, scendevano, si sfioravano, si fondevano o si univano attraverso sottili capillari illuminati per una leggera fosforescenza. Un intreccio di unioni organiche in cui ora Liberio non si sentiva più di interferire. Per quale motivo avrebbe dovuto imporre il suo sigillo di uomo? A questa domanda, sentì una fitta al ventre, un dolore che gli impediva di muoversi. Guardò in basso e vide la lancia di Brando, era conficcata nella pancia. Alzò lo sguardo. Davanti a lui la gigantesca motrice fumava e a una lama arrugginita era appeso il cadavere del vecchio, con il cranio dilaniato e un occhio dei cinque orrendamente trafitto dall’acciaio. Cercò di divincolarsi, ma più si muoveva più il suo corpo pesava sulla lancia, provocandogli ancora dolore.
Sentì la voce di Brando. Lo guardò. Gli parve ancora più tarchiato di quanto ricordasse.
«Mi spiace» balbettò questo «È la seconda volta che sbaglio. Prima il bambino, adesso te. Ma mi sembravi proprio come uno di quelli. Anche adesso mi sembri uno di quelli».
Inchiodato all’albero a qualche metro dal terreno, Liberio si dimenò: sentì la schiena sfregare sulla corteccia con un suono strano, come se lì dietro non avesse più della carne e dei vestiti ma un duro carapace.
Rimasero lì ancora un bel po’. Liberio avrebbe voluto chiedere a Brando tante cose. Se stava per morire, se era sua intenzione aiutarlo, se assomigliava più a un uomo o a un pidocchio. Ma soprattutto avrebbe voluto sapere se nel giro di qualche ora sarebbero tornati all’accampamento, insieme sulla motrice, come se nulla fosse accaduto. Solo dopo si accorse che Brando non era in grado di dargli nessuna risposta. Fissava ebete la lancia conficcata nel ventre di Liberio, fiero del suo marchio sull’universo.
[Il racconto “Le azioni assolute” è stato selezionato tra i finalisti del Premio “Petrarca.fv” 2023 (quarta edizione).]