In nome della madre, e del padre

Sentivo ancora le vangate franare sulla bara di mio padre, pesanti più delle sue urla, dei passi quando entrava in casa, e la sua tosse, e un puzzo di sudore e trucioli di legno.

Da una settimana mi svegliavo di soprassalto, le mani schiacciate sul materasso e lo sguardo fisso sull’uscio.
Udivo la sua tosse avvicinarsi. E quella voce!
«E mo’ voglio veré che sfaccimma facite senza ’e me».
Crollavo esausto sul letto e osservavo gli abiti da lavoro gettati su una sedia, il posacenere colmo di mozziconi a ricordarmi la presenza di mio padre. Subito mi voltavo verso la porta e lei era sempre lì. Nel corridoio una flebile luce giungeva dalla cucina a testimonianza che mia madre era sveglia.
Non comprendevo il suo strazio per quell’uomo brutale. Eppure non osavo guardarla in faccia.

Ma una notte la vidi. A passo lento, trattenendo la tosse, mi addentrai nel corridoio. Mia sorella Anna dormiva in camera sua, il lenzuolo le copriva il volto come una sindone. E lei – mia madre – era lì, in cucina, in piedi davanti ai fornelli, i capelli inzuppati di sudore le cascavano sulla vestaglia. Sfregava con foga le piastre. Il suo volto, deformato da un furore ferino, si specchiava nell’acciaio.
Appena le poggiai una mano sulla spalla si scansò e urtò il lavello; iniziò a gettarci dentro pentole, piatti, forchette e bicchieri e a strofinarli con la spugna, le braccia si muovevano come fosse un macchinario di carne.
«Vattene, vai via! Ho da fare! Torna dopo. Dopo!»
Indietreggiai lentamente, senza girarmi, incapace di distogliere gli occhi.
Un istante dopo, il suono della sveglia mi fece voltare verso la porta. Erano le sei.

*

In fabbrica una nube di polvere avvolgeva decine di braccia che brandivano travi di legno, pannelli di compensato e fusti di vernice; il ronzio delle seghe si mischiava alle urla dei mastri.
Spruzzavo di vernice le bacchette, investito dagli stessi vapori che avevano ucciso mio padre, assieme alle sigarette.
Pensavo solo a mia madre.

Tornato a casa, la vidi sfrecciare in camera di mia sorella per poi uscirne carica di lenzuola e correre in bagno. Anna sedeva davanti alla tv, in pigiama, neanche mi vide entrare né si scompose quando nostra madre si fiondò in cucina e si avventò sui fornelli, iniziando a preparare la cena.
Prima di uscire guardai l’orologio: erano le tre del pomeriggio.

*

Non mi capacitavo di come Anna non avesse notato il mutamento di nostra madre. Aveva perso forse dieci chili, i capelli così sottili da sembrare fili di cotone e la pelle ridotta a una pallida crosta, un’ostia. E quegli occhi! Due spilli calcificati in una fissità spaventosa, fermi su qualcosa che non riuscivo a vedere mentre lei schizzava veloce di stanza in stanza, si scagliava sui fornelli per pulirli o si inerpicava sui mobili.

Una sera, uscendo dalla cucina, me la trovai di fronte, sbucata dal nulla.
Mi guardò appena, poi si lanciò sul lavello e cominciò a sfregarlo.
Anna sedeva ancora davanti alla tv.
Sentii la porta di casa sbattere dal fondo del corridoio; dei passi pesanti, qualcosa di strascicato sul pavimento, colpi di tosse.
Mi schiacciai contro un muro alla vista di mio padre apparso dall’uscio, immobile e terrificante, la pancia che gli usciva da una maglietta unta e una smorfia carica di rabbia.
Ci scrutò tutti, poi sciolse le dita callose e la sua borsa da lavoro tonfò sul pavimento.
In quello stesso istante svanì – dietro di me udivo il fragore della retina strofinata sul lavello e mia madre agitarsi come un insetto ferito.

*

Avevo smesso di provare a dormire, la spiavo ogni notte, fumavo una sigaretta dietro l’altra e studiavo i suoi gesti e quegli occhi ciechi, privi di luce. Non mi importava neanche delle assenze al lavoro.
Si consumava. Era di una magrezza mortuaria. Le mani rachitiche seguitavano a sfregare sui fornelli, incessabili. Si logorava assieme allo sporco che raschiava, la sua pelle si sbrandellava e volava via, ridotta a trucioli di carne.
Io mi agitavo nella stanza, cercavo di raccogliere quei pezzi di mia madre ma lei mi scivolava fra le dita, eppure restava lì, immarcescibile, continuando a pulire.

Finché una notte non la trovai più. Era sparita. In cucina la luce era accesa e i fornelli erano puliti, a testimoniare il suo passaggio.
Corsi nella sua camera e, fermo sulla soglia, nel buio riconobbi la sua sagoma stesa a letto. Sembrava che finalmente stesse dormendo, finché li vidi, i suoi occhi: splendevano come fuochi fatui.
Appena provai a sfiorarla con le dita lei roteò le pupille verso di me e pronunciò a stento un sussurro:
«E mo’ come facciamo?»
Chiuse le palpebre e rivolse il volto al soffitto.
«E mo’ come facciamo…» bisbigliò di nuovo. Non disse altro. Il suo corpo parve irrigidirsi.

*

Dopo sette giorni mi chiamarono dal lavoro per dirmi che ero stato licenziato. Seduto fuori la stanza di mia madre, una sigaretta accesa e gli occhi fissi a terra sui mozziconi, aspettavo solo che lei venisse a pulire quello schifo, ma non venne. Da una settimana, a letto, non apriva bocca neanche per mangiare. A stento riuscivo a bagnarle le labbra con dell’acqua. Le cambiavo il pannolone come fosse mia figlia.
Lei restava immobile, le palpebre serrate e il volto contratto dal dolore. Pareva si stesse rimpicciolendo di giorno in giorno, ed era così. Non me n’ero accorto subito. Ormai, però, era ridotta a una bambina, un bambolotto di carne con il dolore di una vecchia.

Avevo provato a spiegarlo ad Anna, ma lei se ne stava tutto il giorno avvoltolata nelle lenzuola, ridotta a una larva. Una notte l’avevo trascinata giù a forza, e lei era caduta sul pavimento come pietrificata, identica alla carcassa di un insetto schiacciato e secco.
Anche adesso stava nella sua stanza.

Dal buio non giungeva un solo rumore, dalla camera di mia madre proveniva uno strano odore dolciastro.
Lasciai cadere la sigaretta e, tossendo, raggiunsi la cucina. Presi dal frigo la cena e entrai nella sua stanza.
Al centro del letto era raggomitolata solo una minuscola pupa dagli occhi chiusi e con un pollice in bocca.
Lasciai il piatto all’ingresso e andai via. Crollai contro una parete del corridoio e in un pesante sospiro cercai di sputare fuori mia madre, mia sorella, la mia vita, ma non uscirono che colpi di tosse, coperti da quelli di mio padre che si trascinava nel buio.
«E mo’ voglio veré che sfaccimma facite senza ’e me!»
Mi tirai su alla svelta e, inseguito dai suoi passi, piombai nella camera di Anna.
Sedeva al centro del letto, nascosta dal lenzuolo. Glielo strappai di dosso, ma lei non c’era. Il letto era privo di ogni traccia di mia sorella, neppure la reminiscenza di un odore.

Schizzai fuori e corsi nel corridoio, i passi di mio padre echeggiavano su pareti e soffitto mentre cercavo in ogni stanza Anna, frugavo nei mobili e spazzavo via dalle scansie libri, vasi e foto di famiglia.
«Anna…»
Avvertii un tonfo alle mie spalle.
Mi voltai di scatto, la borsa da lavoro di mio padre giaceva accanto all’uscio della cucina, un macigno.
Rientrai in cucina e avanzai intorpidito, scrutando ogni anfratto, senza sapere cosa cercassi. I passi di mio padre erano svaniti, restavano solo la mia di tosse e quella borsa lì davanti a me: una bocca spalancata, nera.
La calciai via e, affannato, corsi da mia madre. Il cuore batteva forte assieme alla tosse di mio padre, ma giunto davanti al letto tutto ammutolì di colpo.
Era sparita. Al suo posto c’era solo una pozza di gelatina bianca.
Crollai in ginocchio, incapace di staccare gli occhi da quel liquame: mia madre. Le lacrime colavano sulle guance senza che le controllassi, che le capissi, mentre le mani scorrevano sulle lenzuola fino a sfiorare quel viscidume e a raccoglierlo sui palmi.

Io e mia madre eravamo faccia a faccia, mi parve di vederla muoversi, un misero rigurgito, come l’accenno di una parola. Ma in un istante mi scivolò fra le dita ed evaporò, volò via – solo fumo.

Cascai con la schiena contro una parete, ancora tossendo, a occhi chiusi. Quando li riaprii, granelli di polvere volteggiavano nell’aria, si posavano sui mobili e sul letto dove era scomparsa mia madre.
Indolenzito, mi trascinai in corridoio. Le mura erano scrostate, il fetore di muffa insopportabile.
Mi lasciai andare su una sedia, in cucina, e poggiai i gomiti sul tavolo, osservando i fornelli polverosi, le ante spalancate, i mobili vuoti e un minuscolo uovo marcio.

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